Atlanta esce di scena ma lo fa sbattendo la porta, coronando di un finale con gli effetti speciali una serie intrigante ma che ha vissuto meno colpi di scena del previsto.

La partita non è tra le più belle di questi playoff, nessuna delle due squadre è ispirata al tiro come in gara 3. Gli Hawks partono bene, guadagnando 12 punti di vantaggio, ma si spengono alla distanza; è successo in ognuno dei quattro confronti, segno inequivocabile di un motore che va fuori giri per stare al passo con gli avversari.

Cleveland, da par suo, è con la testa già alle finali di Conference e va a sprazzi, dietro alle lune del suo leader che vive un pomeriggio di alti e bassi.

All’intervallo lungo il punteggio è 58 a 56 per la squadra di casa, le difese non brillano ma affilano le armi negli spogliatoi.

I Cavs tornano sul parquet caricati a molla e prendono subito il comando; la mano calda stavolta è quella di Kevin Love, 8 triple a segno per un totale di 27 punti conditi da 13 rimbalzi (la sua imprecisione nei pressi del ferro però desta qualche preoccupazione).

LeBron James manovra i blocchi a suo piacimento e lo pesca con lo skip pass sul lato debole, fa sembrare facile una soluzione che la maggior parte dei giocatori non vedrebbe nemmeno.

Dall’altra parte coach Budenholzer sceglie di non mettere altra carne sul fuoco e si affida allo stesso gameplan di gara 3. Ha fiducia che i suoi possano portare a casa una vittoria se giocano la partita perfetta, e infatti ci vanno vicini.

Mike Scott è definitivamente panchinato e si apprezzano minuti di sostanza di Kris Humphries anche nel terzo quarto, come suggerivamo proprio su queste pagine.

A un Teague frustrato e con la caviglia che non gli dà pace preferisce la lucida – si fa per dire – follia di Dennis Schroder che sale sugli scudi quando, a metà terzo quarto, le energie calano e gli schemi si sfilacciano. È il terreno di caccia preferito per i suoi isolamenti, per il suo primo passo mortifero. Si mette in ritmo attaccando il ferro e torna a scoccare tiri dalla distanza con ritrovata fiducia.

L’attacco di Atlanta è orfano di un Korver impalpabile e di un pacchetto lunghi che non incide, nonostante le buone cifre. Il tedesco se lo carica sulle spalle e conduce i suoi all’aggancio.

A forza di giocare sul velluto, intanto, Cleveland ha smarrito l’inerzia. Quando i tiri da 3 smettono di entrare, con un JR Smith annullato dalla difesa di Atlanta, tocca a James cercare la soluzione di forza ma questa sera il tocco nei pressi del canestro non è dei migliori, disturbato dai rim protector in maglia Hawks.

Il tabellino finale è sontuoso, 21 punti 10 rimbalzi e 9 assist, ma con tanti errori dal campo e qualche segnale di stanchezza. Tyronn Lue indugia fin troppo a far riposare lui e Irving in panchina, si affida al quintetto con Love e Frye a fare coppia nel pitturato e apre la porta alla rimonta di Atlanta; Schroeder si mangia i due lunghi sui pick and roll.

L’ultimo periodo è teso, confuso, spezzettato dalle chiamate arbitrali e dagli instant replay, e si gioca quasi tutto punto a punto. Lo decide, manco a dirlo, LeBron James.

Dopo un pomeriggio passato a sparare a salve segna i due tiri più importanti con la freddezza del campione, uno nel traffico e l’altro con un jumper da fermo in faccia a Paul Millsap.

Atlanta ha due chance per pareggiare e passare in vantaggio ma Schroeder, che per non sbagliarsi ormai non la passa più, si schianta sull’ottima difesa Cavs. Tristan Thompson, che torna in campo imbracciando l’accetta, non si fa battere dal palleggio e lo stoppa; all’azione dopo lo contiene senza fare fallo e lo indirizza nella trappola di James, appostato per trafugargli la sfera e forzare una palla a due che chiude, di fatto, partita e serie.

Per i Cavs si prospetta un’altra settimana di riposo in attesa del prossimo sfidante da scegliersi tra Miami e Toronto. Nessuno dei due gli disturberà il sonno.

Quella con Atlanta aveva tutti i crismi della finale di Conference anticipata eppure se ne sono sbarazzati con autorità, anche se non senza patemi. Coach Lue dovrà stare attento a non adagiarsi sugli exploit al tiro dalla distanza, che potrebbero non ripetersi contro una difesa più aggressiva sul perimetro, e metterà sotto torchio le lacune nel gioco interno dei suoi.

La squadra ha però maturato una fiducia straordinaria nell’arco di sole otto partite, galvanizzata dalla possibilità di giocare i playoff coi ranghi al completo e tutti gli uomini in salute (persino Iman Shumpert, cliente da sogno di ogni fisioterapista, salta come i primi anni di New York). Viene da chiedersi come reagirà Cleveland a un’eventuale prima sconfitta, se sapranno attingere a quelle energie di riserva che paiono avere a disposizione.

C’è stato anche tempo per sperimentare soluzioni tattiche che potrebbero tornare utili in futuro, come l’accoppiamento tra Frye e Love che fornisce a James lo spazio di inventare in pitturato, in penetrazione oppure in post, con quattro tiratori pronti a punire dagli scarichi.

Assomiglia tanto al modus operandi dei Miami Heat campioni 2012 e 2013, un piano che lo scorso anno David Blatt non si trovò mai a attuare. Channing Frye non ha l’ombra dell’atletismo di Thompson e Kevin Love è meno svelto in difesa di un Chris Bosh, ma entrambi tengono botta coi lunghi più statici. Proteggerli sarà cruciale per sfruttarli come arma tattica.

Atlanta esce combattendo, ma piegata nell’orgoglio e delusa nelle aspettative. Se lo scorso anno si giustificavano con gli infortuni e le assenze, a questo giro non c’è nessuna scusante per lo sweep subito.

Tra i lati positivi hanno scoperto l’abnegazione e la vena realizzativa di Schroeder e Bazemore, ma i suoi pezzi da novanta non hanno lasciato il segno.

Se il primo turno li collocava nettamente una spanna sopra i Celtics, l’eliminazione appena incassata mostra che una distanza forse maggiore li separa dai Cavs. Il giudizio in pagella è l’ennesimo rinvio a settembre; bene, ma non benissimo.

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