Gara 6 è molto più del classico elimination game: oltre alle logiche conseguenze in caso di passaggio del turno per i Thunder e di eliminazione per gli Spurs, questa partita potrebbe anche essere (per i primi) decisiva per convincere Kevin Durant che rimanere in Oklahoma rappresenta la scelta migliore per lui ma anche (per i secondi) essere l’ultima occasione di vedere Tim Duncan e Manu Ginobili su un parquet della NBA.

La rumorosissima Chesapeake Energy Arena, il fatto che Durant-Ibaka-Westbrook non abbiano mai perso una serie quando in campo insieme, la striscia aperta di due vittorie consecutive, il record negativo di 2-10 negli elimination game in trasferta per Popovich, l’età media avanzata degli Spurs. 

Tutti questi punti sembrano far pendere la bilancia del pronostico decisamente dalla parte dei Thunder, ma troppe volte in passato gli Spurs hanno risposto presente nelle situazioni di difficoltà per poterli dare per spacciati.

Mi piace sempre cominciare la cronaca delle partire raccontando i primi possessi, perché spesso da quei secondi iniziali si riesce ad intuire quello che sarà l’andamento della gara, perlomeno in termini di approccio ed energia. 

In questo caso però, dopo la contesa vinta da Duncan, Aldridge tira lunghissimo un mid-range non contestato e subito dopo Westbrook perde una banale palla palleggiando in mezzo all’area avversaria. Nè vinti nè vincitori quindi, ed è il preludio ad inizio di primo quarto estremamente nervoso in cui le due squadre faticano a trovare la via del canestro. 

Per San Antonio segnano solo Aldridge e Duncan (3 su 3 per lui in avvio), per Oklahoma City c’è Westbrook che fa e disfa mentre Durant rimane a terra dopo un contatto sotto canestro, per fortuna senza conseguenze.

Dopo eoni si rivede in campo Kevin Martin, ma l’ingresso suo e degli altri panchinari non è felicissimo: Popovich commenta con un delicato “We substituted and we went crap” (che tradotto farebbe più o meno “Abbiamo fatto le sostituzioni e tutto è andato in mer*a), perché i cambi coincidono con un parziale di 12-0 con cui i Thunder chiudono la prima frazione in vantaggio 25 a 19.

Parziale che in apertura di secondo quarto diventa un’onda di piena che travolge completamente i nero-argento. I Thunder cominciano piano ma dalla metà del quarto in poi volano con un altro clamoroso break di 20-2 e vanno all’intervallo avanti addirittura di 24 punti. 

Gli Spurs sembrano un ciclista in crisi di fame sulle rampe del Mortirolo e pare quasi che il canestro dei Thunder sia coperto da una schermata di plexiglass: i guerrieri in bianco riempiono costantemente l’area ed escono furiosamente per i close-out sui tiratori da tre punti, sfidando gli speroni a prendere un tiro dalla media che non entra neanche a pagare oro (5 su 27 nei tiri oltre i 4 metri ).

Atleticamente la partita non esiste neanche, ma quello che mi colpisce davvero è che raramente ho visto una squadra di Popovich così in difficoltà tecnico-tattica. Finalmente in apertura di secondo tempo si vede il quintetto piccolo con Aldridge da 5 e Green da 4, ma la palla continua sempre a muoversi troppo poco. 

I Thunder sono letteralmente ovunque e Robertson, che non sarà un fine dicitore ma lotta come un leone, tuffandosi a terra strappa la palla a Leonard in un’azione che rappresenta la fotografia perfetta della partita: OKC ne ha semplicemente di più e appena parte in contropiede sono “volatili per diabetici” (cit.).

Con i quattro piccoli di San Antonio il campo si allarga un po’ in attacco (rientra Duncan ma sostituisce proprio Aldridge) e alcune penetrazioni di Leonard e un paio di triple di Danny Green danno finalmente  un po’ di ossigeno agli Spurs. 

Donovan però non molla la strutturazione a due lunghi e con questo assetto Adams e Ibaka a rimbalzo fanno il vuoto, ci sono una marea di seconde opportunità in attacco per i padroni di casa e la terza frazione si chiude sul 91 a 65 per OKC.

