Le “bandiere”, presunta stirpe in via d’estinzione, sono uno dei miti fondanti di qualsiasi sport, in qualunque angolo del globo.

Ci sono atleti che, vestendo la stessa uniforme per tutta la durata della loro carriera, hanno contribuito a plasmare il volto di una realtà sportiva, non solo e non necessariamente con i successi, ma con continuità e fedeltà, oltre che con quell’etica lavorativa e quella forza caratteriale che può spingere un giocatore a legarsi ai colori di una squadra, andando a formare, nell’immaginario collettivo, un binomio indissolubile.

Esiste la credenza che le bandiere si stiano estinguendo, sulla scorta di un mondo sportivo sempre più mercenario e schiavo del dio denaro (o dollaro, visto che ci occupiamo di NBA).

In realtà, per ogni John Stockton o Reggie Miller, c’è stato un Glen Rice o un Mark Jackson. Bill Russell giocò sempre per i Celtics, mentre Kareem Abdul-Jabbar e Wilt Chamberlain cambiarono squadra, e così anche Bill Walton. A ben vedere, tra i primi sei giocatori di tutti i tempi per presenze con la stessa franchigia, tre sono in attività.

Insomma, giocare per molte stagioni con la stessa formazione (o addirittura chiudere l’intera carriera senza mai cambiare spogliatoio) è impresa non da poco, che inevitabilmente accresce l’allure di stelle come Tim Duncan (da 17 anni con gli Spurs) o Kobe Bryant (da 18 con i Lakers, e l’anno prossimo aggancerà Stockton, detentore del record assoluto di fedeltà), ma che ricava anche una nicchia speciale per comprimari come Jeff Foster (per 13 anni con i Pacers) o Nick Collison (per 10 con la franchigia di Seattle/OKC), oggi come quarant’anni fa.

Naturalmente, non basta la buona volontà del giocatore: occorre una mescola vincente di fortuna e capacità progettuale della franchigia, senza la quale, la fedeltà di un cestista può poco: pensiamo a quanto sembri a volte precaria la permanenza di Rajon Rondo in maglia Celtics, oppure, rimanendo in Massachusetts, all’incredibile cessione di Paul Pierce.

Tra i giocatori in attività e con almeno dieci stagioni NBA sotto alla cintura, si distinguono Kobe Bryant, Tim Duncan, Dirk Nowitzki e Dwyane Wade, tutti, tra l’altro, freschi di prolungamento o rinnovo contrattuale: sono quattro stelle assolute, titolari di carriere che farebbero l’invidia di chiunque, tra riconoscimenti individuali e anelli NBA (in quattro, contano 14 Larry O’Brien Trophy e 7 MVP delle Finali).

Tanta continuità richiede sacrifici e dedizione, e, inevitabilmente, anche il superamento di momenti difficili –molto pubblicizzati per chi vive a Los Angeles (Kobe) e assai poco per chi vive realtà meno sovraesposte-, quando, dopo l’ennesima sconfitta, ci si chiede se tanto sudore non sia tempo sprecato, e se non si potrebbe vincere più facilmente altrove.

Di recente, complice il nuovo contratto collettivo, è diventato d’attualità il “taglio dell’ingaggio” della superstar. Tim Duncan, che già aveva firmato un contratto al di sotto del valore di mercato, ha aperto la strada, e altri hanno seguito.

È bene sgombrare subito l’orizzonte da possibili equivoci: Kobe, Dirk e Duncan sono tre dei quattro giocatori ad aver guadagnato di più in assoluto nella storia del gioco (il primo è Kevin Garnett, con 298 milioni), quindi il termine “sacrificio” va sempre usato cum grano salis, senza sconfinare in ambito morale (o forse moralistico?), che poco s’attaglia a gente che, comunque la si voglia guardare, ha più soldi di quanti ne riuscirà mai a spendere.

