All’interno di una stagione NBA ci possono essere momenti di difficoltà capaci di rivelare se una squadra è veramente tale, e non semplicemente la somma di quindici tizi trovatisi per sorte a vestire la medesima casacca. Il 2015-16 dei Miami Heat è stato difficile, pieno di infortuni e problemi, dai quali è emerso un gruppo capace di vincere 48 partite e di vendere cara la pelle contro i Toronto Raptors, senza rifugiarsi nelle tante scuse che pure sarebbero state disponibili, dall’assenza di Chris Bosh a quella di Hassan Whiteside.

Dwyane Wade e compagni hanno lottato fino all’ultimo secondo di Gara 7 contro Toronto, dimostrando professionalità e cuore, anche quando togliere il piede dall’acceleratore sarebbe stato umanamente e tecnicamente giustificabile. Ora Miami è in vacanza e il duo dirigenziale formato da Pat Riley e Erik Spoelstra dovrà affrontare un’estate che si preannuncia burrascosa, al contempo ricca di opportunità come di pericoli.

Gli Heat avranno sotto contratto solo Goran Dragic, Chris Bosh, Josh McRoberts (potrebbe muoversi già la notte del draft), Josh Richardson e il promettente Justise Winslow. Gli altri giocatori del roster, a partire da Dwyane Wade e Udonis Haslem, diventeranno free agent, creando un complesso gioco d’incastri che richiederà tutta l’abilità di Riley per evitare di presentarsi al training camp con una versione depauperata della Miami odierna.

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Il principale punto interrogativo riguarda ovviamente le condizioni di salute di Chris Bosh, che la prossima stagione sarà a libri per 23.7 milioni, e negli ultimi sei anni ha portato in dote alla causa classe, rimbalzi, difesa e tiro, ma da due stagioni soffre di coaguli di sangue nei polmoni che, se sottovalutati e curati in modo superficiale, ne metterebbero addirittura a repentaglio la vita.

Bosh, undici volte All Star, due volte campione NBA, è stato fermato dai medici a febbraio, e da allora ha tentato più volte di forzare un rientro, scontrandosi con la ferma volontà della squadra di non riammetterlo in campo prima di avere l’assoluta certezza di non mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’ala trentaduenne.

Erik Spoelstra ha purtroppo osservato gli effetti di questo tipo di patologia nel 1990, quando durante un torneo vide morire Hank Gathers, rocciosa ala di Loyola Marymount che pareva destinata ad un sicuro avvenire tra i Pro. Gathers era a conoscenza della propria condizione, ma, spinto dalle ristrettezze economiche della famiglia, smise di prendere le medicine (che ne inibivano la reattività) perché voleva a tutti i costi arrivare in NBA, tanto da imbrogliarsi da solo e convincersi di stare bene quand’era vero il contrario.

Gathers non giocò un solo minuto da professionista; si spense stramazzando al suolo sotto gli occhi di Erik Spoelstra (che giocava per Portland), e questa costituisce una motivazione extra per l’allenatore di Miami, intenzionato a non sottovalutare i problemi di Bosh (l’ala texana ha saltato gli ultimi 38 incontri del 2015, e gli ultimi 29 di quest’annata) fino a quanto i dottori daranno un chiaro ed inequivoco via libera.

Miami sarebbe felicissima di poter riabbracciare il proprio lungo di riferimento, ma l’equipe medica di cui la squadra si avvale, invita alla cautela. Se CB4 non dovesse rientrare prima del nove febbraio (l’anniversario della sua ultima partita), per regole NBA, uno specialista indipendente sarebbe chiamato a stabilire se Bosh è o no in grado di proseguire con l’attività agonistica.

Gli Heat sarebbero comunque tenuti a versargli i 75 milioni che ancora gli devono, ma li eliminerebbero dal salary cap. Ovviamente questa è un’ipotesi che tutti si augurano non debba mai concretizzarsi, ma non di meno, è un’eventualità da contemplare, e che contribuisce a rendere incerti i contorni del futuro degli Heat.

