Evan Turner ai Pacers: mossa azzardata o colpo di genio?

Evan Turner ai Pacers: mossa azzardata o colpo di genio?

Quando, nel 1947, Chuck Yeager sedeva nell’abitacolo del suo X-1 che di lì a poco avrebbe superato la barriera del suono, si rese conto che l’aereo stava cominciando a vibrare furiosamente.

Yeager, che era un collaudatore esperto, anziché spaventarsi proseguì nelle sue manovre senza tanto scomporsi. Con la sua assurda cantilena della Virginia (più o meno la stessa di Mike D’Antoni) continuò a comunicare con la base di terra e non si stupì quando l’aereo, divenuto supersonico alla modica velocità di Mach 1, all’improvviso ritrovò stabilità, divenendo quasi silenzioso.

Chuck è ancora vivo, e ci potrebbe spiegare che spesso, quando si cerca di fare un salto di qualità, si va incontro a dei dolori della crescita e poi ad un momento di assestamento che somiglia molto ad una involuzione, ma che, viceversa, conduce dritto dritto al risultato sperato.

La stessa cosa avviene spesso anche in un contesto meno eroico e pionieristico (ma di certo a noi più familiare) come il mondo NBA, ed è quello che stanno sperimentando gli Indiana Pacers, che hanno chiuso il mese di novembre con un record di 15-1, dicembre con 10-4, gennaio con 10-5 e febbraio con 8-3.

Sono i numeri ragguardevoli di una corazzata che concede appena 91 punti agli avversari (miglior difesa NBA) e che esprime un gioco classico, in controtendenza in una lega che oggi privilegia attacchi rapidi, tiri dagli angoli o conclusioni nel verniciato.

I Pacers di Frank Vogel sono una squadra che esegue lentamente i propri giochi, quasi tutti incentrati sul post medio, quei tiri da 4-5 metri che sono il regno di David West, l’uomo che, più di tutti, tiene in pugno le menti e i cuori dei propri compagni. Indiana è la dodicesima squadra NBA per percentuale dal campo (45.3%), e la ventunesima per percentuale da tre (35.2%), un’arma che, nella logica offensiva dei Pacers, resta marginale.

Sono viceversa una potenza a rimbalzo (ne catturano 45.7 a partita) e, se non spiccano sotto i tabelloni offensivi (catturano appena il 25% dei rimbalzi disponibili), sono viceversa insuperabili quando si tratta di non concedere seconde chance agli attacchi avversari (sotto le proprie plance, i Pacers ottengono il 77% dei rimbalzi disponibili).

Questa loro peculiare predisposizione per il rimbalzo difensivo si spiega con le caratteristiche dei giocatori e del sistema: se difensivamente West e Hibbert (ma anche George e Stephenson) fanno valere centimetri e intensità, offensivamente la priorità dei Pacers è evitare il contropiede avversario, evitando di portare troppi uomini a rimbalzo offensivo.

Per giunta, sia West che Hibbert sono giocatori che prediligono tiri dalla media distanza (sotto canestro i Pacers hanno appena il 58%, ben lontano dal 68% degli Heat o dal 65% dei Clippers) che non consentono al tiratore di presentarsi prontamente a rimbalzo.

Non sono nemmeno una squadra di fini passatori, se perdono 15 palloni a partita e se solo sei squadre (nessuna delle quali attualmente in zona playoffs) fanno meno assist di loro. Per giunta, appena il 55% delle loro conclusioni arriva dopo un passaggio smarcante di un compagno, ma questo si spiega con la tipologia di soluzioni che i Pacers cercano scientemente: sono una squadra che esegue lentamente, e proprio per questo spesso fuori ritmo.

A Indianapolis nessuno vuole fare circolare la palla rapidamente per “darle energia” come predicano gli allenatori di molte altre squadre. Viceversa, si vuole martellare il pallone nei “comfort post” di West e George, anche a costo di perdere la fluidità della manovra.

