Un anno fa, l’allontanamento di Mark Jackson dalla panchina di Golden State non aveva sorpreso nessuno; per quanto l’esperienza in panchina dell’ex playmaker di Knicks e Pacers fosse stata positiva, erano note le frizioni tra lui e il front office, dovute, pare, alla tendenza del Reverendo ad accentrare troppo il controllo, oltre ad alcune manovre non esattamente cristalline dal punto di vista umano, che gli avevano alienato lo spogliatoio.

Molti però, rimasero sorpresi dal nome del sostituto, Steve Kerr, già contattato da Phil Jackson per la panchina dei suoi New York Knicks, ma convinto dall’offerta di Joe Lacob e Larry Riley, 22 milioni in 4 anni, dall’opportunità di allenare un gruppo intrigante, e per poter restare vicino alla famiglia (con la quale vive in una moderna villa a Berkeley Hills).

Alla fine, dopo aver battuto LeBron e vinto il titolo NBA, Kerr ha commentato: “Ironicamente, la cosa inattesa è che tutto è andato esattamente come speravamo, perchè non succede mai”. In effetti, dovendo immaginare una stagione da incorniciare, è difficile pensarne una più gustosa, costruttiva e appagante di quella vissuta dalla Dub-Nation.

I Warriors avevano tentato di convincere Kerr ad allenare già nel 2011, ma allora Steve preferì continuare come analyst televisivo, non sentendosi ancora pronto per una panchina NBA. Secondo Bruce Fraser, “Penso che stesse aspettando che i suoi figli crescessero, e trovassero la loro strada; sapeva che fare il telecronista o il GM non era abbastanza per lui, non era abbastanza vicino al gioco, aveva bisogno di metterci tutto se stesso per sentirsi realizzato, e aveva ragione, perché è nato per allenare, ma non l’avrebbe fatto finchè i suoi figli non fossero cresciuti“.

Kerr ha sempre avuto una prospettiva particolare, distaccata, rispetto al professionismo sportivo, forse dovuta a una cultura e un ambiente domestico che non sono esattamente la norma, tra gli atleti che popolano le arene della NBA. Proietta un’immagine rilassata, scherza volentieri con i reporter (che conosce bene, essendone stato per otto anni un apprezzato collega), si schermisce, con l’atteggiamento di un uomo conscio che:

In questo Paese abbiamo costruito una macchina attorno allo sport, e per questo motivo facciamo un sacco di soldi; viviamo bene, grazie al basket, è incredibile, sembra uno scherzo. Com’è successo? Ogni tanto, fa bene rifletterci. È giusto che anche i giocatori ci pensino; occorre essere capaci di separare la serietà del proprio lavoro, il fatto di lavorare per dei risultati speciali, senza perdere di vista l’assurdità di questa situazione”.

È una prospettiva che somiglia all’equilibrio zen di Phil Jackson, il primo mentore NBA di Kerr, un modo di guardare le cose spesso percepito e descritto come fasullo e ipocrita, da chi non capisce come si possa essere dediti a una causa, predicandone al contempo distacco.

Ci sono tanti luoghi comuni su come si debba allenare in NBA; il coach dovrebbe massacrarsi di videotape, alla Jeff Van Gundy, vivere in tuta col fischietto al collo, alla Byron Scott, costruire un playbook più spesso della Bibbia (come Larry Brown), o creare rivalità e conflitti che motivino il gruppo, marchio di fabbrica di Phil Jackson.

Steve Kerr ha deciso di non rientrare in nessuna di queste etichette; non abita in palestra e non impazzisce sull’iPad, anzi, dice sua moglie, Margot, spesso fa lunghe camminate in una riserva vicino ad Oakland, va fino a San Diego per surfare a Pipes Beach, gioca a tennis, ama i ristoranti, fa grigliate di carne asada in giardino, va in campeggio; tutte cose per le quali Steve ha una definizione: “zest for life”, entusiasmo per la vita.

