Il fallo sistematico (quello che, lontano dalla palla, prende di mira un cattivo tiratore di liberi) è così cinico da poter indurre a credere che sia nato in Europa, terra di pallacanestro attentissima alla tattica.

Invece no, contrordine compagni, il fallo sistematico è nato in NBA, per mano dell’insospettabile Don Nelson, uno che si identifica istintivamente con quella confusione organizzata che va sotto al nome di “Nellie-Ball”, e non certo famoso per la machiavellica spregiudicatezza.

Con una battuta potremmo dire che Nelson, da sempre allergico alle difese, ha trovato un modo per evitare di doversene occupare del tutto, ma è solo, appunto, una battuta.

Don ha pur sempre giocato per Red Auerbach, che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di vincere, e che puntualmente la faceva: quando affrontava Boston, Wilt Chamberlain (la cui percentuale in carriera dalla linea della carità recita un impietoso 51%) era spedito a esibirsi in lunetta, anche ricorrendo al fallo lontano dalla palla.

In fondo, i tiri liberi sono parte del gioco, e il fallo sistematico non è certo violento o antisportivo: “Se sai stare su un campo da basket”, questo il ragionamento con il quale si giustifica, “segna i tuoi liberi”. In realtà, è ovvio, il fallo sistematico è usato solo contro chi i liberi non li sa tirare.

Ai tempi di Auerbach e Chamberlain, l’NBA limitò il più possibile l’hack foul: negli ultimi due minuti di partita, il fallo sistematico era (ed è) punito con due liberi e il possesso della palla, ma questo non vale per il resto della gara, a differenza che in Europa, come ha ricordato David Blatt.

Il fallo lontano dalla palla viene considerato antisportivo (…) Non si può fare un fallo non legato al gioco, e gli arbitri ne capiscono abbastanza da distinguere quando un fallo rientra nella logica dello sport, e quando un giocatore ne abbraccia un altro al capo opposto del campo rispetto all’azione”.

Un po’ di storia, sperando di non annoiare troppo: convenzionalmente, il fallo sistematico nasce come hack-a-Shaq, che potremmo tradurre dagli a Shaq; parliamo di Shaquille Rashaun O’Neal, titolare, oltre a tanti record invidiabili, di un poco lusinghiero 52% ai liberi in carriera.

Ai tempi di LSU, hack-a-Shaq voleva semplicemente dire far fallo su O’Neal prima che potesse tirare. Solo con Nelson (che aveva già usato la stessa strategia nel 1997, contro Dennis Rodman), il termine ha assunto il significato odierno di fallo sistematico lontano dalla palla.

La filosofia di fondo è la stessa di tante strategie appassionanti, che mirano a colpire l’avversario nelle sue debolezze: sfruttare un miss-match o chiamare a ripetizione uno schema che la difesa non riesce a marcare, sono in fondo espressione del medesimo cinismo sportivo.

Al lato pratico, però, quando una squadra inizia a fare hack-a-vattelapesca, si smette di giocare a basket e le partite diventano interminabili e frammentate, al punto da adombrare anche il conciliante Adam Silver, sempre molto attento ai rating televisivi (d’altronde, tengono in piedi la baracca, meglio non dimenticarlo).

Silver: “Non mi piace, e non piace ai fans, per quanto trovi affascinante la strategia. Tuttavia, l’ultima volta che ne abbiamo discusso al board meeting, parecchi anni fa, ricordo fossero presenti Michael Jordan e Larry Bird, e entrambi dissero che i giocatori devono saper segnare i loro tiri liberi”.

Durante le Finali del 2000, sotto 0-1 nella serie, vista l’impossibilità per Rick Smits e Sam Perkins di marcare Shaquille O’Neal (come dite? Raddoppiare con il piccolo? Raddoppiare con il lungo? Far fallo sulla ricezione? Date un’occhiata al video e poi ne riparliamo) Larry Bird ricorse all’hack-a-Shaq.

