Da bambino sono stato spesso fregato con l’indovinello “quanto fa venti più venti?”, in quanto non abbastanza sveglio da ricordare la risposta “bufera” di volta in volta.

Ora, con anni di esperienza NBA sulle spalle, sono finalmente in grado di reagire persino all’aggiunta di un ulteriore ventello; sì perché per chiunque abbia seguito i primissimi giorni della regular season, la risposta alla domanda “quanto fa venti più venti più venti?” può essere una sola: gli Houston Rockets.

Nelle prime tre uscite stagionali i ragazzi di coach McHale hanno riscosso la dubbia onorificenza di diventare la prima squadra nella storia della Lega a prendere tre imbarcate di questa entità all’uscita dai blocchi: 85-105 contro i Nuggets, 92-112 contro i Warriors, e 89-109 contro gli Heat, quest’ultima con un secondo tempo Caporettiano da 26-65.

Ora, queste débâcles Sixersiane vanno innanzitutto contestualizzate: il bicchiere mezzo pieno dice che in fondo sono solo le prime tre partite, e che la regular season è una scienza meno esatta di quanto molti la vorrebbero fare apparire (e infatti alla striscia negativa è immediatamente seguita una vincente, ancorché stentata, di quattro vittorie), che alcuni dei valori che verranno analizzati in seguito sono destinati a variare per il meglio, e che il modus operandi corretto non può essere costruito in una notte.

Sul fronte del pessimismo, o del realismo estremo, vanno invece presi in considerazione almeno due aspetti differenti: uno è banalmente quanto visto finora, l’altro riguarda le aspettative con cui Houston si era affacciata alla stagione.

I Texani sono stati investiti da delle aspettative bipartite: innumerevoli preview hanno giustamente posto i Rockets nel novero delle contender purosangue, assieme alle solite note Cleveland, Golden State, San Antonio, OKC, e Los Angeles (senza ulteriore bisogno di specificazioni ormai…), adducendo come motivazioni le 56 vittorie con annessa lunga corsa nei playoff 2015, con Conference Finals raggiunte a colpi di cerotti e Vicodin (su tutti, Dwight Howard ha saltato metà stagione, 41 partite, mentre Beverley e Motiejunas non sono mai stati disponibili nel corso della post-season), la raggiunta maturità del Barba Harden, i rinnovi di Brewer e dello stesso Beverley (con salario impostato a decrescere dal mefistofelico Daryl Morey), e soprattutto l’arrivo di un borderline All-Star ad Ovest (ovvero un All-Star perenne nell’altra Conference) come Ty Lawson, da mesi (anni?) desideroso di abbandonare Denver per lidi più competitivi, forse pure troppo, visti i frequenti episodi legati all’alcool.

Dall’altra parte, altri hanno bollato il piazzamento fra le possibili favorite come esagerato; in fondo a maggio il divario con i Dubs della Baia è apparso netto, la finale di Conference è arrivata solo grazie al famigerato suicidio collettivo dei Clippers in gara 6, l’Ovest è il consueto mattatoio di legacy, Howard non sembra più poter essere la forza two-way dei tempi di Disney World, la chimica di Harden e una point guard dominante sulla palla come Lawson è una matassa da sciogliere, e alcuni aspetti del sistema di McHale suscitano ancora parecchi dubbi: su tutti, la filosofia offensiva al limite del fanatismo, in quanto totalmente scevra di midrange game, e la bassa percentuale (32%) avuta dagli avversari sui tiri da lontano, proverbiale botta di… buona sorte ritenuta non ripetibile su annate consecutive.

Detto questo, nemmeno i detrattori più irriducibili avrebbero potuto prevedere cotanta partenza ad handicap, e sempre con la prospettiva della lunghezza biblica della stagione e del record già parzialmente raddrizzato, è il caso di guardare all’interno delle cause del misfatto.

Ogni discorso sulle sorti dei Rockets non può che partire dall’uomo che porta la croce, sia nel look che nella realtà dei fatti: James Harden è il go-to guy, il franchise player sempre più incontrastato dopo il secondo posto nella corsa all’MVP dello scorso anno (ma vincitore per i colleghi giocatori).

Nelle prime partite il mancino barbuto è apparso totalmente avulso dal gioco, e la spiegazione più razionale è ovviamente questa.

Alcuni dati sono particolarmente significativi: dopo tre incontri la sua percentuale dal campo era del 22.2%, quella dalla lunga addirittura del 9.4 % (!), roba da marcatura a distanza à la Bogut su Tony Allen; nello specifico, non solo la media da tre punti era scesa sotto livelli da Robinho a porta vuota, ma lo aveva fatto su un numero abnorme di tentativi, ben 32; questo significa che la percentuale di triple tentate sul totale dei tiri dal campo era di 59 ogni 100, contro il 38 del 2014-15, mentre quello di tiri nella restricted area era passato dal 35 al 17%, con l’unica cifra salvifica da individuarsi nei 31 liberi tentati, perché una delle certezze della vita resta la credulità dei grigi davanti alle sue braccia buttate in aria, e questa permarrà fino al suo ultimo respiro nella Lega.

L’evidente snaturamento raccontato dalle stats si può attribuire, oltre che ad una iniziale e comprensibile ruggine (e alla maledizione delle Kardashian), ad un primo, fallimentare tentativo di convivenza con il nuovo arrivo Lawson: la venuta del terzo miglior assist-man dopo Paul e Wall imporrebbe naturalmente uno stile di gioco meno improntato sulla gestione continua dell’arancia da parte del nuovo compagno di back court, il quale, sesto in Usage e tredicesimo in percentuale di assist, è però abituato ad un ruolo proattivo nella gran parte degli schemi, in parole povere, il vecchio, caro hero-ball.

