Una decina d’anni fa, mentre ad Ovest si svolgevano le guerre stellari tra Lakers e Kings e ad Est si affrontavano i Celtics di Antoine Walker e Paul Pierce con i Nets di Jason Kidd e Kenyon Martin, David Stern disse di ritenere che Est ed Ovest stessero vivendo una disequilibrio passeggero: “se ragioniamo in termini di lustri o decenni, vediamo che Eastern e Western Conference sostanzialmente si equivalgono”.

È antipatico andare a riprendere dichiarazioni così vecchie, soprattutto in un mondo in rapida e continua evoluzione come quello dello sport professionistico d’oltreoceano, tuttavia, Stern, lanciandosi in previsioni di ampio respiro, se l’è un po’ andata a cercare, e la sua frase ci aiuta a capire quanto sia stato sottovalutato il problema.

Allora la situazione sembrava grama, con una Eastern nettamente inferiore, con squadre meno talentuose e fisiche, ma oggi va peggio.

Se nei Playoff 2002 l’unica squadra sopra il 50% di vittorie a rimanere esclusa dal tabellone fu Milwaukee, ad Est, durante la stagione in corso, sempre nella Eastern, spesso ci sono state solo tre squadre sopra al 50% di vittorie, mentre ad ovest del Mississippi andava in scena la tonnara tra le corazzate e le emergenti, come Portland o Phoenix, che andavano ad aggiungersi al già folto plotone di compagini che, al di là del numero di vittorie, sono oggettivamente migliori di quelle occidentali, spesso anemiche, raccogliticce e povere di talento.

Nel selvaggio West ci sono dieci squadre oltre il 50%, con Memphis e Phoenix che, sebbene sfiorino il 60% di vittorie (e vincendo le ultime 5 arriverebbero a quota 50 vittorie stagionali, ossia quella che è comunemente indicata come la misura dell’eccellenza di una squadra) stanno dandosi battaglia per l’ultimo posto disponibile e il dubbio privilegio di potersela vedere al primo turno con i San Antonio Spurs (o i Thunder, dovessero rimontare).

Il discorso vale anche per gli appena citati Spurs o Thunder, ovviamente: tutta quella fatica per arrivare primi e secondi, e poi ci si ritrova al primo turno la difesa di Memphis o quel vecchio marpione di Dirk Nowizki?

Intanto nella Eastern Conference Miami e Indiana arrancano verso i Playoff sapendo di trovare al primo turno i Bobcats e Atlanta, due squadre in crescita, che stanno facendo più di quello che infortuni e roster lasciassero presagire, ma non esattamente formazioni capaci di togliere il sonno a James e Wade (mentre per i Pacers a questo punto il discorso è diverso).

Lo sappiamo tutti, e lo sa anche la NBA: tra Est ed Ovest esiste una smaccata disparità che non si sta affatto attenuando con il passare del tempo (come riteneva il venerabile Stern) ma che, viceversa, si sta aggravando e, negli USA, sta iniziando a far parlare di un sistema eminentemente iniquo.

Dal post-Chicago Bulls del secondo Threepeat, per 10 volte il titolo l’hanno vinto le squadre dell’Ovest (cinque i Lakers, quattro gli Spurs e una i Mavericks) a fronte di cinque titoli per l’est (tre volte Miami, una volta Detroit e Boston), ma non è con le vincitrici delle Finali che si può capire la profondità del problema; insomma, non è questione di chi vince la Finale, ma di che avversarie trova sul suo percorso.

Per rendersi conto del divario, più che i numeri, basta guardare le partite: un Clippers-Suns sembra appartenere ad un campionato diverso rispetto ad un Raptors-Bulls.

Piuttosto che contare chi ha vinto le Finali, quindi, vale la pena di esaminare il cammino delle varie vincitrici: ad Est può capitare di passeggiare fino alle Finali di Conference, mentre ad Ovest il logorio fisico-psicologico è maggiore, visto che sin dal primo turno si tende ad incappare in squadre che, nella serie giusta, possono puntare all’up-set.

Storicamente, la divisione tra Est ed Ovest è nata in una NBA lontanissima da quella odierna. Era un’America diversa, dove le squadre della neonata National Basketball Association viaggiavano su aerei di linea, e si allenavano con metodi molto meno scientifici.