La loro forza risiede tutta nella difesa di squadra, costruita attorno a quello che, molto probabilmente, sarà nominato difensore dell’anno, cioè Roy Hibbert. Un anno fa Roy stava iniziando a metabolizzare il nuovo contratto e a produrre di conseguenza, oggi è l’ancora della miglior difesa NBA ed è un fattore con il quale tutti gli attaccanti della lega devono fare i conti.

È diventato un rimbalzista di livello e non ha più paura della palla in attacco, dove, lungi dall’essere un giocatore completo, si è comunque guadagnato una nicchia; in difesa (miglior defensive rating di tutta la NBA) ha perfezionato l’arte dell’aiuto e la sua tecnica, quando salta verticalmente con le braccia in alto, è da manuale; concede appena il 41% al ferro.

I Pacers non rubano molti palloni, al contrario degli Heat, ma stoppano molto (5.8 a partita, quarti nella NBA) e difendono in modo concettualmente opposto a Miami: Spoelstra, che sa di non avere a disposizione dei grandi rimbalzisti, ha costruito una difesa dinamica che punta a rubare palla e ripartire in contropiede, dove può sfruttare l’atletismo di LeBron e (quando c’è) Dwayne Wade.

Vogel, che ha a disposizione centimetri e forza fisica, preferisce incanalare gli avversari verso i tiri a bassa percentuale, sicuro che i secondi possessi degli avversari saranno ridotti al minimo dall’ottima copertura a rimbalzo.

Anche per questo motivo, i Pacers non sono una squadra particolarmente fallosa, pur ponendo l’enfasi in modo consistente sulla metà campo difensiva. Concedono appena 94 punti su 100 possessi agli avversari e ne segnano appena 102, ma, grazie alle stratosferiche cifre difensive, il differenziale positivo segna un +8.3 che è il migliore di tutta la NBA.

Delle 14 partite che hanno perso finora, sette sconfitte sono maturate in trasferta, in back to back. Da qui alla fine della Regular Season dovranno affrontare Golden State, San Antonio, Oklahoma City, andare a far visita a Houston e vedersela due volte con gli acerrimi nemici di South Beach, per cui, tolti questi test (che ci diranno quanto vale veramente questa squadra contro le formazioni più pericolose), i Pacers hanno davanti due mesi di placido veleggiare verso i Playoffs.

pgeorgeL’intero quintetto base è tra i primi dieci della lega per defensive rating, e Paul George, che quest’anno è assurto al ruolo di stella conclamata, detiene un primato invidiabile, che fa di lui il miglior giocatore della lega, se si parla insieme di attacco e difesa: il 0.86 del suo defensive win share per game è un numero più alto di quello confezionato da Marc Gasol l’anno scorso, e, per quel che vale, molto migliore anche di quanto raccolto da Michael Jordan, Gary Payton e Metta World Peace nei rispettivi anni in cui furono nominati “difensori dell’anno”.

Non è cosa di tutti i giorni che una squadra abbia a roster i due principali candidati al premio di difensore dell’anno, ma la difesa dei Pacers non si può riassumere con George e Hibbert, per quanto la loro presenza sia la condizione necessaria per costruire un impianto dell’efficacia di quello di Indiana.

Pochi giorni fa il cornerback campione NFL Richard Sherman ha twittato a Paul George: “Amiamo il modo in cui voi tutti giocate in difesa, con tecnica, comunicazione e passione”, parole di vero rispetto da parte di un difensore clamoroso ad un altro.

L’unico modo di attaccare una difesa così rocciosa come quella dei Pacers è tentando di sorprenderla d’infilata, con dei drag (pick and roll in situazione di transizione) e tentando di sfruttare uno stretch four che allarghi il campo ma, essendo quella di Indiana una difesa di squadra e non una difesa individuale, sarà comunque difficilissimo scardinarla.

Perché allora Larry Bird è ricorso al mercato?

L’anno scorso i Pacers avevano un enorme problema con la panchina: Sam Young era un gran difensore, un duro, ma offensivamente non dava nulla, e così anche DJ Augustin e Tyler Hansbrough.

