Nonostante per il pubblico americano fosse un egregio signor nessuno, per giunta alla guida di uno squadrone costruito da zero, David Blatt ha chiuso la scorsa stagione 53-29, centrando al primo colpo la Finale NBA (persa 4-2 con l’onore delle armi e senza Kyrie Irving e Kevin Love). A metà della Regular Season 2015-16, i suoi Cavaliers vantavano un record di 30-11, il migliore di tutta la Eastern Conference, il quarto DefRtg di tutta la NBA, e il quinto OffRtg.

I risultati parlano chiaramente in favore dell’ex allenatore di Maccabi, CSKA e Treviso, eppure il licenziamento di David Blatt non è stato una sorpresa per nessuno; prima ancora di arrivare al training camp 2014, LeBron James aveva già fatto intendere al front office di preferirgli Mark Jackson (entrato per l’occasione nella scuderia di Klutch Sports, l’agenzia di LBJ e dell’amico Rich Paul).

Incassato il nyet del GM David Griffin (per via dagli atteggiamenti inaccettabili tenuti ad Oakland, dove l’ex play di Knicks e Pacers sperimentò bizzarre tattiche motivazionali, provando a mettere i giocatori gli uni contro gli altri, oppure facendo la guerra al personale sospettato di scarsa fedeltà), James e Klutch Sports hanno continuato a lavorare ai fianchi Blatt, delegittimandolo con atteggiamenti sfrontati, palesando indifferenza (o peggio) verso i suoi schemi, incoraggiando i compagni a fare altrettanto.

Di fatto, LBJ e Rich Paul hanno costretto Blatt a nuotare controcorrente, dileggiandolo e ventilando a più riprese (ma senza mai metterci la faccia) l’ipotesi di un avvicendamento con Ty Lue che, per età, ambizioni, trascorsi NBA e stipendio (era il più pagato assistente di tutti i tempi a oltre 2 milioni annui), non era certo il vice-allenatore ideale da accostare a un rookie coach.

Date queste premesse, l’approdo alla Finale NBA 2015 rappresenta un monumento al talento di James, alla bravura tattica di Blatt, e alla professionalità di gente come Tristan Thompson e Matthew Della Vedova, ma non sarà mai annoverato tra le pagine edificanti dello sport, inteso come capacità di superare differenze ed egoismi, per forgiare una comunione d’intenti.

Blatt era all’angolo: costretto a tenere un profilo bassissimo, è stato accusato di essere “succube di LeBron”, e quando ha imposto un minimo cambiamento (nella partita di Natale, ha limitato senza preavviso i minuti di Richard Jefferson e Mo Williams, in favore di Della Vedova e Iman Shumpert), è scattata la fronda dello spogliatoio, fino all’inevitabile licenziamento, dopo il -34 patito il 18 gennaio, sempre contro i Warriors.

Le due partite contro gli Splash Brothers aprono e chiudono uno stretch di 13 gare il cui parziale è di 9 vittorie a fronte di 4 sconfitte: quelle con Golden State, una débâcle contro i Trail Blazers e un’altra sconfitta di misura, targata San Antonio. A segnare il destino di coach Blatt sono state le tre battute d’arresto contro le due principali rivali nella corsa al titolo NBA, che sono ricorse in modo massiccio al pick-and-roll centrale, in modo da esporre le lacune di Irving, e soprattutto di Love.

Se i Cavs avessero utilizzato la Princeton Offense –prediletta da David Blatt– il talento a disposizione li avrebbe forse trasformati in una corazzata a trazione anteriore, come i Sacramento Kings di Rick Adelman: tanto pick-and-roll Irving-Love (nei panni di Mike Bibby e Chris Webber), e LeBron a ricevere in situazione dinamica, alzando il pace e, di fatto, mascherando i limiti difensivi di Kyrie e dell’ex UCLA.

Naturalmente non avremo mai la riprova che le cose sarebbero andate meglio rispolverando il playbook di Pete Carril, ma sarebbe certamente valsa la pena di fare almeno un tentativo in quella direzione (più ritmo, più possessi), tanto che anche coach Lue insiste sullo stesso tasto.

A LeBron però, l’argomento Princeton interessava il giusto, e Blatt (non avendo le spalle coperte dalla dirigenza per poterlo imporre) ha assecondato James, cercando in tutti i modi di vincerne la lealtà, ottenendo l’effetto opposto, e perdendo lungo la strada anche il rispetto del resto del gruppo.

A questo punto sarebbe facile scaricare tutta la responsabilità su James, descrivendolo come un “coach-killer”, oppure su David Blatt. In realtà, un coach lasciato in balia del giocatore più potente della Lega è per definizione in una posizione di debolezza, e la franchigia ha peccato d’ignavia, condannandolo ad una lenta agonia.

