Per la prima volta, da quando nelle ultime 38 partite della stagione 2010-11 ha preso il posto di Jim O’Brien, Frank Vogel non ha dato inizio al training camp disegnando una grande D (per difesa) sulla lavagna dello spogliatoio della Bankers Life Fieldhouse.

Adesso la priorità è costruire un sistema offensivo che sia degno del modo di giocare a basket che nella modernità va per la maggiore e che è stato svincolato da spiacevoli etichette non proprio edificanti dal recente successo dei Warriors: l’inflazionatissimo “Small Ball”. Pare che, una volta visti Curry e compagni alzare al cielo di Cleveland il Larry (e non Jim) O’Brien Trophy lo scorso giugno, abbiano tirato fuori la testa dalla sabbia in diversi.

Sembra anche che alcuni concetti che sono costati a personaggi come il “nostro” Mike D’Antoni l’antipatica nomea di sognatori o visionari, comunque non adeguati ai principi pratici del gioco, siano definitivamente stati sdoganati a tutti i livelli. Se poi a fare outing sono proprio i ruvidi, noiosissimi ma terribilmente efficaci Pacers, beh.. ne abbia a parlare popolo e paese.

Già in estate, con questo vento di cambiamento in giro, sono stati scaricati senza troppi patemi d’animo Roy Hibbert e Luis Scola, lasciati liberi di accasarsi dove meglio credevano. David West, che è noto per essere più savio della media dei colleghi, ha compreso alle prime avvisaglie che la finestra temporale che avevano quei Pacers per vincere qualcosa si era irrimediabilmente chiusa ed ha deciso di rinunciare a una decina di milioni pur di giocare per il titolo all’ombra dell’Alamo.

Fra quelli meritevoli di un briciolo di menzione, è andato via anche C.J. Watson. Si è rivisto invece Paul George, reduce dalla faticosa riabilitazione in seguito alla terribile frattura esposta di tibia e perone che ha consegnato alla sua gamba destra un lungo e inopportuno chiodo come compagno di viaggio.

Per la verità era riapparso già nelle ultime sei partite della scorsa regular season ma – diciamoci la verità – quello visto in campo con la nuova maglia numero 13 dei Pacers più che Paul sembrava suo nonno. Appare superfluo rimarcare l’importanza decisiva che George riveste all’interno dello scacchiere giallo-blu, anche se nella stagione che viene – e poi lo vedremo – potrebbe ricoprire per lunghi tratti un ruolo differente rispetto alle passate edizioni.

Per implementare sul parquet il sistema di gioco nuovo di zecca, pensato a tavolino da Vogel e Bird, serviva rimpinzare l’arsenale offensivo in dotazione alla squadra con una maggiore e funzionale disponibilità di armi.

Ed ecco la firma di Monta Ellis, alla terza squadra in 4 anni. L’ex-Mavs non farà sempre scelte opinate ma potrebbe aggiungere qualcosina in termini di playmaking e gestione della palla, due difetti ancestrali della squadra di Indianapolis. Di sicuro trarrà vantaggio dai raddoppi avversari che inevitabilmente coinvolgeranno il compagno Paul George.

Per compensare l’esodo dei bigmen, i Pacers hanno firmato il centro dei Lakers peggiori di sempre, Jordan Hill, hanno scelto con la numero 11 al draft il lungo da Texas Myles Turner e promosso a ruoli di più alto impiego Lavoy Allen e Ian Mahinmi.

Hill per il poco che costa a Herb Simon può persino rappresentare, con la sua abilità di correre il campo da una parte all’altra, un passettino in avanti, seppur lieve, rispetto a Hibbert secondo un ragionamento di natura prettamente offensiva.

Allen è rimbalzista solido e tiratore affidabile, se in giornata, anche da 5 metri. Mahinmi ha fisico ed esperienza per tenere botta sotto le plance. Ma il vero cavallo da corsa del lotto e potenziale crack di questa e soprattutto delle stagioni a venire è il 6’11” Myles Turner.

Se Bird c’ha preso anche stavolta andiamo tutti a casa! Raramente si sono visti tecnica e range di tiro così ampi uniti a tanta verticalità nell’opporsi ai tentativi di conclusione avversari nel medesimo giocatore. Usa la spada in difesa per stoppare e l’uncinetto in attacco per ricamare. Il tocco di palla è decisamente morbido, oltre che sopra la media se si guarda ai pari-ruolo.

