Se ce la fai a New York, cantava Frank Sinatra, ce la puoi fare in qualsiasi posto.

Non c’è città al mondo che metta più pressione e che abbia giornali con penne più affilate di quelle degli editorialisti newyorkesi; a New York ogni cosa è una tragedia o un trionfo, e per gestire una squadra NBA in un ambiente simile, ci vuole uno come Phil Jackson.

10836541_10152897729829521_27803607_nLo Zen Master ha dalla sua un illustre passato in maglia arancio-blu, con due titoli (gli unici vinti nella gloriosa, ma sfortunata storia dei Knicks) risalenti ai tempi di Red Holzman, quando Jackson usciva dalla panchina ed era un centro-ala dalle braccia interminabili, uno dei migliori difensori degli anni settanta.

In quei due trionfi Jax recitò un ruolo da comprimario (nel 1970 non giocò nemmeno, a causa dei postumi di un intervento alla schiena), ma era un beniamino del pubblico, vuoi per la “garra” che ci metteva, vuoi perché fuori dal campo era un personaggio.

Il background familiare di Jackson è lontano dall’immagine da santone anti-sistema che gli è stata cucita addosso nel corso degli anni; nativo di Deer Lodge, Montana, figlio di due ministri pentecostali, Phil crebbe timorato di Dio in un piccolo mondo fatto di Chiesa e sport, l’unica vera occasione sociale della gioventù sua e dei suoi fratelli.

Reclutato da Bill Fitch per l’Università di North Dakota, fu scelto nel draft del 1967, al secondo giro. Talento eclettico (nel ’70, mentre era infortunato, pubblicò un libro fotografico dedicato alla cavalcata vincente dei suoi compagni di squadra) e intelligenza pungente, Jackson era dipinto come un ribelle, ma bastava guardare oltre la barba lunga per accorgersi che era il giocatore più disciplinato della squadra, e quello più vicino a Coach Holzman.

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Al termine della sua carriera, nel 1980, la nomea di personaggio alternativo gli costò l’ostracismo dell’NBA. Così andò ad allenare a Porto Rico, nella leggendaria BSN, e in CBA, con gli Albany Patroons, vincendo il titolo in entrambe le leghe.

A quel punto Jerry Krause lo chiamò ai Bulls come assistente di Doug Collins, ma presto maturò l’idea di sostituirlo a Collins, i cui limiti iniziavano a collidere con i progetti di “briciole” Krause.

Jackson diventò Head-Coach di Chicago nel 1989, vincendo sei titoli NBA ai quali sono seguiti altri cinque anelli a Los Angeles, ma Jackson bramava un ruolo manageriale che nessuna delle due franchigie volle mai concedergli.

Ora, ritornato in grembo alla franchigia che più di tutte sente “sua”, Phil ha finalmente l’opportunità di plasmare una squadra a propria immagine e somiglianza.

Jackson non aveva mai fatto mistero di voler tornare ai Knicks; quando, nel 1996, Ernie Grunfeld licenziò Don Nelson e nominò un assistente (Jeff Van Gundy) al ruolo di allenatore, Jackson ammise che, sì, “ora che New York non ha un Head-Coach, potrebbe anche interessarmi”.

Nel marzo del 2014 James Dolan lo ha nominato Presidente plenipotenziario dei New York Knicks (affiancato dal GM, Steve Mills), e nel corso dell’estate Jackson ha posto le fondamenta di un nuovo corso, licenziando Mike Woodson e assumendo come allenatore Derek Fisher, che era stato un suo pretoriano ai tempi dei Lakers.

Fisher ha immediatamente dichiarando di ritenere il roster sufficiente per puntare ai Playoffs, ma questi Knicks hanno pareggiato la peggior partenza della storia di franchigia su 19 gare (4-15), e, i giornali locali iniziano a mormorare, dimostrando (a scelta) grande incompetenza o assoluta cattiva fede.