Dwyane Wade, 32 anni, reduce dalla delusione per la sconfitta in Finale e per l’abbandono dell’amico LeBron, è uscito dal contratto in essere, che gli avrebbe garantito 42 milioni in due anni, accettando un accordo da 31 milioni in due anni, con una player option sul secondo anno. Riducendosi l’ingaggio, Dwyane ha consentito a Miami di rifirmare Bosh a cifre molto importanti e di portare in Florida Luol Deng.

L’arzillo trentottenne Tim Duncan, reduce dal suo quinto titolo NBA, ha esercitato l’opzione del suo contratto, che vale 10 milioni per un anno. Timoteo aveva firmato un triennale nel 2012, e, rimanendo all’interno di quell’accordo, andrà in scadenza tra dodici mesi, quando, forse, mediterà il ritiro.

Dirk Nowitzki ha autografato un triennale con Dallas a 25 milioni (il terzo anno è opzione del giocatore), poco più di quanto ha guadagnato nel solo ultimo anno del precedente accordo (firmato nel 2010, per 80 milioni).

Si pensava che il trentaseienne tedesco avrebbe comandato un contratto attorno ai 30 milioni, ma, lasciando 5 milioni sul piatto, Nowitzki ha reso possibile l’acquisizione di Chandler Parsons, che, unita allo scambio che ha riportato in Texas Tyson Chandler, apre nuovi e interessanti scenari nel futuro prossimo della franchigia di Mark Cuban.

Con una battuta, Dirk aveva definito improbabile che gli fosse offerto un accordo simile a quello di Kobe, che, a 35 anni d’età, ha siglato un biennale da 48 milioni che gli consente di rimanere il giocatore più pagato dell’intera NBA.

Tutti e quattro questi giocatori hanno passato i trent’anni e stanno declinando; Duncan si è riciclato centellinandosi, e così Dirk, mentre Wade, spremuto come un limone, viene da due annate nelle quali ha mostrato la corda.

A differenza di Nowitzki e Duncan, che sono dei lunghi (i giocatori di front-line declinano in modo più lento e graduale degli esterni) e di Bryant (che ha dalla sua il tiro da tre e un consolidato gioco di post), Wade rischia di fare la fine di un Allen Iverson. L’NBA è spietata con gli esterni che non si costruiscono un tiro dalla grande distanza e che vivono giocando nord-sud, tentando di ignorare il passare degli anni, anziché adeguando il proprio gioco al diminuito atletismo.

Consci della realtà e dei propri limiti, hanno accettato di ridurre il proprio ingaggio (e Wade ha accettato un accordo molto breve) nel tentativo di facilitare la firma dei free agent, che, è sempre bene sottolinearlo, non si possono mettere a contratto senza essere al di sotto del salary cap per la cifra corrispondente a quello che sarà il loro stipendio annuale.

È singolare che Bryant abbia comandato un contratto faraonico, nonostante il suo ritorno dagli infortuni sia adombrato da molti punti interrogativi. I sui 48 milioni in due anni sanciscono di fatto la non-competitività dei Los Angeles Lakers per due stagioni e hanno dato nuovo fiato alle trombe dei detrattori, secondo i quali, ormai appagato, Kobe starebbe manifestando la propria natura egoista, giocando solo per i soldi e per il record di punti di Kareem.

Bryant però non ha chiesto quel contratto, che è stato il primo proposto dai Lakers al numero 24. La vera differenza sancita da questo divario economico non è tra Kobe e le altre tre bandiere, ma tra il front office di Los Angeles e quello di Dallas, San Antonio e Miami.

I Lakers potrebbero aver commesso un grave errore di calcolo, sacrificando il presente in nome di un futuro indefinito, mentre Mavs, Spurs e Heat non hanno perso nulla in termini di flessibilità salariale futura, pur assemblando dei roster validi nell’immediato.

