La free agency è una strana creatura, volubile e mutevole, alla quale è sempre opportuno approcciarsi con estrema cautela.

Gli Houston Rockets nelle ultime campagne acquisti avevano catturato Jeremy Lin, Omer Asik e Dwight Howard (conditi, per gradire, con l’acquisto di James Harden), ed erano convinti di essere destinati a fare la voce grossa anche quest’anno, secondo le ambizioni del proprietario, Leslie Alexander, e del GM, Daryl Morey, intenzionati a firmare un’altra stella per colmare il divario con le powerhouse della Western Conference.

La free agency, però, non può mai essere data per scontata, e i Rockets l’hanno imparato sulla propria pelle; convinti di poter convincere Carmelo Anthony o Chris Bosh ad accasarsi in Texas, si sono sbarazzati senza troppi pensieri di Omer Asik (che mal digeriva la convivenza con l’altro centro, Howard, ed era un lusso insostenibile se tenuto in panchina), spedito a New Orleans, e hanno poi scaricato Jeremy Lin ai Lakers (che già si era indispettito per i poster affissi sul Toyota Center, ritraenti Carmelo Anthony con la maglia numero 7 di Houston, che, fino a prova contraria, apparteneva all’ex allievo di Harvard).

Rimasti esclusi dalla corsa a Melo, Morey e Alexander pensavano di avere grandissime chances di mettere sotto contratto Chris Bosh, ma i Miami Heat hanno rotto indugi e salvadanaio, investendo tantissimo su CB4, trattenendolo così in Florida.

Intanto, Houston aveva lasciato che Chandler Parsons, la stellina rivelazione dell’ultima stagione, sondasse il mercato dei free agent (sebbene fosse restricted, quindi se avessero voluto, avrebbero potuto trattenerlo pareggiando l’offerta di qualsiasi altra squadra).

I Rockets hanno accarezzato l’idea di colmare la lacuna nello spot di “4” con Chris Bosh (che sembra tagliato dal sarto per giocare nell’attacco di coach McHale) nel ruolo del perfetto stretch four capace anche di portare in dote una buona dose di difesa d’aiuto – merce che a Houston, nell’ultimo anno, era tanto pregiata quanto rara – oppure di usare Carmelo Anthony nel medesimo ruolo (con caratteristiche diverse: Anthony, che due anni fa ha disputato una stagione notevole giocando da power forward atipica, avrebbe consentito ai Rockets di sposare definitivamente uno schieramento con quattro esterni, tutti offensivamente molto pericolosi).

Tuttavia, nel giro di qualche settimana, i “Razzi” si sono fatti sfuggire Melo e Bosh, e, quel che è peggio, hanno perso Parsons, Lin e Asik, senza ottenere nulla in cambio, ritrovandosi con un roster che rimane discreto, ma che è certamente peggiore di quello dello scorso anno, nonostante la firma di Trevor Ariza, ottenuto con un sign-and-trade dai Washington Wizards.

I Rockets, offensivamente entusiasmanti (anche se tendenti a ritmi sincopati), sono una formazione largamente insoddisfacente nella metà campo difensiva. Lin non è un difensore all’altezza, Harden ha un atteggiamento passivo e Parsons si è adeguato all’andazzo, risultando così ventitreesimi in NBA per punti concessi a partita, trend confermato nei Playoffs, che li ha visti sconfitti dai Blazers al primo turno.

Anthony sarebbe stato un’addizione intrigante, ma era Bosh a costituire il giocatore tatticamente ideale per dare stabilità a Houston e per coprire i passaggi a vuoto del backcourt.

Sfortunatamente per i Rockets, Bosh ha ritenuto più attraente il contrattone offertogli da Pat Riley, unito alla possibilità di giocare un ruolo più importante negli Heat del futuro prossimo.

Una volta svaniti CB4 e Melo, aver scaricato i contratti di Asik e Lin (16 milioni complessivi per il cap, 30 milioni effettivi) è sembrata una mossa pessima, non tanto perché i due fossero giocatori chiave nel sistema (Asik viene da una stagione in cui è stato impiegato per 20.2 minuti come cambio di Howard, mentre Lin è un tiratore sospetto e, in un contesto come quello di Houston, è un giocatore destinato a combinare poco, perché ha bisogno della palla in mano, e quella è prerogativa del Barba) ma perché in cambio i Rockets non hanno ottenuto nulla, e dovranno ora trovare il modo di rimpiazzare i 49.1 minuti di media che i due giocatori, bene o male, trascorrevano in campo.