Federico Buffa, in telecronaca, definì questa strategia un “mezzuccio”, interpretando lo scorno degli appassionati, costretti ad assistere a una non-partita nel contesto teoricamente più aulico di tutti, le Finali NBA. Il quarto quarto durò 48 minuti, e toccò assistere all’orrenda immagine di Reggie Miller che abbracciava O’Neal urlando all’arbitro “guardami!”;

Bird si difese, disse che gli ascolti non lo riguardavano, “Sto cercando di vincere una partita, e se ci vogliono quattro ore di gioco, è quel che faremo”, e finì con impiegare l’hack-a-Shaq in modo rapsodico e mai veramente efficace, anche perché O’Neal mise qualche libero, vanificando la strategia dei Pacers.

In fondo, ci aveva provato anche Mike Dunleavy (senior, ovviamente, anche se junior, allora un ignoto sbarbatello, era ben visibile dietro alla panchina di papà) in Finale di Conference, Gara 1, con esito simile.

L’asprezza delle critiche e la sconfitta di Indiana e Portland fecero sì che l’hack-a-Shaq passasse rapidamente di moda, salvo essere rispolverato da Gregg Popovich, che lo ha usato contro O’Neal e contro altri lunghi scarsi dalla lunetta.

Nel 2008, John Hollinger scrisse che Popovich era il primo allenatore a fare uso in modo proficuo del fallo sistematico: Pop vi ricorreva per eliminare i tiri da tre dall’equazione, oppure per recuperare palla negli ultimi secondi, facendo fallo sulla rimessa (in questo caso, il regolamento prevede due tiri liberi, ma non il possesso della palla, che quindi passa all’avversario).

Nei tiri liberi c’è una forte componente psicologica; secondo Phil Jackson, Dennis Rodman li tirava male perché li detestava, e non per cattiva meccanica.

È insensato credere che Jordan e Howard non passino ore ad allenarsi, ma non basta fare i classici 10.000 tiri liberi al giorno per tutta l’estate per migliorare: in partita, non si tirano lunghe serie di tiri, ma solo uno o due per volta, ed è una cosa completamente diversa.

Per assurdo però, l’hack foul può aiutare il tiratore debole
: prendendo in considerazione i giocatori che, dal 2011, hanno almeno 250 errori una percentuale sotto al 55%, questi convertono i liberi in situazione di “Personal Take Foul” con il 59.2%, contro il 53.7% in situazione normale, il che significa che più uno tira, più la palla entra, proprio come in allenamento.

Popovich sostiene che l’hack foul “Sia una strategia legittima; se qualcuno non sa tirare i liberi, sono affari suoi”. Prevedibilmente d’opinione opposta O’Neal: “È da codardi farlo quando stai vincendo di 10”, ma in realtà è la stessa cosa che ricorrervi quando si perde.

La domanda che sorge spontanea non è tanto se l’hack foul sia o meno nello spirito del gioco, ma se il fallo sistematico funzioni.

A ben vedere, i migliori attacchi della NBA producono circa 1.1 punti per possesso, quindi basta tirare i liberi con il 55% per viaggiare al ritmo delle squadre con il miglior efficiency rating offensivo.

Pur essendo una percentuale accessibile, non sempre giocatori come Dwight Howard e DeAndre Jordan riescono a raggiungerla, ma basta tirare i liberi decentemente per trasformare l’hack-a-Shaq in una strategia che avvantaggia chi la subisce.

L’hack foul lontano dalla palla è una strategia vincente solo contro pochi, pessimi tiratori di liberi (Ricordate? Basta il 55% per andare al ritmo dei migliori attacchi) e solo a patto che in quell’occasione diano il loro peggio.

Non dimentichiamo però, che, dopo l’errore ai liberi, c’è da prendere un rimbalzo; dal 1997 a oggi, i rimbalzi offensivi su tiro libero sbagliato ammontano al 13%, ma nel caso del fallo sistematico, i rimbalzisti si aspettano l’errore.

Con Ben Wallace alla linea, i Pistons catturavano il 16.7% dei rimbalzi, mentre quando in lunetta ci andava il ben più affidabile Billups, il tasso di rimbalzi offensivi scendeva al 10.2%, perché i compagni davano per scontato il canestro.

La percentuale di rimbalzo offensivo con Steve Nash ai liberi è del 3%, e il discorso è simile per Reggie Miller e Pedrag Stojakovic, mentre quando li tirava O’Neal, la sua squadra recuperava palla nel 14.6% dei casi; con DeAndre Jordan in lunetta, addirittura nel 20% abbondante.

