Alzi la mano chi aveva pensato, dopo l’abbandono definitivo del progetto Big Three, che i Boston Celtics sarebbero tornati tra i piani alti della Eastern Conference in meno di 3 anni.

Era la draft night del 28 giugno 2013: Paul Pierce e Kevin Garnett vengono spediti a Brooklyn.Un’operazione che segna la svolta decisiva in un processo di smantellamento progressivo che si concluderà con la trade di Rondo un paio di anni dopo.

Una manovra controversa, come già era stato l’addio di Ray Allen l’estate precedente. Danny Ainge, abbaiavano i critici, non aveva mostrato il necessario rispetto per la maglia coinvolgendo in una banale mossa di mercato due autentiche bandiere. Una decennale, come The Truth, l’altra da poco stabilitasi in città, The Big Ticket, ma da subito anima della squadra.

Insieme ai Lakers i verdi di Boston sono forse l’unica franchigia a potersele ancora permettere, le bandiere, in virtù di quel Celtic Pride di cui ogni tifoso va fiero. Un orgoglio che tuttavia venne accantonato in quella notte di giugno, in cui Boston si ritrovò dalla parte vincente dello scambio mentre i Nets si affossavano con le proprie mani.

Messi da parte i tuffi al cuore e i lucciconi agli occhi, i Celtics salutavano due giocatori on the way out e acquisivano contratti spendibili oltre a un vasto assortimento di scelte al draft. Un bottino ricco, ad oggi consumato solo in parte, su cui si fondava ogni possibilità di ricostruzione.

E ai piani alti volevano che fosse una ricostruzione veloce e concreta, lungimirante ma con un occhio ben fisso sul presente, ben diversa da quella schizofrenica messa in atto dai 76ers qualche centinaio di miglia più a sud. E così è stato.

I Celtics non hanno ancora raggiunto nessun obiettivo ma difendono saldamente una posizione ai playoff in una Eastern Conference che si è fatta improvvisamente più competitiva, vantano scalpi illustri e mostrano un gioco piacevole e ben strutturato. Non è abbastanza per soddisfare i tifosi esigenti di una città abituata a vincere, ma basta per affermare che Danny Ainge ha avuto ragione, il GM col dito sempre pronto sul grilletto della trade.

Non ha avuto paura di scambiare i suoi asset migliori (non solo Rondo ma anche Jeff Green) appena ha intravisto la possibilità di capitalizzare in risorse utili e in giocatori meno talentuosi ma più futuribili.

Ha scelto su chi puntare, Avery Bradley, e non è tornato sui suoi passi. Non si è scomposto quando ha incassato i no dei free agent più appetibili nelle scorse estati e ha proseguito per la sua strada.

Non ha avuto paura, e probabilmente è questo il suo merito più grande, nemmeno di affidare le chiavi della squadra a un coach giovane, prodigioso con la sua Butler in NCAA ma a digiuno di esperienze tra i professionisti. Parliamo di Brad Stevens.

Gli ha dato fiducia anche dopo un inizio zoppicante, una mossa coraggiosa quella di scommettere su un piano a lungo termine in un periodo in cui le panchine scottano, e lui l’ha ripagato coi risultati già dal secondo anno.

Stevens è la pietra filosofale che trasforma il piombo in oro o, se vogliamo calare il livello della metafora, permette alla dirigenza di fare le proverbiali nozze coi fichi secchi.

Tra i suoi pregi quello di aver spremuto ogni goccia da pedine di scambio ammassate senza particole criterio, rendendo i vari Jerebko, Zeller, Turner credibili giocatori da rotazione quando non qualcosa di più; è il caso di Jae Crowder, starter a tempo pieno e rivelazione della stagione in corso.

Tra i suoi pregi maggiori c’è quello di aver motivato e mantenuto unito un gruppo dove, visti i precedenti, devi abituarti a dormire con la valigia sempre pronta.

Il GM lo ha aiutato rifornendolo di giocatori duttili, intelligenti e con poche pretese, vuoi perché in rampa di lancio o perché in cerca di riscatto, e lui ha plasmato un’organizzazione egualitaria che, tra le franchigie NBA, è quella che più si avvicina a una squadra di college.

E non mi riferisco a una di quelle ipertrofiche e iperpubblicizzate, come la Duke o la Kentucky di turno, quanto proprio alla realtà modesta di una Butler. Nella truppa di Stevens vige un motto: tutti sono importanti, nessuno è indispensabile.