Non si può giudicare una dirigenza chiamata a ricostruire un club (e tantomeno un allenatore esordiente) a un mese dall’inizio della stagione, ma questa mentalità “tutto e subito” è molto forte a New York, non tanto nel pubblico –che certo, a volte fischia, ma comunque ha sempre riempito un’arena dai prezzi poco modici anche negli anni peggiori– quanto su New York Post e Daily News, costantemente alla ricerca di qualcuno da mettere alla gogna.

Ragionare sempre e solo in termini di “Championship or Bust” (titolo o fregatura) ha già mietuto numerose vittime: da anni i Knicks partono con un progetto ma poi si fanno ingolosire dalle scorciatoie, infilandosi in vicoli ciechi.

Una stagione negativa ai Knicks significa cacciare l’allenatore e cuocere a fuoco lento il GM, quando, in realtà, la parola chiave per ottenere successo è “stabilità”, e per avere conferma chiedete ad Arison, degli Heat, o a Holt, degli Spurs.

Jackson e Fisher hanno ereditato una formazione reduce da un bilancio di 37-45. Quest’estate Jackson ha riconfermato Carmelo Anthony (ci ritorneremo) e scambiato Tyson Chandler e il problematico Raymond Felton in cambio di José Calderon e Samuel Dalembert, nel tentativo di attrezzarsi con un playmaker adeguato senza perdere troppo sotto canestro.

Fisher sta cercando di insegnare alcuni principi di gioco, e di capire quali giocatori possono funzionare con il triangolo (Jason Smith sta stupendo: segna il 23.4% dei canestri di New York, e padroneggia il sistema, ma è anche titolare del peggior defensive-rating di tutta la squadra) e quali no.

New York si applica, lotta, ma, fondamentalmente, tende a “andare corta”. Nei fatidici ultimi 5 minuti di gara gli avversari dei Knicks segnano 122.4 punti per 100 possessi, un’enormità che contribuisce a spiegare il record perdente, molto più dei problemi offensivi o delle palle perse.

Delle 19 gare giocate, ben 12 sono state decise da un margine di 5 punti entrando negli ultimi 5 minuti di gioco, e i Knicks ne hanno perse 10, nonostante l’eccellente 64.7% dal campo di Carmelo Anthony in queste situazioni.

Secondo Fisher “Negli ultimi minuti diventiamo frettolosi nella selezione di tiro e nelle scelte, mentre dovremmo essere più controllati e fidarci di giocare possesso per possesso”.

Contro i Nets, a 15 secondi dalla fine e con la palla in mano, Fisher si è sgolato per chiamare time-out, ma l’arbitro non l’ha visto e Anthony è stato costretto a prendere subito un da tre. Marc Berman, del Post, ha twittato “Fisher non riesce a vincere. E nemmeno a chiedere time-out”, ma lo staff tecnico sta lavorando con profitto se una squadra con così tanti difetti riesce comunque ad rimanere punto a punto.

Dopo la partita, Fisher rimarcato che “sarebbe preoccupante se fossimo 4-15 senza essercela mai giocata, mentre vediamo che, controllando quelle porzioni di gioco che possiamo controllare, potremmo vincere queste partite; nessuno è contento, ma ci crediamo”.

Inoltre, i Knicks sono un diesel: partono piano e poi ingranano. Dopo la sconfitta contro i Pistons, Derek Fisher si è detto “contento che la squadra abbia lottato per rientrare in partita, ma dobbiamo cercare di essere migliori da subito, così da non arrivare in fondo esausti per aver passato la partita a rincorrere”.

I Knicks sono particolarmente fragili perché, sebbene seguano delle direttive precise, non hanno una difesa individuale di livello (gli unici giocatori che hanno un defensive rating accettabile sono Dalembert, Travis Wear e soprattutto Cleantony Early, mentre gli altri vanno dal mediocre al tragico) e non hanno ancora confidenza con l’Attacco Triangolo.

