lanc464Born Ready.
Il soprannome arriva dal Rucker, quando, dopo aver giocato nell’All Star Game giovanile del 2006, Lance rimase in campo a disputare una partita con gli adulti, che erano corti di uno. Meglio giocare con un ragazzino che non giocare del tutto, pensarono.

Stephenson però non era tipo da farsi prendere dalla timidezza e non sfigurò affatto, giocando con gente che aveva dieci, quindici anni più di lui; così Bobbito Garcia, che era l’annunciatore del Rucker, lo ribattezzò “nato pronto”.

La guardia di Coney Island si iscrisse alla Bishop Loughlin Memorial High School, ma dopo tre burrascosi giorni, si trasferì a Lincoln, più vicina a casa. Era stata la scuola di Stephon Marbury e Sebastian Telfair, i modelli di Lance, che oggi è a sua volta diventato l’ispirazione di Isaiah Whitehead, ultimissimo prodotto della malfamata zona di Brooklyn consegnata all’immortalità da He Got Game di Spike Lee. Non a caso, anche Whitehead frequenta Lincoln.

Lance finì il suo quadriennio scolastico con il titolo di Mr Basketball dello Stato di New York (del quale detiene tra l’altro il record di punti segnati) ma era un fenomeno locale già da diversi anni, almeno da quanto, dodicenne, fece scalpore a Rumble in the Bronx, un torneo AAU. Oppure quando, invitato all’ABCD Camp, sfidò O.J. Mayo (che allora era il liceale più quotato d’America) in uno contro uno.

Perse l’ultima partita giocata con Lincoln, nella semifinale per il titolo dello Stato, contro Rice. Chiuse con soli 12 punti ma, dopo quattro anni di ottimo livello, era un prospetto ormai affermato; arrivò la chiamata al McDonald’s, e iniziò la danza del reclutamento.

Sembrava fosse promesso a Kansas ma cominciò a procrastinare l’annuncio. “So già dove andrò” disse, ma anziché dichiararlo dopo la finale per il titolo statale, prese tempo. Non si sbilanciò nemmeno dopo il McDonald’s o alla cerimonia per gli All American.

Quando poi a Kansas arrivò Xavier Henry, non rimase posto a roster per dare una borsa di studio a Born Ready, che, rimasto con il proverbiale cerino in mano, firmò con Cincinnati, l’unica università che non si era lasciata spaventare dalle titubanze di Lance e dalla sinistra nomea che iniziava ad aleggiare attorno al suo nome e che aveva fatto desistere Maryland e St. John’s (oltre al rischio che, date le irregolarità nel procedimento di recruiting, la NCAA decidesse di tenerlo fermo per un certo numero di partite).

Sospeso per un alterco con un compagno ai tempi di Lincoln, Stephenson, prima ancora di arrivare al College aveva già sulle spalle un arresto per violenza sessuale (un palpeggiamento non gradito ai danni di una diciassettenne) e una nomea di persona instabile che lo aveva fatto precipitare nella considerazione degli scout.

Con alle spalle una famiglia che premeva per fare di lui una stella, con tanta pressione addosso sin da bambino, era irrealistico pretendere che Lance crescesse dritto come un fuso, senza mai sbandare.

Born Ready era già allora come lo vediamo adesso, un concentrato di muscoli ed energia tutto intensità e talento. Il pubblico lo adorava, ma molti addetti ai lavori lo reputavano un giocatore ribelle, abituato a camminare sul filo del rasoio, troppo borderline per non essere destinato a deragliare.

Quasi prepotente nella sua volontà di dominare, di avere la palla e di giocare, Lance comparve tra le pagine del New Yorker prima ancora di diventare maggiorenne, e tutti sappiamo bene con quanta facilità i talenti siano tritati nel mondo della carta stampata Newyorkese.

Con una denuncia, una figlia avuta dalla fidanzata Jasmine della quale prendersi cura, un entourage familiare soffocante, esistevano molti interrogativi attorno a Stephenson, sia fuori sia dentro il campo; il tiro non era certo affidabile, e secondo molti, il palleggio con la sinistra era regredito, mentre attorno a lui si svolgeva una specie di reality/documentario intitolato anch’esso Born Ready, un circo voluto dai genitori dello stesso Lance, decisi a monetizzare subito il potenziale del pargolo.

Tom Konchalski, che è uno scout Newyorkese di lungo corso, disse che “ora come ora è un bersaglio” e non avrebbe potuto avere più ragione.

Dopo averlo dipinto come un fenomeno, all’improvviso ci si accorse che questo diciottenne aveva dei difetti nel suo gioco e nel suo carattere, e, dall’etichettarlo come campione, si passò a definirlo un mezzo bidone. Dopo un anno interlocutorio nella Big East e una chiamata al draft alla numero 40 da parte di Larry Bird e tre anni in crescendo con i Pacers, oggi Lance Stephenson è un giocatore in rampa di lancio.