Anche a Regular Season in corso, dopo una partita preferisce leggersi un libro o giocare a Scrabble anziché rivedersi subito il match; quanta differenza rispetto a Pat Riley, che, racconta il suo ex giocatore Dan Majerle, se lo pescava a leggere un libro lo relegava in panchina (Riley è lo stesso che vietava ai propri giocatori di aiutare gli avversari a rialzarsi).

Questo non significa che a Steve Kerr interessi poco allenare; tutto il contrario: dietro al sorrisetto e alle buone maniere, è maniacalmente competitivo (quando giocava, Steve non faceva un passo indietro per nessun motivo, e, appena nominato allenatore, si è addestrato a scrivere velocemente per essere più rapido a scarabocchiare sulla lavagnetta durante i time-out), ma essendo una persona estremamente intelligente, non perde mai di vista l’obiettivo finale, ed è questo il primo insegnamento che ha portato in dote ai suoi giocatori. S’insegue un sogno, e non si deve mai smarrire di vista l’essenziale.

Anche per questo, può capitare che decida, durante un meeting con lo staff che non sta andando da nessuna parte, di caricare tutti sulla macchina di Luke Walton e di portare Ron Adams, Bruce Fraser, U’Ren, Gentry e compagnia a farsi un bagno a Muir Beach (beati loro!) per scaricare la tensione.

Sin da subito, l’essenziale è stato lo slogan Strenght in Numbers, non tanto e non solo per i numeri della sabermetrica, quanto per quelli del gruppo, il collante di ogni vittoria. Kerr è stato una stella fino al college, ma in NBA era considerato un giocatore di complemento, un tiratore ordinato, senza troppe velleità, duro il giusto e positivo in spogliatoio.

In quindici anni di professionismo, Ice (come lo chiavano i compagni ai tempi di Arizona) ha visto franchigie votate al disastro, e altre al successo; gruppi mediocri e litigiosi, e altri uniti. Tra Bulls e Spurs, Kerr ha coltivato la convinzione che le vittorie arrivino solo quando tutti remano entusiasticamente nella stessa direzione, senza dividersi tra stelle e comprimari.

Nel corso dell’anno, tutti hanno iniziato a entrare in questa logica, aiutandosi a vicenda a non smarrire entusiasmo e positività, e a non perdere di vista l’obiettivo: il titolo NBA. Kerr ha chiesto ai propri uomini flessibilità, andando a trovarli tutti, uno a uno, prima del training camp. Di solito questo è un trattamento che si riserva alle stelle, ma Steve l’ha fatto con ogni giocatore del roster.

Ha domandato disponibilità, e in cambio ha offerto a tutti un ruolo speciale, creando un mix rivelatosi vincente, alla luce della miglior stagione nella storia della franchigia, e di un titolo NBA che pochi (tra cui noi!) avevano intravisto alla vigilia.

Kerr ha applicato il proprio metodo in primo luogo a se stesso, cercando di essere sempre l’allenatore del quale la sua squadra aveva bisogno, guidandola con piglio deciso ma senza inutili asperità, incoraggiando i giocatori che incappavano in errori d’inesperienza, come a inizio stagione, quando Golden State perdeva un numero preoccupante di palloni.

Voleva usare il Triangolo, il sistema offensivo al quale è più sentimentalmente legato, ma, come disse all’amico di sempre, Bruce Fraser, “non voglio essere troppo drastico”. Così, assunse Alvin Gentry, che conosce dai tempi dei Phoenix Suns, per studiare una variante della Motion Offense adatta al personale a disposizione, ottenendo un sistema che Gentry chiama semplicemente “movimento di palla e di giocatori”.

In difesa, si è affidato a Ron Adams, costruendo una difesa “shell” predicata su velocità d’esecuzione e anticipo, come si vede in situazione di Pick-and-Roll, dove cambiano in modo sistematico. Adams non crede alla narrazione che vuole alcuni giocatori inadatti a difendere; aveva lavorato bene con Kyle Korver, a Chicago, e ha fatto lo stesso con Steph Curry, che ha chiuso la Regular Season con uno dei migliori dieci defensive rating della NBA.

I Warriors di Lacob erano una franchigia ben gestita e dotata di giocatori di primo livello, ma mancava l’ultimo tassello, l’elemento capace di dare trazione in campo all’eccellenza gestionale di Riley, Bob Myers e Jerry West, traducendo il talento in una formazione da titolo.

