Per certi versi, l’aspetto piĂą doloroso di questa vicenda – trasformata cinicamente nell’ennesimo “spettacolo” a base di miserie umane, bordelli e droga – è stato sentir parlare di Lamar Odom come di una stella dei reality, quando ogni appassionato di basket è abituato a pensarlo come un grande compagno di squadra, un talento cristallino, e un bi-campione NBA, oro ai Mondiali di Turchia.

In fondo però, Lamar si è messo da solo in questa situazione, facendo di sé carne da macello per i vari avvoltoi che si avvicendano al suo capezzale, da Jesse Jackson, alla famiglia Kardashian.

Nessuno l’ha costretto a sposare Khloe dopo un mese di fidanzamento, e a vedere così la propria vita privata invasa dalle telecamere; alla stessa stregua, nessuno l’ha spinto a forza in uno dei bordelli legali del Nevada.

Lamarvellous non è mai stato uno di quegli sportivi che attirano controversie, o malati di protagonismo; al contrario, Odom era al centro dell’Huddle dei Lakers tre volte finalisti (e anche della Nazionale USA) grazie alle sue qualità di collante e alla disponibilità con la quale metteva la propria versatilità al servizio della causa.

Il lato oscuro di questa sua generosità si riassume nella difficoltà a dire di no, a essere selettivo nelle proprie frequentazioni, e a capire che, spentesi le luci della ribalta, tutte queste persone delle quali si stava prendendo cura, l’avrebbero lasciato solo con i suoi fantasmi.

Odom è una persona fortunata, un atleta milionario, non si discute; ma è altresì vero che nella sua esistenza c’è sempre stata una disgrazia dietro l’angolo, tanto che, come diceva lui stesso qualche anno fa, “Mi aspetto sempre che qualcosa vada storto. La vita è così”.

Questo rincorrersi di momenti esaltanti e situazioni complicate è diventato l’emblema della sua carriera, ma prima ancora, della sua esistenza, divisa anch’essa in due sfere geografiche: Los Angeles, dove ha trascorso gran parte dell’età adulta, e il quartiere newyorkese di Queens, dov’è cresciuto assieme a Elton Brand, Ron Artest, Rafer Alston, e Speedy Claxton, all’ombra di Kenny Anderson e Stephon Marbury, Coney Island’s Finest, di qualche anno più grandi.

Quando, a soli 11 anni, Lamarvellous iniziava a farsi un nome con la squadra AAU di Vincent Smith (il fratello del Kenny Smith campione NBA con i Rockets), sua madre Cathy riceveva l’impietosa diagnosi del cancro che l’avrebbe uccisa nel 1991; il padre era un eroinomane che è rientrato nella vita del figlio solo più tardi, e così a prendersi cura di Lamar fu la nonna materna, Mildred Mercer.

Mentre la madre affrontava la malattia, Lamar cresceva e cresceva, così, il ragazzino che passava i pomeriggi imitando il ball-handling di Kenny Anderson era diventato un playmaker nel corpo di un’ala, oltretutto, di mano mancina; divenne un’attrazione locale, tanto da conquistarsi paragoni illustri, copertine importanti, e ranking prestigiosi a livello nazionale.

Lamar però, era ancora un ragazzino particolarmente emotivo, uno che, quando Cathy morì, scappò a tirare al campetto Lincoln Park fino a rimanere esausto, e che a 16 anni conquistò la ribalta e la finale per il titolo statale, ma sbagliò il tiro decisivo, e giù lacrime su lacrime; traumi grandi e piccoli che ne hanno forgiato il carattere al contempo estroverso e fragile.

Da lì, una sequela di errori per i quali il talento supremo di Lamar ha sempre pagato cauzione: tre scuole superiori cambiate, prima Christ The King, poi Christian Redemption Academy, e infine St. Thomas Aquinas, in Connecticut, lontano dalle mille luci di New York, dove giocò per Jerry De Gregorio, l’uomo che “è entrato nella mia vita quando ne avevo più bisogno”.

Sarà, ma Lamar sembrava avere una sinistra tendenza a complicarsi la vita da solo, quasi stesse ricalcando le orme di Lloyd Daniels (il deviante newyorkese visto anche a Pesaro e poi Scafati), suo idolo d’infanzia.