Bird, uno che normalmente è piuttosto parco di complimenti, lo definisce il più grande talento della squadra, e parla spesso della sua etica lavorativa, inculcatagli da suo padre, Lance Sr, un ex giocatore locale soprannominato Stretch che spediva suo figlio a correre sulla spiaggia di Coney Island e su e giù per le scale del palazzone nel quale vivevano, su Mermaid Avenue. Esemplare classico di padre-padrone che anziché crescere un bambino allena un atleta, lo spronava a fare quanti più piegamenti possibile in 60 secondi.

Il modo di stare in campo di Stephenson è particolarissimo, compromesso tra gli istinti sviluppati a Coney Island e le esigenze del basket organizzato. Ad Indianapolis Lance ha trovato la pace che cercava; è stato dimenticato dalla stampa, per la quale era ormai soltanto un aneddoto, sepolto come era in fondo alla panchina dei Pacers, e si è trasformato lentamente, con il lavoro.

Sotto la supervisione di Larry Bird, Stephenson ha trovato il modo di canalizzare la sua debordante energia per metterla al servizio della causa. Dal punto di vista delle cifre le sue prime due stagioni sono state tragiche, ma Lance, anziché arrendersi alle difficoltà, ha continuato a lavorare, e dopo un inizio in sordina (esordio il 27 febbraio 2011, con 4 minuti e 2 punti, due assist, un rimbalzo e una palla persa) è cresciuto, prima in allenamento e poi, con l’infortunio a Danny Granger che gli ha spalancato le porte del quintetto, anche in campo.

La sua parabola di crescita ricorda, fatte le dovute proporzioni, quelle di un altro talento problematico arrivato dai campetti: Gary Payton. Dopo due anni di difficile transizione nel basket professionistico, Payton capì le logiche della pallacanestro di squadra e limò i suoi difetti fino a farli scomparire, pur senza smettere mai di giocare la sua pallacanestro.

Non stiamo dicendo che Lance Stephenson diventerà un Hall of Famer o che avrà lo stesso tipo di carriera di GP, ma le loro storie personali e la loro parabola di maturazione è simile. Payton trovò la sua dimensione a Seattle, lasciandosi alle spalle gli atteggiamenti dettati dalla “posse” di Oakland. Born Ready può fare la stessa cosa a Indianapolis, una città che l’ha adottato e che lui sembra intenzionato a trasformare nella sua casa.

Ad ogni domanda sul suo futuro risponde che sarà un Pacer, e speriamo davvero che possa essere così perché Lance ha trovato l’ambiente perfetto per il suo modo di essere, dentro e fuori dal campo.

Larry Bird ha costruito una franchgia a sua immagine, composta di gente diretta, lavoratrice, incentrata sulla ricerca della vittoria.
Hanno fatto le cose a modo loro, mettendo assieme un allenatore da lavagnetta come Frank Vogel con un assistente comunicatore (prima Shaw, ora McMillan); hanno costruito una difesa abbacinante plasmata su una sintesi di responsabilità individuale e di voglia di aiutarsi indispensabile per costruire un torchio che spreme gli attacchi avversari fino a ridurli ai minimi termini.

In attacco i Pacers non hanno inseguito la moda del playmaker tuttofare e dei tiri dagli angoli, decidendo di assemblare una squadra da post medio e con due lunghi “veri” incarnata al meglio dall’epitome del giocatore old school, David West.

In quest’ambiente organizzatissimo, Lance Stephenson costituisce un valore aggiunto inestimabile: quando l’attacco s’incarta, lui va a prendersi la palla e improvvisa senza paura. Quando prende un rimbalzo (ne cattura 6.8) difensivo le sue falcate potenti lo trasformano in un contropiede ambulante capace di chiudere in coast-to-coast nel traffico.

È ormai il principale ball-handler dei Pacers e i suoi passaggi contribuiscono a rendere meno prevedibile l’attacco di Indiana, sempre pronto com’è a pescare un taglio o un difensore distratto.

Lance non è (e forse non sarà mai) un giocatore dallo stile cauto e in punta di piedi, ma ha passione, voglia di difendere e nessuna paura. Può ancora crescere molto, perché 2.6 palle perse sono troppe, e può ancora migliorare nella selezione delle situazioni nelle quali improvvisare, ma Stephenson è un giocatore vero, che ha trovato una sua dimensione nel basket senza egoismi e di grande intensità che i Pacers di Paul George portano in campo ogni sera per 48 minuti.

Sta lavorando sul tiro, che rimane inaffidabile, ma la sua percentuale dal campo è del 50%, perché se da lontano non è certo una sentenza, costruisce quasi tutte le sue conclusioni nei pressi del verniciato, dove la forza fisica e l’inventiva da campetto gli consentono di fare la voce grossa.