I Buss volevano forse rendere omaggio al giocatore che, assieme a Magic Johnson e Jerry West, ha dato di più alla franchigia, ma hanno scelto il modo e la tempistica sbagliata per farlo, e, con ogni probabilità, hanno condannato Kobe ad un epilogo di carriera mesto, trascorso lontano dai Playoffs.

Tuttavia, quando si valutano certi contratti, non si può rincorrere la tentazione del semplicismo: senza una chiara visione d’insieme sulle motivazioni e le opportunità che animano e dirigono giocatori e franchigie, giudicare le scelte altrui può essere un esercizio di presunzione più che d’analisi.

Oltretutto, giova ricordare che l’attuale struttura salariale è stata voluta proprio dai proprietari, per poter livellare verso il basso gli stipendi (mentre il valore delle franchigie NBA è alle stelle, con i Kings venduti per mezzo miliardo di dollari–i Kings!-), di fatto costringendo le superstar a scegliere tra soldi e competitività.

Bisogna poi sempre tenere a mente che destini diversissimi a volte si sfiorano, e se Carmelo avesse deciso di firmare con i Lakers, le prospettive della franchigia californiana sarebbero assai differenti (perché, va ribadito, i Lakers avevano spazio salariale che non sono riusciti ad usare), così come, per motivi del tutto indipendenti dalla volontà dei giocatori, avrebbero potuto assumere coloriture diverse le situazioni contrattuali di Dwyane (se Bosh fosse andato a Houston) e Dirk (se i Mavs non fossero arrivati a Parsons).

La scelta di Kobe Bryant, che, a rigor di logica, ha diminuito le sue chance di tornare a competere, è, in fondo, perfettamente in linea con il carattere di un giocatore che ha sempre cercato di fare tutto a modo proprio, a volte riuscendo, altre volte andando incontro a sonore batoste.

Comunque vada a finire, Dirk, Flash, Kobe e Tim continueranno a tenerci compagnia ancora per qualche anno, e lo faranno senza andare ad elemosinare titoli in altre franchigie (come fecero Barkley, Mourining, Malone) e senza tentare improbabili avventure (Olajuwon, Jordan) rimanendo coerentemente al timone dei propri velieri, consentendoci di continuare a credere che l’NBA sia non solo intrattenimento e show-business, ma anche veicolo di valori positivi.

5 thoughts on “Dirk, Flash, Kobe e Tim: le ultime bandiere?

  1. Anche Ginobili rientra nella nicchia di giocatori con almeno 10 anni nella stessa squadra. Penso che almeno una citazione la meritasse

    • ma pure haslem a sto punto, però forse l’obiettivo era tirar fuori un solo nome significativo per franchigia… senza stare a puntualizzare troppo…
      comunque bell’articolo!!!! compliments!!

  2. Grazie dei complimenti! Chiaramente ci sono altri giocatori menzionabili in ambito “bandiere”, ma l’intento dell’articolo non era di stilare un elenco esaustivo, quanto di parlare dei rinnovi di questi quattro uomini-franchigia!

  3. Bell’articolo, ben scritto…anche se parlare di bandiere senza citare “the hick from French Lick” potrebbe (dovrebbe!) essere legalmente perseguibile…Hakeem a Toronto (!?!?!) poi l’avevo completamente rimosso…domandona: Doctor J può essere considerato una bandiera o il trascorso ABA ne mina l’integrità sixeriana?

  4. Non per colpa sua, ma Erving non è stato una bandiera. Intendiamoci, non è una categoria morale, anche perché gente come Paul Pierce, forse anche Allen Iverson, e chissà quanti altri, sarebbero rimasti volentieri, ma sono stati scambiati. Per diventare bandiere serve tanto lavoro, dedizione, costanza, ma anche fortuna: un mix di ingredienti raro, e, anche per questo così affascinante!
    P.S.: di Larry e Magic parlo poco, ma prima o poi potrebbero avere un paio di articoli dedicati, chi lo sa!

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