Il quadro del ragazzo assume contorni ancora più spaventosi se si considera che ha solamente diciannove anni e dodici mesi di esperienza alle spalle nella Big 12 del College NCAA. Larry Legend stravede per lui. Recentemente si è fatto scappare una dichiarazione in cui asseriva che Turner fosse il miglior tiratore della squadra, già oggi. Che poi abbia rettificato, dicendo che la valutazione teneva conto anche del fatto che si trattasse di un lungo e quindi meno avvezzo a certe “cose da piccoli”, non modifica alcunché.

L’altro rookie in grado di destare una certa curiosità e sul quale la franchigia ha fatto sapere di fare affidamento già nell’immediato è il giocatore dell’anno della Pac-12, Joseph Young.

Prima del suo, nella notte del draft, sono stati pronunciati la bellezza di 42 nomi. Vedremo quanti di questi gli verranno ancora preferiti quando si tratterà di compiere delle valutazioni conclusive su quanto effettivamente visto in campo. Giocatore che vive di istinti, fa della velocità e della capacità di segnare le sue ragioni di vita cestistica.

Ultimo ma non insignificante particolare: rompe le scatole dalla mattina alla sera a compagni più esperti e coach perché, sentendosi fondamentalmente un novizio, non vuole perdere l’occasione di imparare il più possibile da cotanti esempi.

Non è più al primo anno ma rientra a pieno titolo nel gruppo delle giovani e interessantissime leve dei nuovi Pacers il figlio del grande Big Dog, Glenn Robinson III. Era dal preseason opener della scorsa stagione, quando con i T’Wolves fece visita alla Bankers Life Fieldhouse, che Larry Bird lo inseguiva. E quando sei desiderato da uno del genere, tendi a rispondere alla chiamata. Soprattutto se ancora non hai dimostrato di valere un millesimo di quel brav’uomo di tuo padre.

L’uomo di French Lick ci riprova. Dopo aver contribuito in maniera sostanziale allo sviluppo dell’improbabile (all’inizio) progetto Lance Stephenson, intende vedere se è possibile ricavare un giocatore NBA dall’insieme di centimetri, muscoli e atletismo che il più giovane dei Robinson porta, per ora piuttosto inconsapevolmente, a spasso con sé.

Con un roster così rinnovato e con le conferme dei vari C.J. Miles, Rodney Stuckey e dei non-fratelli Solomon e George Hill, spetta a coach Vogel il compito modificare dalle fondamenta la filosofia di gioco che ha sempre contraddistinto i suoi Pacers. Non più serie interminabili di attacchi statici e prolungati, rigorosamente su metà campo, e catenaccio più o meno dichiarato dall’altra parte con tanto di portierone coi guantoni e il numero 55 sulla schiena, ma Smaaaall Ball, che suona parecchio più ganzo.

Tralasciando stupidi ma elettrizzanti slogan, veniamo alla sostanza, che in uno stato come l’Indiana è tutto ciò che conta. I Pacers che si presentano ai blocchi di partenza della stagione 2015-16 vogliono correre.

Indiana_Stats

Da anni inguaiati nelle posizioni più basse delle classifiche di contropiede e tiro da 3, sono fortemente decisi oltre che – sperano – adeguatamente preparati a sovvertire tali e non più desiderabili tendenze.

I nuovi dettami dello staff tecnico sono ritmo alto, grazie a un maggiore numero di possessi per partita, ingresso rapido nell’azione, migliori spaziature e intercambiabilità di uomini e ruoli spinta all’eccesso, o forse è meglio dire alla maniera dei Warriors. Affinché queste idee possano concretizzarsi sul parquet, c’è bisogno di “giocare piccolo”.

Da qui la necessità, secondo allenatore e dirigenza, di far giocare Paul George, il faro della squadra, peraltro reduce da un pesantissimo infortunio che consiglierebbe come minimo di rendere il suo rientro più agevole possibile, nel ruolo di power forward. Se Cleveland e Golden State si sono giocate il titolo NBA, non la Coppa Cobram, con le coppie Iguodala-Green e James-Thompson a battagliare sotto le plance, PG può mettersi l’animo in pace e fare il 4 a Indiana. Vero, evoluendo da ala forte con la sua pericolosità perimetrale è in grado di allargare il campo, permettendo ai compagni quell’ariosa circolazione di palla che finora ha sempre latitato.

Lui stesso avrebbe più spazio per colpire da fuori o sorprendere dal palleggio difensori decisamente più lenti e magari costretti a disimpegnarsi dalla classica azione di aiuto sul pick & roll avversario.

