Che James Harden rappresenti oggi un serio candidato alla conquista del titolo di MVP stagionale è piuttosto pacifico. Che sia anche, nell’anno di grazia 2015, la shooting guard più forte dell’intera lega appare quasi scontato, complice il comprensibile calo di coloro ai quali storicamente spettava il riconoscimento, segnatamente Kobe e Wade.

Al livello del Barba infatti, fra gli interpreti del ruolo, viene in mente soltanto l’incredibile Klay Thompson degli entusiasmanti Warriors della prima metà di stagione. Ma il paragone non regge, visto il fardello oggettivamente minore che il quarto anno da Washington State deve portare, per via della piacevole convivenza nel backcourt della squadra della Baia con l’altro grande sospettato del premio di miglior giocatore, Stephen Curry.

Per i soli numeri, l’impatto stimato del gioco complessivo di Thompson sugli eventi della squadra è del 12.9%. Con James invece il famoso PIE vola a uno straordinario 19.0%, inferiore soltanto a quello di Anthony Davis e di Kevin Durant (che però ha giocato solo 14 partite).

Dopo Klay, tocca bussare alla porta dei Bulls e chiedere di Jimmy Butler, per rendimento offerto in questa stagione. A onor del vero ce ne sarebbe un altro, tale Paul George, ma una brutta storia di fratture di tibia e perone lo tiene, giocoforza, lontano dal parquet. E comunque potremmo benissimo bollarlo come ala piccola, per la sua altezza e duttilità, in modo da uscire dall’imbarazzo e tornare al nostro uomo.

La Barba più famosa d’America dai tempi di Abraham Lincoln sta giocando a livelli mai visti in precedenza, trascinando i Rockets sulle vette dell’irto Ovest.

D’accordo è già stabilmente e da almeno un paio di stagioni, se non di più, nell’elite della lega ma il suo gioco spettacolare difficilmente in passato si era accompagnato con un considerevole numero di vittorie di squadra. Di sicuro non da quando è fuggito da OKC e dal ruolo, cucitogli addosso dal sarto Brooks, di sesto uomo con il compito più o meno esplicito di finire gli avversari già ampiamente storditi dalle scudisciate di Westbrook e KD.

James Harden è, fino a questo momento, il motivo principale del record vincente della squadra della Space City che, con 26 vinte e 11 perse, guida la terribile Southwest Division, è terza in tutta la Western e coltiva ambizioni nemmeno tanto velate di titolo. È anche il top scorer della lega con 26.8 punti di media, che quotidianamente condisce con 5.8 rimbalzi e accompagna con 1.8 rubate, ma anche 4 palle perse.

Le sue percentuali sono leggermente inferiori a quelle della scorsa stagione (43.8% da 2 e 36.4% da 3), probabilmente in virtù delle maggiori attenzioni che riceve, derivanti dal fatto che la guardia dei Rockets ha ormai acquisito nell’immaginario degli staff tecnici avversari il ruolo di minaccia totale e, in quanto tale, in ogni starting lineup che si rispetti il suo nome è sovente cerchiato in rosso, fra quelli da ostacolare con ogni mezzo in difesa.

La shot chart di James Harden in questa stagione

La shot chart di James Harden in questa stagione

Il dato degli assist invece va trattato a parte, come dimostrato recentemente da un interessantissimo articolo di Kirk Goldsberry apparso su Grantland la settimana scorsa. James infatti, con il suo stile unico e inimitabile, costituisce a buon diritto – non me ne vogliano gli altri – praticamente l’inizio e la fine dell’attacco di Houston.

La squadra è di tutto rispetto e si presenta completa in ogni reparto (per questo occupa stabilmente i primi posti delle classifiche), tuttavia ad Harden, che del sistema di McHale costituisce il finalizzatore principe, spetta anche il ruolo di imprescindibile catalizzatore del gioco offensivo. In poche parole al barbuto da Arizona State University si chiede ogni volta di cantare e portare la croce, come da buona tradizione delle processioni di paese.

Anche perché accanto al 13, a mettere in moto l’intera baracca, c’è Patrick Beverley, un onesto ed energico mestierante, utile in alcune aree del gioco, ma non certo il prototipo del vostro playmaker vecchio stampo, diciamo alla Nikos Zisis, per non fare sempre il nome di Aldo Ossola. Così, per non sapere né leggere né scrivere, da guardia tiratrice si è messo a smazzare 6.6 assist a partita.