L’ultimo parziale sembra poter essere un classico quarto di puro garbage-time, ma San Antonio attinge per un’ultima volta alla propria smisurata riserva di orgoglio e mette incredibilmente paura ai Thunder tornando fino al -11 a poco meno di tre minuti dal termine. 

OKC però non perde la calma e una tripla e due penetrazioni consecutive di Westbrook mettono la parola fine alle residue speranze dei texani. Gli Spurs vanno così in vacanza con la testa piena di cupi pensieri su una offseason arrivata ben prima del previsto, mentre i Thunder volano già con la fantasia ad una finale di conference da sogno contro Steph Curry e i Golden State Warriors.

Quali sono le conclusioni da trarre dopo una bellissima serie, che è stata comunque molto combattuta?

Gli Spurs hanno sicuramente deluso, soprattutto non sono stati in grado di rispondere all’intensità e alla determinazione messa in campo dagli avversari. Duncan lascia probabilmente la pallacanestro giocata con la miglior gara della sua serie (19 punti), ma è apparso di colpo “vecchio” proprio quando ci eravamo tutti convinti che fosse immortale. 

Aldridge ha dominato le prime due gare ma poi è andato progressivamente sparendo mentre Leonard ha fatto quello che poteva ma è sembrato un po’ solo, abbandonato anche da una panchina (in senso ampio includerei nel discorso anche Popovich e il resto dello staff tecnico) che nel corso della regular season era stata impeccabile ma in questa serie non ha mai fornito un contributo tangibile.

Oklahoma City torna invece alla finale dell’Ovest per la quarta volta nelle ultime sei stagioni e ci arriva con una convinzione che probabilmente un mese fa non aveva. Il potenziale offensivo è sicuramente in grado di infastidire anche la Golden State dei record, se poi anche la difesa resterà ai livelli espressi in questa seri, allora ci sarà sicuramente da divertirsi. 

Durant ha dimostrato di essere un giocatore eccezionale (37 anche nella gara di ieri sera), Westbrook un suo degno pari (28 e 12 assist). Adams, Robertson, Ibaka, Waiters, Kanter, tutti i Thunder hanno dato il loro contributo in queste sei partite, ma quello che personalmente mi ha più sorpreso è stata la lucida gestione tattica di Billy Donovan.

Il coach ex Florida, alla sua prima stagione da capoallenatore NBA, per gran parte della stagione è sembrato ben poco rivoluzionario rispetto alla tanto vituperata gestione Brooks, ma forse aveva semplicemente capito che non serviva alcuna rivoluzione copernicana, bastava solo instillare nei suoi i concetti giusti al momento giusto. 

Nel corso di questi playoff ha già incontrato e sconfitto i due allenatori forse più preparati della Lega, dimostrando un’invidiabile fiducia nelle sue convinzioni tattiche.

In questa serie ha deciso di concedere sistematicamente il tiro dalla media  ad Aldridge, non ha mollato dopo che l’ex Portland aveva impallinato i suoi con 38 e 41 punti delle prime due gare e ha finito poi per raccogliere i dividendi nel lungo periodo nella mossa che si è rivelata probabilmente quella vincente per gli equilibri dell’intero confronto di semifinale. 

Vedremo se saprà trovare un modo anche per fermare l’inafferrabile Curry, sicuramente i Thunder arrivano alla finale della Western Confence da sfavoriti ma non per questo poco pericolosi.

Per chiudere, mi permetto di aggiungere una considerazione di carattere personale, ma credo condivisa dai molti che spero leggeranno questo articolo. Da tifoso sfegatato dei Dallas Mavericks, le sfide contro San Antonio sono sempre state quelle per me più sentite e i giocatori degli Spurs sono stati il bersaglio di molti miei “accidenti” di fronte al televisore. 

Questo non toglie, anzi forse aumenta, il rispetto che ho sempre provato per due giocatori come Duncan e Ginobili, che potranno aver giocato ieri la loro ultima partita NBA ma che saranno da me (e da milioni di altri appassionati di basket in giro per il mondo) per sempre ricordati come dei campioni di tecnica, di passione e di classe.

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