Logico, in quel contesto (nel quale, oltretutto, risparmiare qualche dollaro sui viaggi non era del tutto disprezzabile) dividere il paese di Conference e Division, limando il numero di incontri con le squadre dell’altra Conference e così anche la stanchezza e il dispendio legato ai voli coast-to-coast.

Oggi il Commissioner Silver si sta spendendo per abolire le Division, che effettivamente sono di una inutilità suprema, e che oltretutto garantiscono alla vincitrice un seed ai Playoff del tutto gratuito.
Tutto tace invece sul fronte delle Conference, sebbene i tempi siano maturi per un ripensamento del tabellone che conduce al Larry O’Brian Trophy.

Oggigiorno i metodi di allenamento sono estremamente ragionati, i giocatori sono costantemente monitorati con le più sofisticate tecnologie per prevenire affaticamento ed infortuni, mentre le squadre viaggiano su aerei privati dotati di ogni comfort, incluse delle poltrone su misura per le taglie dei giocatori NBA.

Visto lo stato delle cose, forse varrebbe la pena di ripensare le Conference o di abolirle, trasformando la NBA in un torneo unico: significherebbe viaggiare di più, è chiaro, ma ciò che più conta è che tutti sarebbero sullo stesso piano, senza vantaggi regalati dalla topografia.

Ma perché è nato e persevera questo fenomeno?
La disparità tra le Conference è nata per caso, ma non si risolve perché proprietari e GM delle franchigie dell’est (per motivi differenti) non hanno incentivi a cambiare.
A molti proprietari interessa fare soldi, più che vincere, e se una squadra scarsa è sufficiente per attentare ai Playoff, non ha senso fare investimenti per migliorare la situazione.
Per i GM la situazione è diventata attraente perché consente di vendere al proprio “owner” una situazione migliore di quella reale: se la concorrenza è scarsa, esiste sempre la possibilità di andare ai Playoff o di sfiorarli, guadagnandosi la riconferma a fronte dei “risultati” (in altre parole, vendendo fumo!).

Inoltre, ed è la cosa più grave, ad est non è facile migliorare nemmeno volendo: se lo strumento principe per migliorare un roster è la lottery, è chiaro che mandare squadre sotto al 50% di vittorie ai Playoff non le aiuta affatto.

Una delle principali obiezioni che la NBA (intesa come struttura di vertice) ha sempre opposto all’idea di abolire le Conference è che la divisione geografica incentiva la nascita e il perpetuarsi di rivalità territoriali che, con un torneo unico, andrebbero perse.

Basta conoscere un po’ di storia del basket statunitense per rendersi conto che si tratta di un’obiezione piuttosto fiacca, soprattutto a fronte del divario competitivo tra Est ed Ovest.

Sono esistite molte rivalità nate nei Playoff, è vero; non acredini vecchie di decenni, come capita in Europa, ma odi contigenti, come tra Knicks e Pacers sul finire degli anni novanta, o tra Miami e New York sempre nello stesso periodo, ma è anche vero che nello stesso periodo era nata una rivalità tra Bulls e Jazz, che si incontravano solo alle Finali, ed è proprio sul massimo proscenio NBA che è nata la rivalità per definizione non solo del basket, ma dello sport americano in generale: quella tra Los Angeles Lakers e Boston Celtics, riproposta, più avvincente che mai, anche in anni recenti.

Comunque la si pensi, è chiaro che urge un intervento di qualche tipo: se dieci anni fa era lecito supporre che la disparità tra le Conference fosse un evento passeggero, oggi è chiaro che il divario è permanente e deriva da cause complesse.

Qualcuno aveva ritenuto di scorgere l’origine del fenomeno in due eventi in particolare: la fuga di Shaquille O’Neal da Orlando (Est) in favore di L.A. (Ovest) e la sfortuna dei Boston Celtics nella lottery del 1997, quando, dall’urna che avrebbe dovuto recapitargli Tim Duncan, uscì il nome dei San Antonio Spurs, per la disperazione di Rick Pitino (che era andato ad allenare i biancoverdi anche nella speranza di allenare Timoteo) e la gioia di Greg Popovic.

Ancora una volta, il passare del tempo ci aiuta a mettere tutto in prospettiva; negli stessi anni Jason Kidd, probabilmente il miglior playmaker dello scorso decennio, lasciò Phoenix per accasarsi ad est, ai Nets che oggi allena.