È passato dall’essere il ragazzo che, con candore, diceva al suo allenatore del liceo che quando entra “in the groove” non si ricorda gli schemi, ad essere un cestista che sta cercando con successo di imparare quando le sue zingarate sono nocive e quando benefiche per la squadra. L’errore più grosso che è stato compiuto da molti esperti, nel valutare Born Ready, è quello di ritenerlo un giocatore egoista o inallenabile.

In realtà Stephenson e Larry Bird hanno riconosciuto l’uno nell’altro la stessa fame di vittorie e su questo terreno hanno costruito un rapporto che è durato anche nell’anno sabbatico di Bird, durante il quale venne sostituito da Donnie Walsh, vecchia volpe del basket dell’Indiana.

Del rapporto tra i due Walsh dice: “Ho avuto l’impressione che a Larry piacesse molto. La mia impressione è che Larry abbia fatto uno sforzo, ritenendo che Lance potesse diventare un giocatore molto valido ha compiuto consciamente lo sforzo di parlargli costantemente e si è preso cura di lui. Si rendeva conto delle voci su di lui, e quindi, quando Lance è arrivato qui, gli ha fatto capire che non avrebbe giocato, ma imparato come si gioca e che non gli sarebbe convenuto cacciarsi nei guai. Larry era molto attento a quanto succedeva lontano dal campo. Penso che Lance abbia ascoltato, per lo più. Da quanto ne so, il primo anno è stato duro, ma avevamo dei bravi ragazzi in squadra, che lo hanno coinvolto e aiutato”.

Secondo Dan Burke, assistente dei Pacers, sono i giocatori come Stephenson quelli per i quali gli allenatori fanno il loro mestiere; lungi dall’essere veramente “nato pronto”, Lance era talento grezzo al quale dare una forma.

Dice di lui: “Penso che ritenesse di dover arrivare e far vedere a tutti che lui era “the man” sconfiggendo i veterani e la leadership. Non lo faceva in modo antagonista, semplicemente, era fatto così; ha bisogno di un po’ di esibizionismo per rendere e credo che avesse bisogno di capire dove fosse tracciata la linea da non varcare, e ogni giorno dovevamo ribadire che alcune delle cose che faceva non aiutavano la squadra. Possono anche essere cose banali come tenere in ordine l’armadietto”.

Era un chiacchierone anche quando tutto il suo contributo consisteva nel passare gli asciugamano ai compagni (vedi il famoso gesto del soffocamento rivolta a LeBron James nei playoffs) ma quando è sceso in campo, lo ha fatto perché i Pacers ritenevano fosse finalmente maturato abbastanza, e ha dimostrato di essere uno che alle parole fa seguire i fatti. Sempre.

È passato dall’essere un mediocre difensore sui realizzatori avversari ad essere un defensive stopper che può lavorare con efficacia su guardie veloci e ali potenti. Stephenson non gioca per le statistiche, non si risparmia per evitare brutte figure e questo suo mettere tutto sé stesso in ogni cosa rispecchia lo spirito competitivo che Larry Legend ha inculcato nel suo club.

I Pacers, che se lo sono visti sbocciare nel cortile di casa, queste cose le sanno bene e quest’estate faranno di tutto per rifirmarlo.
Oggi gioca per un milione l’anno, ma è chiaro che si tratta di un giocatore che comanderà ben altre cifre.

Pensiamo che uno come lui, intenso e con i nervi sempre a fior di pelle, abbia bisogno (almeno finché non sarà più maturo) di una squadra come i Pacers, dove la sua energia viene usata positivamente e dove il polso societario contribuisce a tenere la barra dritta.

Se l’anno scorso il rendimento di Lance ha sorpreso molti (ricordiamo le risatine di chi non aveva capito che i Pacers facevano sul serio e che Stephenson non era “il meno peggio disponibile” per rimpiazzare Granger) quest’anno Lance ha innalzato il suo rendimento verso nuove vette che potrebbero proiettarlo addirittura all’All Star Game (il video di Sir Lancealot docet):

 

Nono, secondo Basketball Reference, per defensive rating nell’intera NBA, è un fattore su due lati del campo ed è il classico giocatore con il quale è impossibile iniziare il gioco delle provocazioni e del trash talking senza poi essere i primi a perdere la testa (vi ricorda un certo Guanto di Oakland?).

Crediamo quindi che sia nell’interesse di Indiana (che ha in lui un giocatore preziosissimo) e di Lance fare un reciproco sacrificio economico pur di proseguire in questo riuscitissimo matrimonio.

Ci riusciranno? Molto dipenderà dalle congiunture di mercato, forse anche da come andrà la stagione dei Pacers e da quanto influiranno le opinioni di agenti e familiari sulle scelte di Stephenson.

Si tratta tuttavia di discorsi che avranno modo di svilupparsi a stagione conclusa; nel frattempo, i redneck dell’Indiana possono godersi la loro guardia tuttofare, uno che, quando arriverà il momento di affrontare LeBron James, non si scomporrà più di tanto.
In fondo, che cosa può essere un prescelto, per uno che è nato pronto?

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