Per giunta, i Rockets avrebbero, a quel punto, potuto fare di necessità virtù e utilizzare lo spazio salariale ottenuto per pareggiare l’offerta di Dallas a Chandler Parsons, ma 46 milioni in 3 anni sono troppi, e Morey ha optato per un cavallo di ritorno: Trevor Ariza, ottenuto mandando a Washington la trade exception lucrata nell’affare-Asik.

Ariza, titolare di un’eccellente stagione con i Maghi della Capitale (14.4 punti, 6.2 rimbalzi e 2.5 assist), è un attaccante peggiore di Parsons (non ne ha il talento e la varietà di soluzioni) ma è un difensore nettamente superiore, ed è questo ad aver fatto pendere l’ago della bilancia in suo favore.

I Rockets hanno scelto di investire 32 milioni in 4 anni sui miglioramenti difensivi che Ariza produrrà, scommettendo sulla maturazione di Beverley, che diventa titolare assoluto dello spot di play (alle sue spalle, occhio a Isaiah Canaan, titolare di una eccellente Summer League), e di Terrance Jones, assurto, nella seconda parte di stagione, ad ala forte titolare.

Insomma, Morey ha scaricato i contratti di Lin e Asik, due giocatori d’indubbio valore, ma che a Houston non potevano essere valorizzati a dovere, e rimpiazza Parsons con il più economico (e miglior difensore) Trevor Ariza.

Detto così, i Rockets parrebbero usciti benissimo dal mercato estivo, mentre, in realtà, hanno semplicemente fatto il possibile, dopo aver commesso alcuni errori iniziali, quando si sono esposti troppo senza avere la certezza della firma di Chris Bosh.

Morey dovrà inoltre riflettere sulla decisione di non attivare l’opzione che avrebbe prolungato di un anno il contratto di Parsons. È vero che Chandler non sarebbe stato contento di continuare a giocare a prezzi di saldo, ma nel corso di un anno molte cose possono cambiare (o… scambiare, ad esempio, per un Iman Shumpert).

Al netto di Ariza (o di Clint Capela e Nick Johnson, i due giocatori arrivati via draft), la sensazione è che Houston sia costruita attorno a due superstar che hanno difetti tecnici, ma anche caratteriali, difficili da limare.

James Harden, dalle Finali NBA 2012 in poi, ha confermato alcune perplessità riguardanti il suo gioco; era e resta uno scorer potenzialmente irresistibile, ma troppo legato ai propri istinti, e in difesa è troppo passivo, limitandosi a cercare sempre la palla rubata, esponendo il canestro alle penetrazioni.

Difficile, a queste condizioni, fare il balzo in avanti che trasforma una stella in un giocatore assoluto. Le potenzialità, lo ripetiamo, ci sono tutte, ma ci sembra che un certo tipo di difetti siano, storicamente, difficilissimi da rimuovere.

Lo stesso può dirsi per Dwight Howard; si è scritto molto riguardo al suo carattere e la sua pretesa di avere attenzioni ma non responsabilità.

Quel che più preoccupa, dal punto di vista cestistico, è che, operato alla schiena, Dwight non è più tornato il fenomeno fisico che faceva il vuoto in difesa. Sono emersi limiti inquietanti sotto il profilo tecnico, e, se coach McHale è riuscito a convincerlo a limitare (ma forse andrebbero abrogate del tutto) le ricezioni statiche, va detto che la coesistenza con Harden rimane complessa.

Finché Hoston non riuscirà a sintonizzare sulla stessa frequenza tecnica le due superstar, la composizione del supporting-cast (rimpolpato dalla conferma di Troy Daniels e dall’arrivo di Ish Smith, Alonzo Gee, Jeff Adrian e Joey Dorsey) rimarrà una questione marginale.

Forse, aver eliminato in un colpo un emergente come Parsons e due giocatori scontenti come Lin e Omer Asik, contribuirà a responsabilizzare il Barba e Superman, “aiutandoli” a restare sul pezzo.

In tutta onestà, non siamo convinti che questo scenario possibile sia anche probabile, ma i Rockets non hanno alternative e devono provarci, consapevoli come sono che, in caso di un’ennesima stagione deludente, occorrerà cambiare qualcosa: l’allenatore (scelta più facile ma meno pregna di conseguenze) o il “player personnel”.

 

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