Quel che più conta però è che più della metà dei passaggi illuminanti che effettua sono destinati a compagni diligentemente appostati oltre l’arco dei 3 punti.

Sicuramente vi sarà capitato di leggere Goldsberry. Dalla sua arguta penna abbiamo appreso che la guardia dei Rockets guida l’NBA per assist che portano a canestri da 3 con 128 e che di questi ben 68 sono riservati ai cosiddetti corner 3s. Fra i suoi bersagli preferiti spiccano Ariza (40), Terry (22) e Beverley (27).

La shot chart dei Rockets in questa stagione

La shot chart dei Rockets in questa stagione

Se avete visto Houston di recente, avrete notato decine di azioni molto simili: il Barba si ritrova con la palla in mano, gioca il pick & roll con l’Howard, il Motiejunas o lo spigoloso Dorsey di turno, prende prepotentemente il centro dell’area ed elude l’aiuto degli avversari sparando un missile nell’angolo, quasi a memoria, dove si è sistemato in precedenza uno dei tre sopra citati. Per la difesa un rebus.

Se non onori adeguatamente il tentativo d’incursione, Harden ti ripaga con una schiacciata o, bene che vada, con due tiri liberi ovviamente realizzati. Sì, perché se James in questo scorcio di stagione (37 gare) ha già messo a referto 94 triple, che insieme a quelle fatte segnare ai compagni fanno 222 bombe totali in cui ha messo lo zampino (di gran lunga il migliore della lega), è anche il capofila del campionato nei punti segnati di media in penetrazione con 7.8 ad allacciata di scarpe.

Non solo, è stato stimato che ogni sera dalle sue penetrazioni, indipendentemente dal loro epilogo, la squadra ricava la bellezza di 14,2 punti – dato, se vogliamo, ancora più inquietante – che ancora una volta significano primato assoluto. Era dai tempi di Iverson probabilmente che una difesa NBA non veniva smossa così a fondo dalle scorrerie di un solo uomo.

Alla data del 1 gennaio 2015 infatti gli altri Rockets recuperavano il 55% dei suoi errori al ferro. Questo significa che fra canestri (suoi) e palle rigiocate (dai compagni) praticamente ogni penetrazione del Barba andava a punti. O quasi.

Se a tutto ciò aggiungiamo la diabolica e ancestrale abilità nel procurarsi secchiate di tiri liberi (7.9 liberi segnati in media su 8.8 tentativi per un discreto 89.6%), il quadro che emerge è quanto meno cervellotico per ogni allenatore che si appresti a studiare qualcosa, qualsiasi cosa, per fermarlo. D’altra parte Harden è la creatura perfetta del GM Daryl Morey. Mai connubio fu più azzeccato!

Se giocare al Morey-Ball significa privilegiare le opportunità di gioco dotate di maggiore efficacia, limitando, se non eliminando del tutto quando possibile, le soluzioni a bassa percentuale di realizzazione, un’arma totale (e per giunta irsuta) che o va al ferro con grande forza, oppure tira da 3 punti con estrema competenza, altrimenti arma la mano dei compagni posizionati correttamente negli angoli, sembra telecomandata col joystick.

Non per niente i punti che segna Houston provengono per il 34.8% del volume da conclusioni dalla lunga distanza e solo per un misero 6.3% dal midrange. Inutile commentare che sono ampiamente fuori classifica in entrambe queste tendenze rispetto a tutte le altre squadre della lega, anche quelle più spregiudicate come i Blazers.

Nella prossima tabella è possibile trovare un’analisi comparata di alcuni dei migliori esterni in base ai punteggi più rappresentativi se, compiendo un puro esercizio di fantasia, si giocasse tutti quanti al Morey-Ball.

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Dalle graduatorie però scopriamo che il tanto bistrattato Morey-Ball non è troppo diverso dal gioco del basket, dal momento che fra coloro che nel complesso producono più punti per la squadra sia da situazioni al ferro che da giocate oltre l’arco troviamo, dietro ad Harden, nell’ordine, Lillard, Lawson, Lowry, Curry e Teague. Praticamente il gotha moderno delle guardie NBA, se si considera chi vi appartiene in assoluto e chi magari soltanto relativamente a questa stagione.