La difesa desta le maggiori perplessità, privata oltretutto di Tyson Chandler, forse inadatto, per età e caratteristiche, al nuovo corso di Jackson, ma ideale nell’immediato per coprire i giocatori che la difesa non l’hanno mai imparata (Stoudemire, per sua stessa ammissione), o che non hanno attitudine (Anthony, J.R., Bargnani).

Quando i lunghi sono così fragili difensivamente come Smith e Stat (che peraltro, in area sta concedendo pochissimo al proprio avversario diretto), servirebbe una difesa perimetrale arcigna, mentre J.R. concede relativamente pochi tiri al ferro, ma su quelle conclusioni i suoi avversari hanno il 75%. Lo stesso discorso si può fare per Carmelo e per Iman Shumpert.

Collassare in area è la soluzione alle carenze individuali, significa però concedere buone percentuali sui long-two (45.9%) e sul tiro da tre (39.2%). Nel basket di 20 anni fa si poteva pensare di ottenere risultati chiudendo l’area e lasciando il tiro da fuori, mentre oggi è un suicidio. Fisher questo lo sa, ma dovendo partire da zero, ha logicamente deciso d’iniziare a insegnare come difendere i tiri a più alta percentuale.

Inoltre, i Knicks concedono troppi secondi possessi (solo i Mavs fanno peggio dei 29.1% di rimbalzi offensivi concessi dai ragazzi di Fisher), compensati solo in parte dal 54% a cui tengono gli avversari sotto canestro (seconda miglior squadra NBA).

Il discorso è diverso per l’attacco, dove c’è talento, ma non grande chimica.

Il Sideline Triangle Offense non è un meccanismo particolarmente cervellotico, ma, all’inizio, gli errori individuali si sommano tra loro e le letture si complicano: passare dagli schemi a un sistema è una transizione spesso frustrante per i giocatori.

In questa situazione, la firma di Carmelo Anthony è un’arma a doppio taglio: da un lato, ha tacitato la stampa, che era già pronta ad accusare Phil Jackson d’averlo fatto fuggire, ma dall’altro, la sua presenza ha inevitabilmente accresciuto le attese su di un gruppo che avrebbe bisogno di viaggiare per un po’ a fari spenti.

Le sue frasi (ha sostanzialmente detto d’aver scelto New York e non Chicago perché non voleva cambiare) confermano l’impressione che Melo sia rimasto senza troppo trasporto, e forse anche questo influisce sulle prestazioni, che non sono certo negative, ma nemmeno all’altezza delle attese, giacché le caratteristiche tecniche di Anthony si sposerebbero alla perfezione con il Triangolo.

Di fatto, i Knicks stanno tirando come lo scorso anno (44.8% dal campo contro il 44.9% di Woodson), ma sono chiamati a costruire i tiri in modo diverso, pur continuando ad avere un ritmo basso (prendono quasi il 40% dei loro tiri con 15-7 secondi sul cronometro).

La shot chart dell'anno scorso...

La shot chart dell’anno scorso…

… e quella di quest’anno…

Il 57.3% dei loro canestri è assistito, e se il dato in sé non è granché (Wizards e Hawks sono al 65%, Spurs e Warriors al 64%) va letto alla luce del 54.2% dell’anno scorso. Ovviamente, aumentando i passaggi salgono anche i turnover, così i Knicks sono passati a perdere 16.2 palloni su 100 possessi, contro i 13.9 dell’anno scorso.

Cambiare allenatore e filosofia di gioco può naturalmente portare dei benefici, ma i giocatori sono rimasti gli stessi.
Un allenatore migliore può aiutare una squadra a crescere, ma non può prescindere dal personale a disposizione, e in questo senso, certe critiche al “sistema Triangolo” non hanno senso; certo, Jackson ha vinto con grandi giocatori, mentre il Triangolo non ha ottenuto risultati quando applicato con giocatori molto più scarsi, ma è un discorso valido sempre e comunque, per ogni tipo d’attacco.