Durante la pausa estiva Pritchard e Bird sono riusciti a destreggiarsi tra le pieghe del salary cap, procurandosi grossomodo quello che serviva, cioè gente che portasse un minimo di attacco in uscita dalla panchina: Luis Scola, Chris Copeland e CJ Watson sono state preziose aggiunte e hanno evitato che quest’anno la seconda unità di Indiana facesse crollare la produzione offensiva, costringendo agli straordinari George, Stephenson e i due lunghi.

Per giunta, il rientrante Danny Granger avrebbe dovuto consentire a Frank Vogel di togliere un po’ di pressione realizzativa dalla superstar dei Pacers, vale a dire Paul George.

Tuttavia, nel corso della stagione, sono emersi i limiti di questi innesti: la frontline è rimasta poco produttiva, tra un Ian Mahinmi che si è confermato giocatore esclusivamente difensivo e uno Scola che gioca sulle uova, ancora alla ricerca di un ruolo preciso in una squadra nella quale è chiamato ad aggiungere qualità senza far scemare la durezza.

Granger non è più il giocatore capace di partecipare all’All Star Game, limitato com’è da un infortunio che, sebbene sia superato, ha lasciato il segno soprattutto nelle sue percentuali realizzative e a livello di esplosività fisica.

Copeland, arrivato per portare tiro da tre nella posizione di ala e come assicurazione in caso di nuovi infortuni a Granger, non ha mai trovato spazio perché non ha la mobilità difensiva del tre e, utilizzato come 4, avrebbe richiesto troppi adattamenti difensivi in una squadra che non ha motivo di voler cambiare assetto tattico.

Nelle ultime settimane, la squadra è sembrata insolitamente traballante, alle prese con passaggi sbagliati, cali d’intensità, errori mentali e giri a vuoto difensivi che hanno messo in preallarme i tifosi. In realtà, all’interno dell’economia di una stagione NBA, esistono momenti nei quali una squadra deve rifiatare, e idealmente, questo periodo è gennaio/febbraio:

È importante partire bene per racimolare un buon record iniziale, ma è fondamentale anche finire in crescendo, rodando i meccanismi e le rotazioni in vista dei Playoffs. L’unico momento nel quale è possibile tirare il fiato è a cavallo tra queste due fasi della stagione, cioè nei pressi dell’All Star Weekend.

Il medesimo arco temporale è quello tradizionalmente riservato dai GM ai correttivi dell’ultim’ora, e Bird si è tenuto pronto a cogliere le eventuali occasioni offerte del mercato per limare i difetti della panchina: così è arrivato Andrew Bynum, scambiato da Cleveland e scaricato dai Bulls. Bynum è un giocatore d’indubbio valore tecnico, che vale molto più del milione che i Pacers sborseranno per averlo a roster, ma è anche un ragazzo che pone due ordini di problemi, fisici e comportamentali.

In ogni caso, si tratta di un investimento a basso costo potenzialmente molto fruttifero, siccome Bynum è, in attacco, un giocatore estremamente competente e duttile. In difesa non vale Hibbert e nemmeno Mahinmi, ma è comunque una presenza molto fisica. Se poi Bynum dovesse infortunarsi nuovamente o diventare una distrazione per i compagni, Indiana potrebbe tagliarlo a cuor leggero, non avendoci investito granché.

Durante l’ultimo giorno utile per fare scambi, i Sixers hanno chiamato Pritchard per conoscere la praticabilità di uno scambio tra Turner, definitivamente scaricato dalla dirigenza di Philadelphia, e Granger.

Bird ha avuto poco tempo per valutare i pro e i contro dell’operazione, ma si è fidato della solidità mentale di uno spogliatoio che sembra veramente impervio a qualsiasi tipo di condizionamento, dando luce verde allo scambio.

Così, è atterrato ad Indianapolis l’enorme talento di un giocatore ancora giovane, che a Philly aveva smarrito la strada, soffocato dal peggior pubblico di tutta la NBA (dopo i fischi a Bryant, che a Philadelphia fu MVP dell’All Star Game, Iverson disse che non c’era da stupirsi, perché “qui fischiano anche noi, se le cose non si mettono bene, sin dal primo quarto”) e da un contesto di squadra in cui è palese a tutti che alla dirigenza non dispiace fare tanking.