Ovviamente quelli indicati restano soltanto numeri che, oltretutto, non stanno nemmeno così bene insieme, visto l’accostamento piuttosto insolito.

Comunque la si voglia vedere, stupisce che sia proprio Harden l’esemplare più canonico di questo nuovo modo di giocare, una tendenza che, se confermata, rischia di fagocitare nel giro di pochi anni fondamentali purissimi, oltre che piacevolissimi da ammirare, come l’arresto e tiro dal midrange.

Sia chiaro, il Barba non si fa mancare nemmeno quello, solo che il palleggio è solito raccoglierlo ben prima della linea dei 3 punti (un canestro e mezzo segnato a partita, dietro solo a Curry). Il piano partita dei Rockets è di chiara matrice statistica e, come detto, sorprende che uno che porta in giro una barba così e quel modo di giocare non proprio convenzionale ne sia l’alfiere più rappresentativo.

Harden infatti può essere definito in ogni modo tranne che si faccia riferimento a un qualche tipo di ortodossia. Il più delle volte sembra procedere sul campo a un ritmo tutto suo. Non abbandona lo spartito della gara ma si concede brani di pallacanestro in libertà.

Come quando minaccia il difensore con una partenza diretta, spinge due, tre volte il piedone sinistro in avanti sul parquet per poi esibirsi in uno step back che, fatto da lui, sembra la cosa più facile di questo mondo ma che in realtà è complesso da imitare come la Gioconda. Va bene anche quella esposta al Museo del Prado.

Insieme a Manu Ginobili e, perché no, al nostro Gallo è probabilmente oggi il miglior interprete del famoso euro step in penetrazione. A differenza degli altri però, James tende a concludere il numero inducendo quasi sempre il difensore al fallo e andando a posizionarsi in lunetta con una certa noncuranza.

Sulla sua tecnica di arrembaggio che comincia con l’introdurre le braccia sotto quelle del difensore per poi magicamente venirne ostacolato una volta messo in atto il tentativo di stenderle sono stati versati fiumi d’inchiostro. Quando si insinua all’interno della prima linea difensiva, sembra condurre l’avversario di turno come in un tango argentino, magari approfittando dell’aiuto di un pick & roll, magari no.

La sua arroganza tecnica è fastidiosa. Se gli concedi spazio, te la scaglia in faccia brutalmente, se gli porgi la via verso il canestro, invitandolo a cacciarsi in bocca al compagno più affamato, te lo ritrovi in lunetta o a festeggiare l’affondata con fare irriverente. Uno, due, tre, quattro ed è sempre lì che si palleggia fra le gambe, uno, due, tre, quattro, ammicca col sopracciglio, uno, due… boom ed è già tempo di andare di là per recuperare.

E pensare che con ogni probabilità la sua arma più affilata in certe circostanze è il passaggio direttamente dal palleggio. Se Kukoc era detto il cameriere per come serviva la palla agli altri Bulls, Harden in questi Rockets che cos’è? Il caposala?

Citando ancora il tango – per restare in tema – in particolare il bellissimo pezzo dal titolo “Por una cabeza” (per una incollatura) di Carlos Gardel, dedicato al cavallo da corsa ma anche alla donna, se ti metti a sfidarlo, perdi “per un’incollatura del nobile puledro che proprio quando arriva al traguardo rallenta e che quando torna sembra dire: No olvides, hermano, vos sabes, no hay que jugar…” Non dimenticare fratello, lo sai che non si deve giocare. Perché il Barba è così forte che a momenti sembra prenda in giro, mentre rientra dopo una delle sue giocate.

Concentriamoci sulla difesa per esempio. Fino alla scorsa stagione era la barzelletta della lega. Ricordate il popolare video di youtube “James Harden, Defensive Juggernaut”?

Ebbene solo pochi mesi fa più di 1.700.000 persone visualizzavano comodamente dal proprio pc di casa 11 minuti abbondanti di set difensivi orribili del 13. Diciamoci la verità, alcuni spezzoni sono da denuncia, e gli abbiamo voluto bene. Ne combina di cotte e di crude.