Che cosa aspettarsi allora dal resto della stagione?
Un anno fa, al Media Day di Tarrytown, James Dolan parlò apertamente di titolo NBA, e sappiamo com’è andata a finire.
La nuova gestione ha collocato le ambizioni immediate a un più realistico accesso ai Playoffs.

New York deve registrare un attacco completamente nuovo, ha problemi difensivi d’ogni genere, eppure se la gioca punto a punto, e questo è un dato incoraggiante.

Un anno fa fu Jason Kidd (esordiente come Fisher) a partire malissimo, ma la seconda parte di stagione dei suoi Nets fu un crescendo; nella Eastern Conference la battaglia per i Playoffs non è certo improba, e i Knicks potrebbero tornare in corsa, se miglioreranno nella cura dei dettagli.

Equilibrio e pazienza sono merce rara a New York, ma sono indispensabili per valutare questa squadra senza soccombere al pessimismo cosmico o a pericolose tentazioni (leggi: trade malaccorte).

Dolan non è coinvolto nella gestione della squadra, e anche questo è un passo avanti, perché, come Phil Jackson e Derek Fisher hanno ripetuto spesso, non vanno persi di vista gli obiettivi di lungo periodo e per arrivarci occorre procedere un passo alla volta anziché cercando scorciatoie.

Jackson e Fisher vedono nel Triangolo qualcosa di più che un mero sistema di gioco; per loro, il Triangolo trascende gli schemi, simboleggia un modo di vedere il basket, fatto di gioco di squadra e sacrificio.

È una lezione antica, che passa per i Bulls di Jordan e Pippen, per i Lakers di Kobe e Shaq, ma che risale indietro nel tempo fino ai Knicks di Red Holzman, una squadra nella quale le individualità di Frazier, Monroe, DeBusschere, Reed e Bradley si sublimarono nel collettivo. Forse non è un caso se quei Knicks furono gli unici a vincere il titolo NBA.

6 thoughts on “Jackson, Fisher e Melo: il Triangolo dei Knicks

  1. bell’articolo!!!
    il problema è che questa squadra non è da playoff.. forse a est è più facile ma rimango dell’idea che conviene rimanere fuori .. bisogna avere pazienza e ricostruire…
    L’anno prossimo, un anno in più per chi resta nel sistema, e si aggiungono giocatori più “giusti”…
    l’importante è Credere in Jackson ..

  2. Ti ringrazio! Penso anche io che il futuro dei Knicks non si giochi tanto sull’accesso o meno ai Playoffs quest’anno, quanto sulla loro capacità di restare fedeli ad un progetto, senza farsi convincere che c’è fretta di arrivare da qualche parte. Jackson forse direbbe che “la meta è il viaggio”!

  3. Soprattutto, a fine anno scadono i contratti di Stat e Bargnani (e Dalembert): da qui si potrà tentare una ricostruzione, difficile ma possibile.

  4. Sicuramente, ma direi che costruire una cultura sia ancora più importante, per un ambiente che è abituato ad esaltarsi e deprimersi con troppa facilità. Quest’anno, Jax e Fish stanno provando a dar forma alla cornice entro la quale lavorare in futuro

  5. Bell’articolo davvero…i giornalisti di ny devono essere davvero delle serpi…l’unica cosa che non mi è tanto chiara è la scelta di calderon…un giocatore firmato a cifre davvero troppo alte lo scorso anno dai mavs,che viene inserito nel contesto del triangolo,che richiede un portatore di palla,più che un vero play (Ron harper con mj e con la prima versione di la,lo stesso fish nella seconda) in più hai una zavorra in difesa…bah…

  6. Calderon probabilmente era la cosa più vicina ad un Harper che fosse disponibile: ha stazza e tiro, passa bene la palla, ed è un giocatore che può metabolizzare bene un sistema di gioco come il triangolo. Certo, non è un difensore di livello, e costa molto.

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