David Griffin e Dan Gilbert non se la sono sentita di licenziare David Blatt due settimane dopo averlo assunto (giova ricordarlo: doveva guidare una squadra in ricostruzione e non una contender) e non hanno voluto rischiare l’impopolarità salutandolo dopo la Finale NBA; allo stesso tempo, non hanno mai chiaramente preso le sue parti, per paura d’indispettire LeBron James.

Ai tempi dei Big Four di South Beach, quando i rapporti tra LBJ ed Erik Spoelstra si fecero tesi, Pat Riley mise in chiaro che coach Spo era il suo delfino e come tale inamovibile, incitandolo anzi a essere anche più duro nel confronto con i giocatori, stelle incluse; tutt’altra musica e professionalità rispetto al country club che Dan Gilbert gestisce per conto di James, al quale Blatt si è (colpevolmente?) adeguato.

Non si era mai vista una squadra al primo posto nella Conference che a metà stagione licenzia l’allenatore, come ha denunciato uno scorato Stan Van Gundy: “Questa faccenda ha elevato il licenziamento degli allenatori al Teatro dell’Assurdo. C’è già stato Kevin McHale, che aveva raggiunto la Finale di Conference e poi è stato licenziato dopo 11 partite, e ora questo; due dei quattro allenatori che sono arrivati fino in fondo l’anno scorso, hanno perso il posto; sta diventando ridicolo, non so se c’è qualcuno che sa ancora quali siano le aspettative in questa professione”.

Ancora Van Gundy: “Nel corso della stagione, Blatt ha dovuto fare i conti con gli infortuni e un sacco di altre cose, ma a nessuno importava; l’allenatore deve solo vincere, e lui l’ha fatto; l’ha fatto, ed è stato licenziato lo stesso”. David Blatt ha pagato l’incapacità del management di gestire LeBron James e Klutch Sports, arrivando al paradosso d’essere messo alla porta nonostante i risultati, sentendosi oltretutto dare sibillinamente dell’incompetente e del debole.

David Windhorst, di ESPN, ha scritto: “Non ho mai visto una dinamica squadra-allenatore come quella che ho visto con David Blatt. Non so come gestisse la nazionale russa, le sue squadre in Grecia, oppure i club in Italia, Russia e Israele; tutto quel che so, è quel che ho visto, cioè un tizio completamente incapace di ottenere almeno un minimo di rispetto dalla maggioranza dei suoi giocatori”.

Noi non siamo nello spogliatoio dei Cavs, e ci vogliamo fidare di Windhorst quando suggerisce che, fondamentalmente, tutti i giocatori con un minimo di anzianità NBA non si trovassero bene con il loro ormai ex-allenatore, ma allo stesso tempo, abbiamo visto in azione David Blatt per anni (molte volte anche dal vivo), e gli attestati di stima di Rick Carlisle, Gregg Popovich e Steve Kerr ci sembrano più in linea con la storia personale di un coach di riconosciuta bravura.

È già capitato che grandi allenatori NCAA non replicassero i loro successi in NBA (P.J. Carlesimo e Rick Pitino, per far due nomi), ma un conto è fallire gli obiettivi e scontrarsi con l’incapacità di gestire dei professionisti, un altro è raggiungere gli obiettivi, e scontrarsi con dei professionisti che non si comportano come tali, perché, fondamentalmente, c’è una società che glielo permette.

Qualche anno fa, intervistato da Grantland, Steve Nash parlò del proprio disagio verso una cultura sportiva che si riassume sotto l’etichetta Championship-or-Bust, figlia, proseguiva Steve, della necessità di scrivere titoloni, polarizzando la realtà tra bianco o nero, buoni e cattivi, per spingere i lettori a “cliccare”.

Non vorremmo cadere nell’errore denunciato dal venerabile Nash, e quindi val la pena evidenziare che David Blatt ha evidentemente commesso degli sbagli nella gestione del gruppo, facendo il duro quando non doveva, rispondendo spocchioso a chi gli faceva notare che era una sua “prima volta”, per poi lasciarsi testare impunemente dai propri giocatori.

A loro volta, proprietario (Dan Gilbert, quello che nel 2010 scrisse la famigerata “lettera” contro LeBron) e GM non hanno certo fatto una gran figura, ma, in ultima istanza, chi scende in campo è LeBron James, e se in un anno e mezzo non è riuscito ad aprire una linea di comunicazione con il suo allenatore, significa che ci ha messo molto del suo.

Un conto, infatti, è il rapporto teso e conflittuale che esiste ad esempio tra George Karl e DeMarcus Cousins, che alternano alti e bassi; non vanno d’amore e d’accordo, ma si parlano, li abbiamo anche visti ridere assieme a bordo campo. Un altro è il trattamento gelido che James ha riservato a Blatt anche nei momenti in cui l’ex virtussino stave chiaramente facendo uno sforzo per andare incontro alla sua stella.