Mark Jackson aveva posto le basi, lavorando con i giocatori sui fondamentali, costruendo ruoli e una mentalità difensiva, ma il suo atteggiamento stava creando fratture, non unità d’intenti. Troppi ruoli compartimentati, troppa diffidenza verso chi non apparteneva alla sua “posse”, per poter davvero pensare di arrivare fino in fondo.

Steve Kerr ha portato una ventata d’aria nuova, mettendosi costantemente in gioco, accettando il dialogo con il front office e incoraggiando giocatori e staff a essere sempre vocali e propositivi, evitando anche di far pesare il passato illustre nella squadra più mitizzata di sempre, i Chicago Bulls del secondo three-peat.

Kerr fu una colonna di quella formazione, molto più di quanto non traspaia dalle cronache, ovviamente incentrate su Michael Jordan, Scottie Pippen, e Dennis Rodman.

Steve era arrivato nella Windy City dopo il ritiro di MJ, e, quando Jordan ritornò in squadra, fu l’unico dei “nuovi” a non avere un atteggiamento di remissiva timorosità verso His Airness, marcandolo duro in allenamento, tanto da guadagnarsi qualche parola di troppo di Michael, e anche un pugno in faccia.

Phil Jackson in quel momento non era sul campo del Berto Center, e quando arrivò, l’alterco aveva già creato un’atmosfera tesissima. Poi MJ, che si vergognava d’aver alzato le mani contro un giocatore molto più piccolo (e che, oltretutto, stava solo facendo il proprio lavoro), andò da Kerr a chiedergli scusa.

In quel momento, si ruppe la barriera che divideva MJ dai giocatori nuovi, e iniziò a forgiarsi il gruppo che avrebbe vinto tre titoli di fila. D’altronde, “Ice” nella sua vita aveva già dovuto affrontare drammi ed esperienze che aiutavano a mettere in prospettiva un paio di pugni; Steve è nato a Beirut, in Libano, e crebbe tra la Francia e l’Egitto, non al seguito del classico genitore cestista, bensì di Malcolm Kerr, docente di scienze politiche con cattedra a UCLA, ed esperto di Medio Oriente.

La casa di famiglia era a Pacific Palisades, dove Steve finì l’High School, distinguendosi per i risultati scolastici e per l’umorismo profuso nella rubrica che curava per la rivista della scuola. Intercettato da Lute Olson, che lo vide giocare nell’estate del 1983, entrò nel programma di Arizona, che aveva terminato la stagione precedente con un misero 4-24.

Durante il suo primo anno con i Wildcats, Steve perse il padre, assassinato dalla Jihad Islamica a Beirut, dove si trovava in veste di Preside dell’Università Americana. Questo tragedia non spinse Steve a cambiare il proprio modo di essere, anzi, forse lo convinse ancor di più della necessità d’assaporare ogni attimo della vita, senza rimpianti o rimorsi.

Dopo cinque anni (saltò una stagione a causa di un infortunio al ginocchio) di college, Steve Kerr era diventato il classico ragazzo all-american che piace al pubblico NCAA e, in generale, a chi non è necessariamente attratto dal binomio talento-sregolatezza.

Era un ottimo tiratore, disciplinato e dalla battuta pronta; nel libro di John Feinstein, “A Season Inside”, un giovane Kerr dichiara: “Sono il leader di Arizona perché quando siamo andati in Francia, quest’estate, ero l’unico a parlare francese; ogni volta che qualcuno voleva conoscere una ragazza, aveva bisogno di me, e così, sono diventato il leader”.

Steve pensava d’andare a giocare in Europa, per poi tornare in America a fare l’assistente, ma i Phoenix Suns lo scelsero alla fine del secondo giro; passò l’anno da rookie saldamente ancorato in panchina, convinto di sprecar tempo scaldando il pino dei Suns, e poi di Cleveland e Orlando.

