No, il titolo non si riferisce al modesto film dove un giovane Kevin Bacon ammaestra un nerboruto keniota alla pallacanestro (cercate su Wikipedia se l’avete, comprensibilmente, dimenticato).

Parliamo invece delle nuove vette dove Aaron Gordon e Zach Lavine ci hanno accompagnato nello Slam Dunk Contest di sabato scorso. O meglio, vette che avevamo dimenticato o che i più giovani di noi non avevano mai sperimentato.

Quattro schiacciate regolari una più bella dell’altra più due supplementari, generosamente concesse dai voti faziosi dei giudici, in particolare da quel 9 di Shaquille O’Neal per cui Aaron Gordon grida ancora vendetta.

Forse meritava lui la vittoria finale, per l’originalità dimostrata, ma va bene così. Forse era tutto già scritto e quelle due schiacciate extra che sostengono di aver improvvisato, in realtà erano state provate e riprovate. Se anche fosse, va bene così.

Lo Slam Dunk Contest 2016 ha avuto il merito di riportare indietro l’orologio alle performance iconiche che hanno segnato la storia recente di questo sport e l’immagine stessa della NBA; vi dice niente il logo di una nota marca di abbigliamento sportivo, sdoganata anche tra i non addetti ai lavori?

Noi europei, che non concepiamo lo sport senza competizione, possiamo storcere il naso ma l’NBA è spettacolo e l’All Star Weekend è la sua celebrazione. Chi è capace di apprezzarla, raramente si è divertito come sabato notte.

Si sono viste cose nuove, dimostrazioni di atletismo e coordinazione mai tentate prima. L’ultima schiacciata regolamentare di Aaron Gordon resterà negli annali come il fermo immagine dell’evento, con lui che si siede in aria nascondendo la palla sotto entrambe le gambe. ESPN, tramite la sua linea Sport Science, ha mostrato come Gordon abbia portato il bacino a un livello che gli avrebbe consegnato un bronzo olimpico nel salto in alto.

Vero è che bisogna superare l’asticella anche coi piedi e che lui ha rubato qualche centimetro di spinta nel raccogliere la palla, ma rimane un dato impressionante. I saltatori in alto svolgono allenamenti specifici, utilizzano il più pratico stile Fosbury per superare l’asta di schiena e non hanno la distrazione del dover inchiodare un pallone nel canestro.

Lavine, dal canto suo, ha chiuso la gara con una between the legs decollando dalla linea del tiro libero; soltanto James White l’aveva proposta nei suoi show in giro per l’Europa.

Oltre a questo, il vero sale della competizione è stato il perfetto mix di agilità e potenza mostrato dai due. Schiacciate riuscite quasi sempre al primo tentativo, senza annoiare il pubblico, inchiodate al ferro senza ripensamenti dopo fasi aeree di pura poesia. Si è tornati a valutare la bellezza del gesto, oltre all’originalità e alla reazione suscitata.

I paragoni illustri, manco a dirlo, si sono sprecati. Si è parlato del duello epico tra Michael Jordan e Dominique Wilkins nel 1988, con la succitata schiacciata da trademark di His Airness.

Si è tirata in causa l’epopea di Vince Carter e il suo trionfo datato 2000, impreziosito dalle performance dei rivali Tracy McGrady e Steve Francis.

Per trovare un riferimento più recente, in anni di Dunk Contest incolori, bisogna tornare al Dwight Howard del 2008. Meno qualità e fin troppi accessori per fare scena, ma chi non si emozionò, almeno un pochino, nel vedere il gigante di Orlando spiccare il volo poco oltre la lunetta, col mantello di Superman che garriva in aria, e gettare brutalmente la palla nel canestro? O l’anno successivo, con la sfida tra lui e il pluricampione Nate Robinson che impersonava la kryptonite. Momenti memorabili, anche se pericolosamente tendenti al trash.

Non a caso, la deriva macchiettistica ha finito per allontanare il Dunk Contest dal suo proposito originale, disaffezionando i fan più assidui e fallendo nello stuzzicare l’interesse dello spettatore occasionale.

Dopo un paio di maldestri tentativi di cambiamento si è saggiamente tornati all’ABC, all’arte della schiacciata esibita da grandi atleti. Una ricetta fin troppo semplice all’apparenza.