Anche al college, il percorso di Odom fu tutt’altro che regolare; consultatosi con Kobe Bryant, che aveva da poco fatto il grande salto, decise di non essere pronto per l’NBA e accettò l’offerta di UNLV, ma un articolo di Sports Illustrated ne mise in dubbio i risultati ai test d’ammissione, arrivò una denuncia per adescamento e un’indagine dell’NCAA per aver accettato soldi da un facoltoso fan di Nevada-Las Vegas.

UNLV gli tolse la borsa di studio già a luglio, ma una somma ottenuta appositamente dal padre (in qualità di veterano di guerra) gli consentì d’iscriversi a Rhode Island, passando il primo anno senza poter giocare, per poi confermare tutto il proprio talento nella seconda stagione (quando i Rams vinsero la Atlantic 10 con un suo tiro sulla sirena), ma anche la propria imprevedibilità, come quando si rese irreperibile per alcuni giorni, poi riaccese il telefono e chiamò coach Harrick dicendo: “Il pacchetto (che era il suo soprannome) è arrivato”, cavandosela con un bonario rimprovero.

Giunto in NBA da quarta scelta assoluta, ai Clippers, divenne in fretta il simbolo del talento sprecato e di paragoni frettolosi coi grandi del passato (nel suo caso, con Magic Johnson); erano gli anni della doppia squalifica per uso di sostanze proibite (marijuana), di tanti highlights, e di pochissime vittorie.

Poi capitò la chiamata di Pat Riley – che di talenti se ne intende – e un anno in Florida che funse da spartiacque della sua carriera professionistica, ma anche in questo caso, alle gioie si accompagnano i dolori; in questo caso, la dipartita dell’amatissima nonna Mildred.

Nell’estate 2004, Shaquille O’Neal ottenne d’essere spedito ai Miami Heat, e Lamar fece così ritorno sulla costa ovest, nell’altro spogliatoio dello Staples Center, quello dei Los Angeles Lakers.

Poteva essere l’occasione per ricascare nelle amicizie sbagliate che Odom si era lasciato alle spalle, e invece filò tutto liscio; lentamente Lamar trovò il proprio ruolo di ala forte, si costruì un tiro dal range sempre più esteso, ma, ancora una volta, la tragedia era dietro l’angolo; tre anni esatti dopo la morte della nonna, Lamar perse il suo terzogenito, Jayden, deceduto in culla.

Dopo la tragedia però, è arrivato il momento migliore della carriera professionistica di Odom, quando, complice l’esplosione di Andrew Bynum e l’arrivo in gialloviola di Pau Gasol, divenne leader della Second-Unit, e l’uomo che Phil Jackson schierava nei finali di partita vicino al catalano.

Lamar era il giocatore che determinava l’assetto della squadra, complice la sua duttilità fuori dal comune: in difesa marcava i numeri 4 (e lo faceva molto bene), andava a rimbalzo, e se riusciva a catturarlo, era direttamente lui a condurre il contropiede con la sicurezza di un playmaker.

Da un punto di vista tecnico, Odom è un giocatore abbagliante: certo, usava quasi solo la mano sinistra, ma aveva letteralmente tutto; visione di gioco, creatività, palleggio, passaggio, tiro, atletismo, centimetri, velocità. Sono frasi che si dicono spesso, per cui alla fine ci si abitua a fare automaticamente la tara a questo tipo di discorsi, ma nel caso di Lamarvellous è tutto vero: talento cristallino.

Non stiamo parlando di un Tracy McGrady, il cui limite era ben descritto dai soprannomi (Sleepy Eyes, oppure The Big Sleep); se Odom non ha mai brillato individualmente, è perché ha sempre messo il gruppo al primo posto, preferendo dedicarsi alle piccole cose, tipo portare un blocco, o effettuare un passaggio che prelude l’assist.

Generoso in campo, ma anche fuori, come si era raccomandata mamma Cathy prima di spirare: Odom era uno che firmava così tanti autografi da far ritardare il bus della squadra, o che pagava borse di studio e faceva regali a gente che conosceva appena.

Non è un caso se l’unico vero riconoscimento individuale della sua carriera è stato il trofeo di Sesto Uomo dell’Anno, vinto di solito da un giocatore alla Ginobili, che sacrifica statistiche e ruolo in quintetto sull’altare delle vittorie; per Lamar, quello era un modo di giocare assolutamente naturale.