Senza Chris, Miami è andata 19-10 (l’anno scorso invece finirono la stagione 15-15), complice la condizione ritrovata di Wade e l’apporto di un buon nucleo di giovani, che hanno consentito alla franchigia di tornare ai Playoffs dopo il mancato accesso del 2015, il primo dopo il fortunato quadriennio di LBJ in Florida.

Se nel caso dello sfortunato Bosh i dubbi sono riconducibili esclusivamente alle sue condizioni fisiche, vale il contrario per Hassan Whiteside, il devastante centrone che, però, non ha mai convinto fino in fondo dalle parti di Biscayne Bay; dopo le esperienze in Cina, Libia e Libano, Hassan è tornato in patria con un atteggiamento di rinnovata umiltà, ma rimane un bambinone di 26 anni, e questo non piace a Riley (la cui durezza è leggenda sin da quando calcava il parquet in maglia Lakers) e Spoelstra, estensore (tra le altre cose) di un bel volume ad uso interno denominato “The Heat Rules”.

Già, le regole degli Heat; complice l’atmosfera caraibica di Coconut Grove e le spiagge di South Beach (atmosfere che non a caso, hanno attirato due giganti del New Journalism come Tom Wolfe e Joan Didion, che l’hanno raccontata rispettivamente in “Back to Blood” e “Miami”), risulta facile scordarsi che questa franchigia è una delle più professionali, serie e competitive di tutta la Lega, come d’altronde sta a dimostrare anche il vademecum autografato dall’head-coach di origini filippine, nel suo continuo richiamo a sudore e sangue.

Per quanto Whiteside possa aver fatto breccia nel pubblico, Spoelstra e Riley non sorridono, concentrati come sono sulla sua tendenza a invitare gli avversari al tiro per poterli così stoppare, oppure a dimenticarsi di seguirli, preso dalla foga di garantirsi l’eventuale; tutti atteggiamenti che le Regole degli Heat sconsigliano fortemente, così come l’attitudine a prendere le cose come vengono, a ridere e scherzare quando non si dovrebbe, o a non rispettare l’autorità, del coach come dei veterani.

Gli Heat sono un club che ricompensa abnegazione e duro lavoro, come sta a simboleggiare proprio la parabola di Spoelstra, arrivato ai tempi di P.J. Brown e Jamaal Mashburn con compiti di poco superiori a quello dell’uomo delle pulizie, e grado per grado è salito di livello, fino a divenire un coach bicampione NBA, delfino designato alla guida della franchigia che ha non a caso nel totem Udonis Haslem il giocatore più longevo.

Logico quindi che a Miami ci sia una certa perplessità circa l’ipotesi di offrire a Hassan un contratto attorno ai 90 milioni in 4 anni (gli Heat non hanno i Bird-rights su di lui, quindi non possono offrirgli un quinto anno), pareggiando di fatto le bulimiche offerte di altre franchigie nei suoi confronti. Al netto delle bambinate, Whiteside un certo valore naturalmente ce l’ha, ma Riley è (mal) disposto a tollerare certe cose da un giocatore pagato meno di un milione, non certo dalla sua stella più pagata, checché ne dica il Miami Herald (anzi, EL Miami Herald, alla cubana) secondo il quale la firma del centro è la prima priorità estiva degli Heat.

Se il vecchio Pat firmasse Whiteside con un max-contract, questo lascerebbe soltanto 20 milioni circa in spazio salariale, il che significherebbe quasi certamente dar forfait nella caccia alla preda più ambita di questa free agency, quel Kevin Durant al quale Miami può aspirare in modo più legittimo di altre spasimanti, come i Lakers (che hanno un nucleo promettentissimo, ma troppo giovane) o Washington (che non sarebbe certo un upgrade rispetto ad OKC).

Posto che probabilmente KD resterà dov’è (in fondo, si sta giocando le Finali di Conference), Miami offrirebbe all’ala proveniente da Texas University un’organizzazione di primissimo piano, e la possibilità di prendere il posto che fu di LeBron James, formando una nuova versione dei Big Three capace di sfidare Cleveland. In più, e non guasta mai, la Florida è a est del Mississippi, con tutto quel che ne consegue in termini di concorrenza più morbida rispetto a quella della Western Conference.