Una volta impresso nelle menti di chi scende il campo il coach lavora col pilota automatico e rispecchia questo credo con le sue scelte tecniche. Boston è tra le squadre che più frequentemente cambia il quintetto iniziale e che distribuisce più equamente i minuti a disposizione.

Ci si adatta all’avversario piuttosto che imporre il proprio gioco, chi è in forma va in campo e chi ha bisogno di rifiatare può farlo senza pressioni. Va da sé che i giovani sono i principali beneficiari di questo modus operandi.

La pazienza con cui è stata gestita la crescita di Marcus Smart e Kelly Olynik, ad esempio, sta dando i suoi frutti; se anche il primo non diventerà mai l’all-star che alcuni si aspettavano proverà sicuramente il suo valore come sesto uomo di lusso o preziosa merce di scambio.

I C's vantano il quarto miglior attacco nella lega, figlio di un gioco veloce (quinta nei punti in contropiede), efficace (terza per percentuale di canestri su assist, il 62%) e bilanciato tra pitturato, media distanza e tiri da 3. La difesa non è agli stessi livelli ma è prima per punti concessi in contropiede. I lunghi soffrono: male i rimbalzi e pessima la percentuale di layups concessa.

I C’s vantano il quarto miglior attacco nella lega, figlio di un gioco veloce (quinta nei punti in contropiede), efficace (terza per percentuale di canestri su assist, il 62%) e bilanciato tra pitturato, media distanza e tiri da 3. La difesa non è sugli stessi livelli ma è prima per punti concessi in contropiede. I lunghi soffrono: male i rimbalzi e pessima la percentuale di layups concessa. I pochi punti facili ottenuti sotto canestro inficiano la percentuale effettiva dal campo della squadra, ventunesima nella lega.

Fatte le dovute proporzioni, l’evoluzione di questi Celtics ricorda quella degli Atlanta Hawks. Due squadre costruite metodicamente anno dopo anno, senza grossi colpi di mercato, ben allenate e capaci di sfruttare al massimo interpreti modesti o limitati al ruolo di specialisti.

Ai verdi manca l’esperienza e il peso sotto canestro che gli Hawks possono vantare, difficilmente poi riusciranno a imitare l’exploit della franchigia della Georgia dell’annata 2015, ma hanno dalla loro gambe più fresche – una nota statistica rilevante: guidano la lega nel limitare i punti in contropiede degli avversari.

Tuttavia, se c’è un insegnamento che si può trarre dalla cavalcata di Atlanta dello scorso anno è che tra un’ottima squadra e una credibile pretendente al titolo passa una grande differenza. Grande grossomodo quanto il go to guy che manca a entrambe e che le loro dirette concorrenti possono sfoggiare in molteplice copia.

E’ facile prevedere che Danny Ainge deciderà prima o poi di fermarsi alla cassa e convertire in dollari sonanti le chips che ha accumulato, per portare sul parquet incrociato del TD Garden almeno un pezzo da novanta. Non a caso le voci su una trade per Demarcus Cousins si rincorrono da tempo, e recentemente si sono affiancate a un interesse per Danilo Gallinari.

Entrambi sarebbero due ottimi innesti, sulla carta. L’esatta tipologia di giocatore che servirebbe a Stevens per stabilire precise gerarchie in campo e infondere talento a due reparti, le ali e i lunghi, popolati da onesti mestieranti con pochi punti nelle mani.

Per mettere sotto contratto un paio di nomi altisonanti, che siano i due summenzionati o più probabilmente altri, “basterebbe” rinunciare a scelte al draft – ma quella proveniente dai Nets è particolarmente golosa -, qualche contratto in scadenza e un giovane di pregio. Jared Sullinger è l’indiziato numero uno a questo proposito, l’odd man out della situazione.

E’ il lungo più talentuoso della banda ma al tempo stesso è il meno costante nel rendimento e, soprattutto, la sua scarsa dedizione al sacrificio non va d’accordo coi metodi spicci di Brad Stevens.

Il sogno di vederlo finalmente dimagrito e in assetto da corsa, dopo due estati di annunci mai andati a buon fine, si è ormai dissolto. Persino Marcus Smart potrebbe finire sul piatto della bilancia, se Ainge volesse davvero puntare in alto.