Nell’estate del 1993 arrivò la chiamata dei Bulls; in cinque stagioni, vinse tre anelli, diventando un giocatore noto, per poi passare agli Spurs nel 1999, e vincerne altri due (1999 e 2003). Ritiratosi nel 2003, fu immediatamente assunto da TNT come color commentator affianco allo storico broadcaster Marv Albert.

Nel 2007, Robert Sarver lo nominò GM dei Suns, incarico ricoperto per tre anni, durante i quali Steve fece conoscenza con il lascito di Mike D’antoni, e soprattutto con Alvin Gentry, che in seguito avrebbe chiamato ad un ruolo di deus-ex-machina dell’attacco dei Warriors.

Anche da GM, l’ex numero 25 di Arizona ha dimostrato di possedere una tempra umana superiore alla media, come quando, nel 2010, in Gara 6 contro i Lakers (con l’eliminazione che si profilava all’orizzonte), si premurò di accompagnare in infermeria un fotografo rimasto ferito a bordocampo in uno scontro con Jared Dudley, facendo anche il numero della moglie per rassicurarla sulle condizioni del marito.

Quando Kerr decise finalmente di provare l’avventura in panchina, la scelta era tra New York, lontanissima dalla famiglia, e Oakland, forte degli Splash Brothers, ma anche della vicinanza a Berkeley, dove studiano due dei suoi figli. Se chiedete a Steve, vi risponderà di essere stato molto fortunato, capitando al posto giusto al momento giusto.

Kerr dice che allenare è al 90% creare un ambiente di lavoro, e al 10% strategia (“la parte più facile”), e lui ha imparato la lezione da due maestri come Jackson e Popovich; ha offerto alla squadra una meta condivisa e proposto un itinerario per raggiungerla, riuscendo così a vincere le resistenze, tanto che David Lee (uno dei due retrocessi in panchina) dice: “Vorrei giocare di più, ma rispetto il modo in cui Kerr ha gestito la situazione. È onesto è diretto, ed è tutto quel che gli si può chiedere”.

Alle volte, si tratta semplicemente di fare un passo nella direzione di un giocatore, e poi sarà lui a coprire il resto della distanza; Andre Iguodala era scontento d’aver perso il quintetto, ma Ice gli ha dato i gradi di capitano e l’ha messo a capo della second-unit, un po’ come fece Phil Jackson con Lamar Odom, che non aveva preso bene il declassamento in panchina per far spazio a Andrew Bynum.

Sfidato da Jackson, Lamar abbracciò il ruolo, tanto che tre anni dopo divenne Sixth Man of the Year, un po’ come Iguodala, che, in quintetto in 3 partite su 6, è stato scelto come MVP delle Finals 2015, secondo un copione scritto da Manu Ginobili, al quale Kerr gli aveva chiesto d’ispirarsi.

Per tutta la stagione Steve ha incoraggiato i giocatori di rotazione a crederci e rimanere pronti, sicuri che il loro momento sarebbe arrivato, e così è stato. Lee, Iguodala, ma anche Barbosa e Livingston, hanno conosciuto momenti di gloria in Finale, mentre chi perdeva minuti (come Bogut e Speights) non si è lamentato, all’interno di una logica di sacrificio che ha attecchito grazie al lavoro estivo di Kerr, oltre che alle caratteristiche umane di un gruppo guidato da due stelle che non hanno mai preteso scambi, minacciato addii o altre amenità.

Il compianto coach di UCLA, John Wooden, aveva un detto: “È incredibile quel che si può ottenere, quando a nessuno importa chi si prenderà il merito”.
I Warriors, per dirla con le parole di Alvin Gentry, sono “l’epitome della sinergia”.

Golden State è una squadra costruita pezzo dopo pezzo, tramite il draft (Curry e Thompson, ma anche Green, Ezeli e Barnes), la free agency (Iguodala), e gli scambi (Bogut su tutti) secondo un modello graduale che si è confermato ancora una volta vincente, grazie ad un allenatore che ha miscelato il tutto, con buon senso, lungimiranza, qualità tattiche, e, perché no, anche fortuna; quella che, giova ricordarlo, aiuta gli audaci!

2 thoughts on “Steve Kerr, il fortunato

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