Comunque vada a finire, Pat Riley dovrà lavorare di psicologia, vendendo bene il proprio progetto alle sue future stelle; se Whiteside sembra intenzionato ad accettare solo e soltanto il massimo salariale, c’è più margine di manovra con Dwyane Wade, reduce da un contratto annuale da 20 milioni (carota elargita in vista del bastone, se ce n’è una). Flash viene da una stagione nella quale è parso ringiovanito (è stata la sua miglior stagione da prima dei Big Three, ha detto Riles, ed è difficile dargli torto), di nuovo capace di quelle giocate che l’hanno reso l’idolo indiscusso della AAA.

D-Wade (tre titoli, un MVP delle Finali) sa di non poter più guidare da solo una squadra all’anello, ma non ha troppa voglia di firmare contratti “alla Duncan”, per cui Miami dovrà essere brava a prospettargli una situazione per la quale valga la pena sacrificarsi (se così si può dire), anche perché la firma di Durant non potrà che passare per una riduzione collettiva dei contratti (come fu per Bosh, James e Wade): è matematica.

Sembra più plausibile che Riley opti infine per il piano B, e cioè insegua un giocatore di caratura inferiore rispetto al numero 35 dei Thunder, tale da essere però complementare ad un progetto di ricostruzione che passa per il tostissimo Justise Winslow (fresco di nomina nel secondo quintetto di rookies), Josh Richardson, e, se non arriveranno offerte impossibili da pareggiare, Tyler Johnson, il playmaker restricted free-agent che ha convinto il presidentissimo Riley a cedere Mario Chalmers.

Luol Deng è stato un professionista esemplare per due anni, ma potrebbe non essere una cattiva idea quella di pagare un po’ più del dovuto giocatori come Harrison Barnes, rinunciando forse a competere immediatamente per il titolo, ma costruendo in vista dell’esplosione di Winslow, rifirmando Whiteside (che, non dovesse convincere, si potrebbe in ogni caso scaricare prima di febbraio dinnanzi alla porta di qualche improvvido acquirente) e attendendo l’evolversi della situazione clinica dello sfortunato Bosh.

Sarà anche importante venire a capo del problema infortuni che affligge la squadra; è un discorso di preparazione imperfetta, oppure si tratta di pura e semplice sfortuna? Quel che è certo è che l’ottimo quintetto di Miami non ha letteralmente mai avuto una chance di provare a competere, arrivando a chiudere i Playoffs con Winslow in versione pivot sottodimensionato, vedendo così sfumare l’ipotesi di una suggestiva Finale di Conference contro James e i suoi Cavs.

Gli Heat sono in equilibrio tra tante prospettive: potrebbero trovarsi a ricostruire quasi da zero, oppure restare intrappolati con una squadra da 45-50 vittorie, o magari, come si spera dalle parti della Florida, potrebbero mettere a segno l’ennesimo capolavoro manageriale, e ritrovarsi nuovamente in prima fila per il titolo NBA, come ai tempi dello “Shaq in Black” o di “The Decision”.

Goran Dragic
, che durante i Playoffs ha risposto con alcune partite incoraggianti, sarà quasi certamente parte importante della squadra (sembrano fantascienza le voci che lo vorrebbero partente in cambio di una scelta di Philadelphia o Los Angeles, sponda Lakers), così come Winslow, ala two-way che combina mani buone e potenza fisica. Richardson troverà sicuramente spazio, e probabilmente rimarrà anche Tyler Johnson, il genere di ragazzo tutto lavoro e asprezza che sembra tagliato dal sarto per lo “stile-Heat“.

Goran, Justise, Josh e Tyler sono ottimi giocatori, ma in quale cornice agiranno? Se saranno gli attori protagonisti, è probabile che gli Heat faticheranno nell’immediato a raccogliere risultati, ma se viceversa a ripresentarsi a South Beach sarà il gruppo di quest’anno, opportunamente puntellato dai rinforzi, torneranno a esserci ottimi motivi per preferire i seggiolini dell’American Airlines Arena a una gita baciata dal sole tra le Florida Keys.

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