Dopo gli onori e due anelli, arrivò l’addio dell’amatissimo Phil Jackson, e la famosa (famigerata?) trade che avrebbe dovuto spedire lui e Pau Gasol a New Orleans, in cambio di Chris Paul, uno scambio che ha incrinato i rapporti tra i gialloviola e Gasol, e che li ha rotti in modo insanabile con Lamar, perché è vero, l’NBA è un business, ma lui prese malissimo la prospettiva di essere estromesso dal “suo” gruppo.

Quando i Lakers provarono a ricucire, lui rispose picche; Jim Buss non ci pensò due volte e lo spedì a Dallas in cambio di spazio salariale.

Lamarvellous approdava in una squadra campione NBA, ma nella quale era un “fit” mediocre, e per giunta era in condizioni pessime. Non bastasse, dopo l’All Star Game sparì un’altra volta, convincendo anche Nelson e Carlisle che era meglio liberarsi di questo “pacchetto” il più rapidamente possibile.

Nonostante un incidente stradale e un arresto per guida in stato d’ebrezza, il suo talento gli ha procurato l’ennesima chance, ma dopo un’ultima stagione con i Clippers nel 2012-13, un interessamento dei Lakers e il nyet di Phil Jackson ai New York Knicks, Lamar si è (dicono i cosiddetti ben informati) progressivamente isolato. Cambiava cellulare continuamente, prometteva di farsi sentire e poi non lo faceva mai.

Hanno provato ad avvicinarlo in tanti, perché un compagno di squadra del genere non si può dimenticare, ma Odom non rispondeva alle telefonate, nessuno sapeva dove stesse, e intanto il matrimonio-lampo con Khloe Kardashian andava a ramengo, come hanno documentato con dovizia innumerevoli episodi del reality di famiglia.

Forse Lamar Odom credeva di poter gestire meglio questo tipo di celebrità (e inizialmente, pareva ce la facesse senza troppo sforzo), ma un conto è essere sotto scrutinio per come giochi, e un altro è recitare la parte di te stesso ventiquattrore su ventiquattro.

Lungi da noi voler fare gli psicologi d’accatto, e stabilire come e perché Lamar sia finito in questo gorgo autodistruttivo, fatto sta che l’hanno trovato in coma, il 13 ottobre, in una suite di questo costoso ma squallido Love Ranch nel quale, a quanto pare, si possono spendere 75.000 dollari in prostitute.

Trasportato in un ospedale di Vegas, e poi trasferito in California, al Cedars-Sinai, ha lentamente ripreso conoscenza, dopo essere stato a lungo in condizioni critiche e aver subito una serie di ictus che avevano fatto temere il peggio.

Così, mentre coach Jim Harrick e i rappresentanti della famiglia Odom-Mercer dichiaravano che Lamar stava lentamente recuperando le proprie facoltĂ  cognitive e la capacitĂ  di parlare grazie alle terapie (che si protrarranno per almeno sei mesi), Khloe Kardashian si è incipriata il naso ed è corsa al capezzale di Lamar, ha fatto sospendere il divorzio, parla di riappacificazione e non vede l’ora di avere un figlio da lui (stendiamo un velo pietoso).

Da un lato, è impossibile non essere dispiaciuti per Lamar, perché è una persona che ha fatto del bene a molti e del male solo a se stesso; al contempo, resta la delusione e il dispiacere di constatare che Odom è ancora prigioniero dei propri demoni e delle proprie debolezze, preda di gente che lo usa senza che lui sembri rendersene pienamente conto.

Gli auguriamo con tutto il cuore di riprendersi e di fare ordine nella sua vita, perché ci piacerebbe davvero molto poter scrivere nuovamente di lui, ma questa volta, con un lieto fine.

2 thoughts on “La vera storia di Lamar Odom

  1. Ottimo articolo ! Complimenti !! Questa è la veritĂ  su Odon, un brav’uomo è ottimo giocatore che purtroppo è stato rovinato dal mondo dello showbiz!

  2. Grazie! Sì, diciamo che se lui già di suo camminava sul ciglio del burrone, lo showbiz gli ha dato la definitiva spintarella, purtroppo

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