Nei diversi frame che si susseguono non sembra degnare l’avversario diretto nemmeno di uno sguardo. Mai. E non certo per correre in aiuto dei compagni. Le azioni nella propria metà campo sono a tutti gli effetti degli spiacevoli ma obbligati passatempi in attesa, come i bambini, di poter tornare a giocare con il pallone dall’altra parte. È davvero imbarazzante. Non ci prova nemmeno. Neppure per finta.

Ecco, dopo un autentico massacro mediatico che ha finito per scalfire pezzetti di grandezza conquistati a suon di canestri, il nostro pare si sia messo anche a difendere. I numeri sono, ancora una volta, belli ordinati, lì a indicarcelo: Harden è il secondo giocatore per minuti giocati di una delle migliori difese del campionato.

Houston è seconda per defensive rating con 98 punti concessi agli avversari ogni 100 possessi. Anche andando oltre i grezzi numeri, il Barba di questa stagione appare un difensore più competente.

La posizione è quasi sempre quella consona, il grado di coinvolgimento in campo e il livello di attenzione nei confronti di ciò che gli succede intorno non scarseggiano come un tempo. Il suo concetto di marcatura si è notevolmente avvicinato a quello di ogni altro normale essere vivente su questo pianeta. Voglio esagerare: in determinati momenti della partita tiene persino le gambe piegate, nella classica posa del generoso difensore.

A tratti dimostra interesse per la lettura dei movimenti dell’attacco a cui è opposto ed a cui peraltro reagisce con maggiore cognizione di prima.

Ma non fidatevi di Harden. Probabilmente sta recitando. È vero che si applica e si vedono pure i risultati però la rinnovata dedizione alla fase difensiva non sembra poi così spontanea. Lo fa perché lo deve fare, perché gliel’hanno contestato a più riprese. Lo fa quel tanto che basta ma in questo non è diverso da un Thompson qualsiasi, specie in certi momenti della stagione. Il miglioramento è sotto gli occhi di tutti e gliene va dato atto. Che i detrattori si plachino!

Per quello che mi riguarda tuttavia, nessuna statistica riuscirà mai a convincermi del fatto che, tutto insieme, sia diventato un sublime difensore. Ma sicuramente sono nel torto. Troppo forte è la sensazione che agguanti quei palloni dalle mani dei dirimpettai in ragione della superiore rapidità che riversa sul parquet e che riesca a contenere l’uno contro uno ben oltre il secondo passo in virtù dei mezzi atletici fuori dal comune di cui dispone.

Da questa prospettiva i progressi mostrati nella stagione in corso potrebbero anche non essere il frutto dell’allenamento e del perfezionamento di una corretta tecnica difensiva. Infine Il Barba possiede anche una discreta forza nella parte superiore del corpo, grazie alla quale occupa molto spazio e si interpone tra gli avversari e il pitturato, andando a sporcare palloni non suoi e, non di rado, a cercare lo sfondamento. Di sicuro per quanto è forte con lo spalding in mano, l’energia che spende per proteggere il proprio canestro è più che sufficiente.

A noi appassionati della palla a spicchi basta e avanza. Se qualche volta, distrattamente, perdesse nuovamente l’uomo, non potremmo esimerci dal perdonarlo, di fronte alla promessa di una nuova zingarata mancina. E poi, con una barba così, che importa del resto?

5 thoughts on “Focus: James Harden

  1. Articolo tecnicamente sublime….in italia siete in pochi a padroneggiare così bene l’argomento. .di sicuro il sito migliore. .continuate così

  2. Complimenti, bell’articolo. Insieme a Curry, Harden è oggi il giocatore più eccitante della lega…ha uno stile tutto suo e personalissimo ma soprattutto ha una pulizia tecnica e dei fondamentali clamorosa. Credo che abbia ancora dei margini di miglioramento e questo sinceramente mi preoccupa (da tifoso Mavs). La sfida per l’MVP tra lui e Curry quest’anno sarà bellissima (e se pensiamo all’altro, quello col monociglio, ci aspettano dei bei anni a seguire…)

  3. Questo Mandriani e’ attualmente il miglior giornalista italiano di basket nba. Tanto di cappello.

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