Nel 2003 i Cavaliers vinsero la lottery e si portarono a casa LeBron James e i Miami Heat lucrarono un Dwayne Wade. Un’altra stella di quel draft, Carmelo Anthony, ha fatto carte false per potersene andare a New York, lasciando Denver e l’ovest.

Insomma, non si può continuare a ricondurre lo spostamento di valori in favore della Western Conference a Tim Duncan e O’Neal, perché se è vero che questi due giocatori hanno partecipato a otto degli ultimi quindici titoli NBA (sette per l’ovest, e uno, quello di Shaq a Miami, per l’est) è altrettanto vero che questo non spiega perché l’Ovest trabocchi talento in nove-dieci franchigie mentre l’Est fatica a schierare otto squadre presentabili.

Che si credesse alle contingenze passeggere o meno, si sono persi molti anni senza intervenire sul fenomeno, finendo con l’aggravarlo, perché l’attuale divisione geografica dell’NBA premia con i Playoff delle squadre scarse che hanno l’unico merito di appartenere a città dell’Est del Paese, mentre consegna alla lottery, quasi fossero squadre bisognose di talento, alcune formazioni che hanno l’unica colpa di provenire dall’Ovest.

Insomma, ottime franchigie dell’Ovest continuano a pescare tra i migliori rookie, mentre alcune squadre poco competitive della Eastern vanno ai Playoff e intascano i lauti ricavati, certo, ma sono condannate a scegliere al draft da posizioni più basse, senza poter migliorare più di tanto.

Le Conference stanno diventando un problema per la competitività complessiva della Lega, che ha costruito un sistema basandosi sull’assunto che East e West si pareggiassero, e che oggi non ha strumenti per rimediare all’errore di valutazione commesso a monte (sempre che di errore si possa parlare: come dicevamo, la divisione geografica della NBA è figlia di un’epoca ormai passata ma che doveva rispondere alle limitazioni dei mezzi di trasporto a disposizione).

Ormai l’NBA convive con questo problema da quindici anni e non si è ancora decisa ad affrontarlo, sebbene esso consegni al pubblico l’immagine di una Lega squilibrata e sia un cospicuo danno economico per il “prodotto NBA”: mentre ad Est si portano ai Playoff dei macinini, ad Ovest ci sono delle fuoriserie che rimangono posteggiate in garage.

Il motivo della titubanza a rivoluzionare il sistema è che abolire le Conference sarebbe un cambiamento epocale i cui risvolti andrebbero calcolati con molta più dovizia di quella che ci concede lo spazio di quest’articolo, e oltretutto, sarebbe un’innovazione destinata ad incontrare grandi resistenze da parte dei proprietari delle franchigie della Eastern Conference, che perderebbero le regole protezionistiche che oggi consentono loro di accedere ai Playoff con un esborso relativo e con un impegno modesto (vedi i risultati strabilianti di Masai Ujiri a Toronto, che nel giro di qualche mese ha trasformato una franchigia disastrata in una compagine interessante, complice l’assoluta inconsistenza della concorrenza).

Anche da un punto di vista esclusivamente sportivo, non è corretto mandare ai Playoff otto squadre dell’Est e otto dell’Ovest, se la Eastern Conference si dimostra ogni anno incapace di produrre formazioni di competitività almeno paragonabile a quella espressione della Western.

Miami e (forse) Indiana, tra poche settimane, inizieranno una passeggiata che, salvo insidie in questo momento invisibili (eccezion fatta per Brooklyn) e l’inevitabile rischio infortuni, le condurranno alla Finale di Conference, mentre qualche migliaia di chilometri più ad ovest Spurs, Clippers, Thunder dovranno vedersela con Rockets, Warriors, Mavs, Grizzlies, Blazers, in una lotta senza esclusione di colpi.

Adam Silver ha lanciato la proposta di mettere in palio gli ultimi posti ai Playoff, ma, se in assoluto può essere un discorso avvincente, non è una proposta destinata ad avere un impatto incisivo sul problema in esame.

L’ipotesi che ci sembra più percorribile e più sensata, sia da un punto di vista del marketing che della pura competitività sportiva, è di lasciare la Regular Season così com’è, ma di qualificare ai Playoff le migliori sedici squadre, prescindendo da est e ovest.

Ovviamente, come abbiamo detto, molti owner dell’Est non saranno d’accordo, ma il benessere complessivo della NBA passa per un sistema che incentivi le squadre a dare il meglio, anziché a vivere su (è proprio il caso di dirlo) rendite di posizione!

 

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