celts46464Celtics, playoff: due parole che, sulla carta, non si sarebbero mai dovute leggere sulla stessa linea durante questa stagione ma che, arrivati a un terzo della regular season, sono invece sempre più spesso accostate l’una all’altra.

Nella derelitta Eastern Conference basta davvero poco per poter navigare con vista postseason: il quadro che si preannunciava quest’estate, con cinque franchigie a battagliare per le prime piazze della classifica e pronte a dar vita a epiche serie di playoff, è evaporato al sole di una realtà che racconta di fallimenti storici e rendimenti notevolmente sotto al par.

Tra buchi nell’acqua come quelli delle newyorchesi, le sfighe cosmiche del pianeta Bulls e l’andamento lento di protagoniste annunciate come Pistons e Cavaliers, quella che doveva essere un’annata di ricostruzione totale per i Celtics si è invece tramutata in una situazione interessante, ma che al tempo stesso richiede un atteggiamento da piedi di piombo per la franchigia del Trifoglio.

Il piano costruito da Danny Ainge prevedeva un’annata da 25/30 vittorie, con un roster composto da giovani emergenti e veterani con contratti in scadenza, funzionali per creare spazio salariale per le prossime estati. Una strategia sapientemente studiata dal GM dei Celtics, col record preventivato in grado di garantire, in una stagione tradizionale, ottime chance di chiamata ai primissimi posti di un Draft che si annuncia tra i più ricchi di talento degli ultimi anni (Parker, Wiggins, Randle per citare tre dei nomi più noti anche a meno avvezzi al campionato NCAA).

Un progetto che, però, rischia di essere sconvolto da una stagione che di “tradizionale” ha poco o nulla: in un Est che vanta un non invidiabile primato di sole tre squadre sopra il 50% di vittorie (le grandi rivali Indiana e Miami che, come ampiamente pronosticabile, lotteranno fino alla fine per la corona della Conference, e i sorprendenti Hawks) un record mediocre come quello dei Celtics (12-17, per una proiezione di circa 34 vittorie su 82 partite, leggermente in rialzo rispetto alle previsioni iniziali) vale, attualmente, l’ottava piazza.

Tradotto in soldoni, un giro ai playoff per sfidare una delle due regine dell’Est. A completare il quadro troviamo anche la concreta possibilità di raggiungere il quarto posto in graduatoria, premio alla vincente di una Atlantic Division tra le peggiori della storia (i beneficiari del bonus sarebbero attualmente i Toronto Raptors, detentori di uno “stellare” record di 11 vittorie e 14 sconfitte, con Brooklyn e New York a giocarsi la palma di flop del secolo e Philadelphia in modalità “perdere, e perderemo”).

Arrivati a questo punto della stagione, e preso atto della situazione, sarebbe interessante capire quali sono i piani in corso d’opera nella mente di Ainge. Se c’è una cosa della quale si può star certi è che questi Celtics non giocheranno per perdere: il tanking non abita a Boston, un concetto ribadito forte e chiaro nella offseason e che la squadra di Stevens, pur con i suoi limiti strutturali, sta mettendo in pratica scendendo in campo ogni sera con mordente e entusiasmo (si ricordano solo tre blowout fino ad ora, contro Rockets, T’Wolves e Pacers).

Vincere aiuta a vincere, e mantenere viva la mentalità che Doc Rivers e i suoi hanno faticosamente fatto riemergere dopo anni di buio, riportando in auge il senso di appartenenza a una franchigia storica e il concetto di Celtic Pride, sarebbe un viatico importante per costruire fin da subito le fondamenta per un futuro radioso.

Al tempo stesso, però, non si può nascondere l’altra faccia della medaglia: accedere ai playoff significherebbe precludersi la ghiotta chance della lottery in sede di Draft, un privilegio che spetta soltanto alle quattordici franchigie che non si qualificano per la postseason.

E, preso atto che le prospettive di fare strada da aprile in poi (anche un passaggio del primo turno appare complicato allo stato attuale, specie se l’avversaria dovesse essere una tra Pacers e Heat) sono pressoché nulle, è normale che nella Beantown possano iniziare a ragionare in un’ottica, per così dire, conservativa: un modo elegante per dire che coach Stevens, fin qui ottimo nella sua stagione da esordiente in Nba, potrebbe ricevere alcuni “ordini di scuderia” dal management biancoverde (un maggiore impiego del sommerso della panchina, vedi Bogans e Brooks, potrebbe essere una chiara indicazione in questo senso).

È in questo contesto che si inserisce uno degli argomenti chiave per il futuro prossimo, ma anche a lungo termine, dei Boston Celtics: Rajon Rondo, il nuovo volto della franchigia dopo la dipartita di Pierce e Garnett, ha finalmente ricevuto il via libera per tornare ad allenarsi senza restrizioni, e sembra prossimo al rientro in campo a quasi un anno dal grave infortunio al ginocchio destro.

Ecco il dilemma: come gestire la situazione? Parliamo del lider maximo designato, un giocatore il cui contratto scade nell’estate del 2015 e che si avvicina alla piena maturità agonistica, voglioso perciò di impressionare i suoi attuali datori di lavoro (o chi per loro) per guadagnarsi il contrattone della carriera.

I bene informati parlano di un numero 9 già scalpitante nelle partitelle di allenamento, e gli stessi Celtics hanno individuato nel mese di gennaio il target per il rientro. La data chiave potrebbe essere quella del 26 gennaio, già da tempo cerchiata in rosso sul calendario biancoverde: sarà infatti la notte del ritorno a Boston di Pierce e Garnett, una serata di emozioni che potrebbe essere ulteriormente impreziosita dal ritorno in campo di Rondo. Il vecchio e il nuovo che si ritrovano, una data doppiamente simbolica anche per RR9 che tornerebbe a giocare esattamente un anno e un giorno dopo l’infortunio patito sul parquet di Atlanta.

In un Est così povero, questi Celtics arricchiti dal ritorno del loro uomo franchigia potrebbero davvero prepararsi per una seconda parte di stagione con vista playoff.

È però lo stesso Rondo a stroncare sul nascere le voci di un suo ritorno a breve termine: lo ha fatto alla sua maniera, rispondendo con un secco “no” a chi gli chiedeva se fosse realistica la possibilità di un suo rientro nel mese di gennaio, aggiungendo (Derrick Rose docet) che tornerà soltanto quando sentirà di essere pronto a farlo.

Danny Ainge non lo confesserà mai, ma in cuor suo spera che, quando quel giorno arriverà, la sua squadra sia a distanza di sicurezza dalla zona playoff: a Boston sono abituati a festeggiare solo a giugno e, Rondo o non Rondo, è pacifico che i Celtics le prossime Finals se le guarderanno comodamente seduti in poltrona.

È per questo che nella Beantown non si augurano una vittoria di Pirro, quale sarebbe l’accesso alla postseason; ma, nella Zombie Conference della costa Est, non arrivare tra le prime otto sarà davvero un’impresa titanica.

 

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