Turner è un giocatore elegantissimo, dagli istinti cestisti superiori, ma che a Philadelphia ma messo in mostra un tiro da tre sicuramente poco efficace (siamo al 29% scarso) e si colloca nel peggior 7% dell’intera lega per quanto riguarda l’efficienza difensiva.

Tuttavia, queste non sono considerazioni particolarmente preoccupanti, dal punto di vista dei Pacers: Evan è un giocatore molto efficace dalla media distanza, e il gioco di Indiana si sviluppa prevalentemente in quella zona del campo.

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Per quanto riguarda la difesa, c’è del lavoro da fare ma Turner è stato condizionato nel suo rendimento da un ambiente deprimente, nel quale era virtualmente impossibile ottenere buone valutazioni difensive.

Ad Indianapolis trova viceversa un impianto difensivo ben delineato, con responsabilità chiare e dei compagni che difendono ventre a terra per 48 minuti. Nel peggiore dei casi, i compagni dovrebbero essere in grado di coprirne le lacune, nel migliore, Evan si adeguerà subito alla filosofia di squadra.

Rispetto a Granger, Turner ha meno taglia ma è più rapido, è fisicamente integro ed è un ball handler di ottimo livello, il che consente ai Pacers di togliere un po’ di responsabilità a Stephenson, che attualmente serve il 23% degli assist di squadra e che potrà aver bisogno, soprattutto in ottica Playoffs, di una valida alternativa.

Viceversa, Granger, alle prese con un ginocchio poco stabile, non era più un palleggiatore affidabile, andando ad aggiungere un problema a una squadra che, già di suo, non tracima di trattatori di palla e passatori sopraffini.

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Insieme a lui è arrivato alla corte di Frank Vogel anche Lavoy Allen, un mestierante NBA di quelli che il pianoforte, più che suonarlo, lo sposta.
Dotato di un buon tiro frontale e di poco altro, è un difensore arcigno, senza molti centimetri ma con quella voglia di lavorare duro e dare tutto per la causa che gli consentirà di integrarsi rapidamente nel suo nuovo spogliatoio.

Allen, come Turner, è in scadenza, quindi i Pacers non hanno aggiunto contratti al loro monte salariale futuro, garantendosi però la possibilità di estendere il contratto a Turner o di rifirmarlo come free agent puro e semplice se Lance Stephenson dovesse decidere di accasarsi altrove.

Se davvero i recenti scricchiolii di questa gioiosa macchina da guerra non sono altro che crepe d’assestamento, fisiologiche e per nulla preoccupanti, ha avuto ragione Bird ad intervenire sul roster, andando a scambiare un giocatore di importanza psicologica cardinale come Granger?

Gli americani dicono “if it’s not broken, don’t fix it”, ma, riducendo la questione all’osso, i Pacers hanno perso un involuto Granger e hanno guadagnato Turner, Allen e Bynum. Esistono sicuramente, come in ogni scambio, dei rischi legati all’adattamento dei nuovi, ma questi pericoli non ci sembrano eccessivi. Indiana è una squadra altamente organizzata, con in spogliatoio gente che ne ha viste di tutti i colori e che si è prefissa un obiettivo; ci riesce difficile immaginare che uno come Turner o un lavoratore come Allen possano arrivare e far saltare il banco.

È più complesso il discorso per Bynum, ma anche in questo caso, bisogna ricordarsi che è stato il giocatore a chiedere di poter giocare con i Pacers, quindi immaginiamo che la voglia di mettersi a disposizione non manchi.

Larry Bird ha il nostro totale plauso per le mosse coraggiose e logiche che ha messo in atto: avrebbe potuto mantenere lo status quo, ma, quando ha visto l’opportunità di continuare a migliorare il roster, ha sacrificato un giocatore che non offriva grandi certezze per andare a prendere un ragazzo che può completare a meraviglia il gioco della squadra, oltre ad un “pezzo” che potrebbe tornare utile come Allen. Infine ha firmato Bynum per quelli che in ottica NBA sono quasi spiccioli, portando a casa un lungo che potrebbe fornire quell’apporto dalla panchina che oggi manca.

 

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