Ricapitoliamo: convertendo la metà dei tiri liberi, con l’aggiunta di qualche secondo possesso, si ottiene un’efficienza offensiva più alta di quella dei migliori attacchi NBA. Secondo le cifre di nyloncalculus.com, il valore atteso di un possesso “hack-a-DJ” è di 1.02 punti, che è circa quel che ci si può attendere da un normale possesso dei Clippers.

Per giunta, commettere tanti falli significa ritrovarsi in bonus molto presto, con tutto quel che comporta negli ultimi possessi di un quarto o di una partita.

Perché allora, in piena età sabermetrica, alcuni allenatori si ostinano a seguire questa strategia?

Un aneddoto che riguarda un Suns-Spurs dell’ottobre 2008, può aiutarci a capire: cinque secondi dopo il tip-off iniziale della prima partita NBA della stagione, Popovich mandò Michael Finley a far fallo su O’Neal lontano dalla palla. Era uno scherzo, certo, ma allo stesso tempo un gioco psicologico: “Tu hai una debolezza, e noi lo sappiamo”.

Proprio nel 2008, la NBA cominciò a meditare sul possibile cambiamento della regola, ma il dibattito si risolse con un nulla di fatto. I tiri liberi, questo era il ragionamento ripreso anche da Silver, esistono per scoraggiare i falli; spetta ai giocatori saperli convertire.

Il fallo sistematico può avere diritto di cittadinanza (ed efficacia) quando è utilizzato per mettere un tetto al numero di punti che la squadra avversaria può segnare –ad esempio per difendere un vantaggio a fine partita-, oppure come strumento psicologico, ma oltre a questo, i numeri ci dicono che l’hack foul è inefficiente, se non controproducente.

Il fallo sistematico è certamente un’arma tattica legittima, ma siamo dell’idea che la tattica sia più interessante in applicazione al basket, e non in sua vece. È vero che, come dicono Jordan e Bird, un giocatore deve saper segnare dalla lunetta, ma c’è un’enorme sproporzione tra il danno arrecato al gioco e il vantaggio che ne trae una squadra.

Forse la serie tra Clippers e Rockets suggerirà un intervento del Board of Governors (la pensa così Reggie Miller, che però ha aggiunto che le squadre non tarderanno a trovare un altro modo per far fallo sistematico), oppure, al contrario, ne paleserà una volta di più l’inefficacia, rendendo superflua una norma ad hoc.

2 thoughts on “Focus: il fallo sistematico, la tattica e lo spirito del gioco

  1. Articolo interessante; aggiungerei alcuni elementi:
    – la necessità di ponderare bene chi mandare a fare falli sistematici (se è un panchinaro che sbilancia la squadra in altri aspetti, conviene davvero?)
    – mandare sistematicamente in lunetta significa sedare il ritmo-partita e non poter fare contropiede (o rubare, stoppare o contestare il tiro) il che danneggia squadre che si alimentano di ritmi elevati e transizioni (per questo Kerr ha dichiarato che non ha intenzione di ricorrervi), ma, in altri casi, può consentire anche di riprendere fiato e, secondariamente, parlare “al volo” con i giocatori
    – raggiungere il bonus prematuramente non è un bene (soprattutto se poi l’anello debole ai liberi viene panchinato… anche se questo può essere talvolta il vero scopo dell’hack)
    – il regolamento vigente (Rule 12B, Section IV, pag. 46) definisce il fallo “flagrant 1” come “contatto non necessario”, sia con palla viva che morta (sanzionato con liberi e rimessa), e direi che l’hack è decisamente un contatto difensivo non necessario, avulso dall’azione e spesso lontano dalla palla, se non, come ricordavi, addirittura “chiamato” dal giocatore parlando con l’arbitro… tuttavia, con due “flagrant 1” si esce, per cui credo che gli arbitri non applichino questa regola per non impoverire troppo il gioco svuotando le panchine (ma se l’applicassero diligentemente, l’hack si estinguerebbe in breve tempo).

  2. Sono d’accordo, se li chiamassero come flagrant, smetterebbero di esistere istantaneamente. Non capisco tutta questa timidezza nel provvedere, visto che far fallo a 20 metri dalla palla non ha nulla a che vedere con il basket. Il fallo da “ultimo uomo” va punito (perchè rovina lo spettacolo), e l’hack no?

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