Avery Bradley appare intoccabile e lui gli assomiglia fin troppo. Non è un playmaker, non è un realizzatore, bensì un difensore tra i più tenaci.

La rotazione a tre con Isaiah Thomas sta funzionando ottimamente nonostante i dubbi degli esordi. Merito della stagione sopra le righe dell’ultima scelta assoluta del draft 2011, approdato a Boston con tanto di confezione regalo nei saldi di gennaio e rapidamente trasformatosi in un leader sul parquet, un attaccante tra i più prolifici della lega al punto di meritare la chiamata all’All Star Game.

Le sue percentuali sono irreali, considerando la difficoltà dei tiri che si prende. Sempre contestati, che sia sul perimetro o nei pressi del ferro, dove converte con un’efficacia disarmante per un giocatore della sua limitata statura.

Tutti segni inequivocabili di un’annata di grazia, di un performer in piena fiducia di se stesso, della squadra e dell’allenatore. Brad Stevens ha fatto il bis con la sua magia. “La nostra squadra è differente quando lui ha la palla in mano”, ha dichiarato recentemente. Fra i tre piccoli, in sostanza, l’uomo con la valigia è sicuramente Smart.

Ma il giocattolo continuerà a funzionare anche cambiandone i pezzi? I Celtics hanno tutto il diritto di lasciarsi ingolosire dalla buona annata e andare all-in per rinforzare il roster ma rischiano portare il loro coach su un terreno inesplorato.

Con una canonica squadra NBA da gestire, e con personalità più ingombranti da tenere a bada, la mentalità da college potrebbe non bastare più condannando Boston a un triste limbo; hai speso le tue risorse, e interrotto una crescita lenta ma costante, per vincere subito ma devi nuovamente pazientare affinché coaching staff e giocatori ritrovino la sintonia.

A meno che Stevens non tiri fuori un altro coniglio dal cilindro, ma è difficile pretendere da un trentanovenne la capacità di adattarsi in corso d’opera di un allenatore navigato, è verosimile che qualcuno si stufi prima del dovuto, come sta accadendo in giro per la lega in questi stessi giorni.

L’alternativa è che Danny Ainge allenti per una volta la presa sul grilletto, mettendosi magari in moto per un solo innesto di spessore che non alteri a dismisura la struttura attuale. Per questo motivo il nome di Gallinari ha stuzzicato la fantasia dei tifosi più attenti, più di quanto non abbiano fatto quelli di Cousins o di Kevin Love, accostato ai verdi prima che scegliesse Cleveland.

Un’ala duttile, dalla mentalità vincente ma priva di manie di protagonismo; molto simile a quel Gordon Hayward che furoreggia a Utah coi suoi bicipiti nuovi di zecca, inutilmente corteggiato da Stevens che avrebbe fatto carte false pur di riunirsi col suo pupillo ai tempi di Butler.

C’è poi la possibilità di tentare la fortuna al draft. I Celtics hanno numerose scelte da incassare, sparpagliate nei prossimi due anni, più i mezzi per acquisirne altre in zona lottery e provare, magari, a sbancare.

Più che seguire l’esempio degli Hawks o di una Milwaukee che si muove sul mercato ma scende inesorabilmente in classifica, il modello a cui guardare è quello di Golden State o Oklahoma City. Un lustro di gestione oculata più un paio di colpi grossi al draft, sembra essere questa la ricetta per creare una contender dal nulla, scongiurando le sabbie mobili del limbo.

Anche i Cavs fanno parte di questa schiera, con Kyrie Irving, Tristan Thompson, Dion Waiters e Andrew Wiggins – gli ultimi due scambiati per dare alla squadra la fisionomia attuale.

Ma uno Steph Curry, un Klay Thompson, un Kevin Durant non lo trovi per caso sotto un albero, specialmente in una classe poco intrigante come quella del draft 2016.

Come dite? Ah, ma c’è quella pick dei Brooklyn Nets? Già. 28 giugno 2013. Nella cornucopia che i Nets riversano a Beantown in cambio dei servizi di Paul Pierce, Kevin Garnett e Jason Terry – 109 anni in tre – c’è una unprotected first pick al draft del 2016.

La squadra di Tony Brown, attualmente, viaggia con il terzo peggior record della lega. Quel giorno due bandiere furono ammainate, nella speranza di issare un giorno il diciottesimo stendardo. Anche questo, a suo modo, è Celtic Pride.

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