I tempi, tuttavia, sono cambiati. Del 1988 ricordiamo i nomi di Jordan e Wilkins, non soltanto le loro schiacciate. Due grandi della palla a spicchi, come in misura diversa diventarono anche Vince Carter e T-Mac.

Difficilmente tra quindici anni ci ritroveremo a parlare delle carriere di Aaron Gordon e Zach Lavine, ma se l’NBA da un lato rinuncia ai grandi nomi dall’altro si fa furba e strizza l’occhio ai dunker professionisti, un mercato in rapida crescita; i due mostri atletici in questione hanno poco da invidiare nei loro confronti.

Zach Lavine ne ha fatto un proclama: “Io e Aaron abbiamo improvvisato schiacciate che un dunker professionista prepara con molti tentativi”.

Sottintesa nelle sue parole poco felicemente articolate c’era la modestia, l’evidenziare quanto il loro duello fosse stato un caso più unico che raro, e la lega ha rafforzato il concetto invitando Jordan Kilganon, sensazione di YouTube, a esibirsi durante l’All Star Game.

Coi jeans e senza neanche scomporsi, ha regalato alla platea una schiacciata che al Dunk Contest forse non vedremo mai. Anzichè nascondere la distanza la NBA, saggia nel marketing come sempre, la mostra apertamente e cerca di ridurla il più possibile. Ben fatto, anche se con qualche anno di ritardo.

Con uno Slam Dunk Contest dallo smalto ritrovato il sabato si impone prepotentemente come la punta di diamante dell’intero weekend. Lo Skills Challenge è un piacevole antipasto e la gara del tiro da 3 punti acquista sempre maggiore rilievo, vuoi per la crescente importanza del suddetto fondamentale, vuoi per la partecipazione di nomi illustri. Quest’anno non poteva concludersi in maniera migliore, con i due Splash Brothers a contendersi la corona.

La gara della domenica ne esce ridimensionata, perlomeno agli occhi di uno spettatore smaliziato. Quello che dovrebbe essere il main event della manifestazione assomiglia minacciosamente a 48 minuti di cura per l’insonnia.

Nessuno pretende una partita all’ultimo sangue, ma se l’intrattenimento si sposta del tutto fuori dal campo è palese che siamo di fronte al proverbiale elefante nella stanza.

Fa sorridere pensare alle telecamere che indugiavano su coach Pop e James Harden, ben più divertiti e coinvolti nell’ammirare l’acrobata da circo che si esibiva all’intervallo che in tutto il resto della serata. Similmente, ci è voluta la schiacciata del già citato Jordan Kilganon per destare il pubblico dal torpore.

Si è molto discusso in questi anni su possibili cambiamenti di formato per risvegliare il gusto della sfida tra i giocatori, per fare sì che combattano non tanto per la vittoria finale quanto per gli applausi dopo una giocata spettacolare.

Ci basterebbe il clima di un playground in tarda serata per essere felici, quando tanti se ne sono andati, l’agonismo si è spento ma l’orgoglio di chi vive con una palla arancione sul cemento è fermo al suo posto. Tempi che cambiano, forse, culture che cambiano.

Organizzare una sfida USA contro il resto del mondo? Assegnare premi più cospicui? Consegnare il vantaggio del fattore campo nelle Finals alla conference che vince la partita?

Tutte soluzioni su cui vale la pena riflettere, soprattutto la prima, ma senza aspettarsi risultati.

Lo Slam Dunk Contest è tornato a brillare dopo aver abbandonato le sperimentazioni. Ha recuperato la radice del formato classico.

Sarebbe bello che si potesse fare altrettanto anche per la partita della domenica ma per il momento noi appassionati dobbiamo prendere l’All Star Game per quel che è, una festa, e forse rassegnarci.

Tempi che cambiano, culture che cambiano. L’aria lassù in cima, però, rimane la stessa.

2 thoughts on “The Air up there: Gordon vs Lavine

  1. Bello! Da non-spettatore dell’All Star da tempi immemori, mi hai fatto venir voglia di ritornare a dare un’occhiata!

  2. Grazie! Il sabato merita alla grande, secondo me. Sulla domenica stendiamo un velo pietoso… Basti dire che i momenti più divertenti sono stati i due acrobati di cui sopra e l’onnipresente Drake che nella presentazione si arruffianava i giocatori come un gatto (con conseguente imbarazzo quando Westbrook e Bryant l’hanno bellamente ignorato).

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