Ho sempre dato voce alla mia opinione con Paul Silas e Mike Brown, l’ho fatto a Miami con coach Spo, l’ho fatto con Blatt e lo farò anche con T-Lue, ma, alla fine, l’ultima parola è sempre la loro” ha dichiarato un amareggiato LeBron “Cosa volete che faccia, che spenga il cervello perché ho un elevato QI cestistico?”, per poi chiosare che lui non è mai mancato di rispetto ad un suo allenatore, dimenticando forse uno spintone rifilato a Blatt contro i Suns, per non parlare delle tante volte in cui Blatt chiamava uno schema (l’ultima parola della quale parlava James) e LeBron ne eseguiva un altro, magari dichiarandolo in conferenza stampa (vedi la Serie contro i Chicago Bulls).

La mossa di David Griffin, per quanto tardiva, ha tolto alla squadra ogni scusa, ma basterà per battere San Antonio o Golden State? In fondo, se Kevin Love non sa difendere, non è colpa di David Blatt. C’è grande pressione anche su Ty Lue, perché da lui ci si aspetta il titolo NBA, ed è una bella responsabilità per un esordiente che subentra in corsa.

In passato, è capitato raramente che un avvicendamento in panchina portasse a conquistare l’anello; negli ultimi 35 anni, ci sono riusciti Paul Westhead (che subentrò allo sfortunato Jack McKinney dopo un grave incidente stradale) e Pat Riley (due volte: la prima, sostituendo proprio Westhead, e la seconda nel 2005, quando rimpiazzò Stan Van Gundy).

Anche il già citato licenziamento di Kevin McHale (ha perso il posto perché la squadra non lo seguiva più) non ha sortito gli effetti sperati. Houston, che aveva iniziato la stagione immaginandosi tra le pretendenti al Larry O’Brien Trophy, è invece inchiodata al 50% di vittorie, e alterna buone prestazioni e partite inguardabili, mentre Harden seguita a non difendere.

Intanto, in giro per la lega, sono saltati anche Lionel Hollins, dei Brooklyn Nets (che hanno optato per una svolta totale, rimuovendo anche il GM Billy King), Jeff Hornaceck, dei Phoenix Suns (hanno vinto solo due delle ultime 21 partite), che pure ha tante scusanti: un mercato non all’altezza, la grana Markieff Morris, e l’infortunio di Eric Bledsoe.

Quale che sia il motivo concreto (il record, il rapporto con i giocatori, differenze tecniche con la dirigenza), il licenziamento di un allenatore è riconducibile a due categorie concettuali.
C’è chi, come Tom Thibodeau e Scott Brooks, perde il posto dopo tanti anni di gestione, perché la franchigia ha bisogno di cambiare direzione; e poi c’è chi si ritrova a spasso perché il club, non sapendo che pesci pigliare, sceglie la strada più facile.

Nel primo caso, ci troviamo di fronte a decisioni tecniche, maturate valutando il lavoro dell’allenatore nel corso di tante stagioni, nel secondo invece, la decisione di cambiare head-coach è spesso motivata dall’esigenza di “fare qualcosa” in un momento di crisi; è una logica pericolosa, che spinge a continui cambi di direzione in base alle contingenze immediate, e che fa perdere di vista lo sbandierato “progetto”.

Nel caso dei Rockets, ma soprattutto dei Suns e dei Nets, non crediamo che l’allenatore non fosse l’unico (o il principale) responsabile dei risultati negativi, ma almeno c’erano dei record e delle prestazioni pessime a giustificare un cambio in panchina.

La cacciata di David Blatt si colloca invece a un livello inedito: preteso dai giocatori e accettato dalla dirigenza, è un licenziamento che inverte i classici rapporti di forza interni a un club vincente, e questo finisce col rendere ancor più interessante il 2015-16 dei Cleveland Cavaliers e di LeBron James, che ha lasciato Miami proprio per ottenere questo strano regime di semi-autogestione. Ora però, spetta a lui portare l’agognatissimo titolo NBA sulle sponde del Lago Erie. Ci riuscirà?

3 thoughts on “Quando vincere non basta: David Blatt e gli altri

  1. Bellissimo articolo, complimenti! Ora ho più chiaro il capitolo cambio allenatore a Cleveland. La domanda è un allenatore inesperto saprà risolvere il problema difesa ballerina, basterà la ritrovata armonia nello spogliatoio a colmare il gap con le avversarie dell’ovest!?

  2. Ti ringrazio, Davide. Riguardo alla domanda, la risposta può essere una sola: staremo a vedere!

  3. Secondo me un’allenatore abituato ad allenare in europa dove l’allenatore è difficilmente contestato ed in genere domina la squadra si trova per forza di cose spiazzato ad affrontare gente che è sì professionista, per l’amor di dio ma, ha fondamentalmente atteggiamenti da gangster (ed in alcuni casi molto più che atteggiamenti) per cui se non vieni accettato non puoi farti accettare alzando la voce perchè rischi che qualcuno ti spacchi la faccia. Quindi devi cercare di fare il “politico” ma difficilmente ottieni la stima di certi “figuri”.

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