Poiché il basket però è principalmente gioco di letture e accorgimenti tattici, il coach seduto sull’altra panchina impiegherebbe non più di due time-out per dirottare il proprio 4 sull’ala piccola dei Pacers (presumibilmente più statica se si tratta, come è probabile, di Miles o di Solomon Hill) e difendere George con un giocatore più atletico, in grado di stare continuativamente col numero 13.

Se nella metà campo offensiva complessivamente i pro dell’adozione di questa strategia potrebbero anche superare i contro, è in difesa che la faccenda si fa molto più nebulosa. Giocare in pianta stabile da ala forte presuppone la necessità per il giocatore di compiere uno sforzo maggiore dal punto di vista fisico e dell’energia spesa per fare a spallate in ogni singolo possesso con i bigmen avversari.

Lo spostamento di ruolo costringe inevitabilmente George, che sarebbe pur sempre anche il protagonista principale sull’altro palcoscenico (quello dove invece i punti bisogna saperli mettere a referto), a prestare attenzione a quegli intangibles che finora ha potuto bellamente ignorare, come un banale tagliafuori a rimbalzo.

Inoltre il sistema difensivo di Indiana prevede una strategia piuttosto aggressiva sui pick & roll avversari: in pratica si chiede al difensore del bloccante di compiere un show deciso sul palleggiatore così da dirottarlo su una zona del campo indesiderata.

L’obiettivo è quello di rendere complicata la giocata per il rollante a chi ha la palla in mano, soluzione che, se la via di passaggio preferita non fosse abilmente oscurata, diverrebbe pressoché automatica. Fino alla scorsa stagione c’era il Dott. West a mettere il corpaccione in mezzo fra il playmaker avversario e i suoi sogni di gloria, permettendo ai compagni di avere tutto il tempo necessario per ruotare intasando area e linee di passaggio.

È immediatamente evidente, se non persino banale, che Paul George per conformazione fisica e attitudini di gioco non sia minimamente in grado di occupare lo stesso spazio, agendo da primo e solo in teoria difficilmente valicabile argine per gli attacchi nemici. Non è grosso né smaliziato come chi l’ha preceduto.

Per di più non è nemmeno più coperto da uno come Hibbert: se infatti oggi, dopo essere stato inesorabilmente battuto, girasse la testa indietro, vedrebbe soltanto il faccione illibato di Turner o lo sguardo assopito di Jordan Hill.

Per questi ed altri motivi Paul George è il più perplesso di tutti in casa Pacers. Crede di non essere tagliato per il nuovo vestito che qualcuno in società pare avergli già cucito addosso. Ha impiegato un solo possesso per pensarlo e un’insulsa partita di preseason per comunicarlo al mondo intero.

D’accordo era stato sculacciato da Anthony Davis in quell’occasione, un giocatore che – siamo sinceri – quest’anno ne stroncherà tanti, grandi e piccolini senza troppe distinzioni. Molto meglio è andata contro Marcus Morris e Ersan Ilyasova nella seconda uscita prestagionale.

Ma anche se ha promesso che ne conferirà quotidianamente con Vogel e Bird per non gettare il nuovo corso immediatamente a carte quarantotto ed ha dichiarato di sentirsi pienamente coinvolto nella causa, non dà l’impressione di esserne totalmente convinto. Sicuramente avrà pensato che per ogni Draymond Green o Ersan Ilyasova che si troverà davanti, ci saranno sempre tanti Randolph, Bosh, Millsap o Griffin che gli si pareranno in fronte con tutta la loro tracotanza.

Dura la vita del 4 in NBA! Se George è spaesato ed ha la sensazione di trovarsi a metà del guado fra la posizione di ala piccola e quella di ala forte, è difficile anche solo immaginare il ruolo che potranno giocare i rinnovati Indiana Pacers nella non irresistibile Eastern Conference.

La squadra di Vogel, dopo i recenti fasti, minaccia di trovarsi esattamente nella terra di mezzo della NBA, quella in cui nessuno vorrebbe mai essere. George Hill e compagni sono troppo nuovi, giovani e inesperti per avere chance di giocare per qualcosa di importante ancora a maggio ma sono anche troppo nuovi, giovani e intriganti per rimanere tutto l’anno invischiati nelle acque torbide del gruppetto di coda con vista sulla Lottery del prossimo giugno.

Se saranno confermate le premesse, nel giro di qualche anno alla Bankers Life Fieldhouse potrebbe tornare di scena il basket a cui tutti da queste parti sono abituati, quello di alto, a volte altissimo livello.

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