E come the Beard sia davvero poco uso a giocare off screen o in situazioni di spot up è ben rappresentato da diversi momenti: per esempio, in questa immagine si può vedere l’approccio passivo ad un pick n’ roll giocato da Lawson e Hayes.

Un altro episodio indicativo è il tiro vincente segnato contro I Thunder nella prima vittoria stagionale, dove Harden riceve un lob dal suo regista agli 8 metri e tira totalmente fuori ritmo (la palla va dentro, ma solo perché quest’uomo è un sacerdote del gioco).

Per concludere sul 13, i disagi di coppia sono immortalati anche dalle cifre di squadra, con Houston capace di segnare solo 82.4 punti con lui in campo ogni 100 possessi e di concederne 111.4, contro i 105 segnati a Barba seduta (99.6 concessi); in sintesi, l’ex Thunder è stato l’unico giocatore con un Net Rating positivo nelle prime tre partite sì, ma solo e soltanto quando non era in campo!

Dopo le prime sconfitte, coach McHale ha allontanato le nubi dalla sua star, sottolineando le grosse lacune difensive amplificate dalle basse percentuali in attacco, quest’ultime particolarmente dolorose, in quanto il numero di passaggi eseguiti è rimasto costante dall’anno scorso ma con una forte diminuzione alla casella degli assist, indice di un alto numero di errori al tiro; e pur non essendo stata citata, la costante attività dell’infermeria resta un fattore castrante per un team alla ricerca di una continuità al vertice.

Dwight Howard sta ancora combattendo con persistenti problemi alla schiena dopo aver saltato la prima partita per squalifica, ed ha affermato di non sentirsi in grado di affrontare back-to-back per il momento, cosa che lo fa assomigliare sempre meno al mix devastante di atletismo e potenza di Orlando, e non gli ha assomigliato per un tempo considerevole ormai, come sottolineato da Bill Simmons a gennaio quando lo ha posto al trentaduesimo posto fra gli asset più desiderabili; questo non significa che Superman non possa più essere un rim protector potenzialmente decisive, ma ridimensiona il suo valore, specialmente in attacco, in modi che il suo Ego realizzativo notoriamente rigonfio non sembra aver accettato.

Anche Terrence Jones e Patrick Beverley stanno passando attraverso acciacchi di più o meno lieve entità, rispettivamente un brutto taglio all’occhio per il lungo da Kentucky e un trauma alla testa per il playmaker, per non parlare di Motiejunas, non ancora sceso in campo nella stagione causa dolore alla schiena trascinatosi dalla scorsa stagione regolare, anche se la profondità abissale del roster messo insieme da Morey ha fatto sì che un paio di insospettabili siano emersi dalle nebbie per sostituire I convalescenti; specificamente, Clint Capela è stato uno dei più continui in questo inizio, 8.6 punti ad allacciata con il 79.4% dal campo e un Offensive Rating di 136 punti su 100 possessi, e si è candidato come unico credibile cambio di DH12 in contumacia del lituano (anche perchè l’alternativa sarebbe la salma sottodimensionata di Chuck Hayes).

Un’altra piacevole rivelazione è Marcus Thornton, salito prepotentemente nelle gerarchie e assurto a terza punta offensiva da 16.6 PPG con oltre 7 triple tentate a partita e forse migliore opzione come spot up shooter, visto il trend poco produttivo di Ariza, primo per distacco della Lega in questo tipo di giocata ma effettivamente poco produttivo per il secondo anno di fila (1.07 punti per possesso).

Come detto in introduzione, la situazione ora è tornata su livelli decorosi, sono arrivate quattro vittorie, seppur tutte maturate nei finali di partita; e saranno arrivate con una maggiore abnegazione difensiva, come invocato da McHale?

L’ovvia risposta è no, la riscossa è da attribuire al più classico dei “Free the Beard”: 38.5 durante la streak per Harden (con esattamente… 0 assist ricevuti da Lawson), con romantici isolamenti su quasi un terzo dei possessi, al 31.8% (i Rockets sono primi nella statistica, ça va sans dire), e una ritrovata aggressività nell’attaccare il canestro (tranquilli, non ha diminuito le triple tentate, ha solo aggiunto tanti tiri da due), che si è tradotta in più turnovers ma principalmente in più opportunità per sé e per i compagni, come si può vedere dall’Offensive Rating, quindicesimo dopo essere stato il secondo peggiore nelle prime uscite, dall’efficacia a rimbalzo d’attacco (miglior dato a 1.33 PPP), e dal già citato primo posto, ancorché poco efficiente, negli spot up, così come è poco efficiente la produzione in transizione, categoria dove i Texani sono terzi per numero di possessi ma solo diciannovesimi per produzione.

È la dipendenza pressochè totale da un solo giocatore un fattore di crescita sostenibile per una aspirante contender? No, così come non lo è l’inizio sconfortante che ha portato alla stesura di questo pezzo.

Detto questo, è indubbio che il prodotto finito degli Houston Rockets 2015-16 non si vedrà prima di qualche settimana o mese, a seconda del tempo di rientro degli infortunati e dell’integrazione di Lawson, così come è indubbio che la presenza dei contratti in scadenza di Jones, Motiejunas e Terry (più 3.3 milioni di Trade Exception) lascino margine per una trade correttiva; perciò può benissimo essere che Clutch City riesca per il secondo anno consecutivo ad andare oltre le comunque elevate aspettative, ma francamente l’impressione è che in questo momento manchi qualcosa per riuscire ad uscire intatti dalla fornace dell’Ovest, ma in fondo ci si può sempre trovare ad un suicidio dei Clippers dalla gloria, giusto?

 

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