Ray Allen e Shane Battier: 2 che si difendono egregiamente nonostante l'età...

Ray Allen e Shane Battier: 2 che si difendono egregiamente nonostante l’età…

Lo ammetto, sono uno di quelli che al fantacalcio comprerebbero un’intera difesa di Mario Yepes.

Non ci posso fare niente: mi esaltano i finali di carriera, i Dikembe Mutombo, le Martina Navratilova e le Merlene Ottey. Forse è solo una mia deformazione o forse è colpa del fascino dell’esperienza: di fatto, con tutto il rispetto per Oladipo e McLemore, sto seguendo anche quest’annata NBA dalla prospettiva di chi è in parabola discendente.

Sono tutti nati tra ’74 e ’79 e sono (contare per credere) trenta precisi. Sedici ad Est, quattordici ad Ovest, in quindici indossano almeno un anello. In attesa che Rasheed venga ingaggiato dai Bucks per mettere ancora più in crisi Larry Sanders, questi vegliardi stanno chiudendo le rispettive carriere nei modi più diversi.

La Eastern è conference di vecchi tiratori, discreti picchiatori e mestieranti del parquet.

Tanto per cominciare da una Brooklyn a caso, Garnett è riuscito finalmente ad avere statistiche umane. Numeri ancora mostruosi in fatto di efficienza, ma almeno, stavolta, umani. Jason Terry nel frattempo ha litigato con il tatuatore che l’aveva marchiato a Dallas, per ciò bisogna prima sperare che facciano pace e poi, forse, parlare di anello. Pierce, ancora dignitosissimo come sesto uomo, mi ha fatto più male di Karl Malone quando si è trasferito dai Jazz ai Lakers.

Se Brooklyn è un parametro del grande impiego di anziani in campo, è anche il perfetto esempio di come sia rischioso costruire un team su soli veterani. Saranno pure in ripresa, ma tant’è.

Anche i Knicks, restando alla Atlantic, non scherzano quanto a cattiva gestione. Che si tratti di Artest o di Metta World Peace, non vedere al Madison un animale da Madison come Artest fa un certo effetto. Non sono certo del fatto che il coach stia sbagliando, ma certo mi colpisce la possibilità che Artest si trasferisca pur di giocare di più.

Kenyon Martin sta onorando al meglio il proprio ruolo di lungo riempi-minuti, che si è cucito addosso dopo essere tornato dalla Cina assieme al compagno JR Smith. Prigioni, sophomore del 1977, è in parte una barzelletta, in parte un giusto tributo ad una leggenda del basket intercontinentale. Tipo Garbajosa, tipo Rigaudeau.

La Central Division ha tre ottimi esempi di cosa voglia dire essere un onesto lavoratore nella NBA: Rasual Butler rimpolpa il roster di Indiana e resta arma offensiva per improbabili triple; a Chicago, Nazr Mohammed sembra incredibilmente avere ancora un senso, se mai ne ha avuto uno; Mike James, prossimo ai trentanove, forse ha solo l’obiettivo di raggiungere le seicento gare da pro, ormai ad un passo (per inciso, James è il Mario Elie della situazione: arrivato nella NBA a 26 anni, ha anche accumulato dei trascorsi in Turchia).

In questo senso, l’opposto di Brooklyn è Miami. Lì i ragazzi degli anni Settanta sono addirittura quattro, ma non coincidono con i giocatori di punta del quintetto. Ognuno ha un incarico ben preciso. Ray Allen ha smesso ormai da tempo di tirare da due, Battier e Rashard Lewis si incastrano ancora alla grande in rotazione, Andersen porta la consueta vitalità nei pressi dei tabelloni. Mai come nel caso di Miami, le statistiche dei vecchi si rivelano ininfluenti sul loro reale impatto (che il tatuatore di Jason Terry sia stato già prenotato da Andersen è ipotesi a questo punto plausibile).

Elton Brand, che con Metta World Peace condivise i brillanti esordi nella sfasciata Chicago post-Jordan, ha avuto il calo forse più macroscopico. Personalmente non mi aspettavo un ruolo così marginale, per quanto non ci fosse comunque troppo spazio tra Millsap e Horford. Certo è che in termini di minutaggio e rendimento, Elton da Duke è ormai alla fine: impietose, le medie recitano 2.7 ppg e 3.4 rpg.

Quanto a Jannero Pargo, ora a Charlotte, riesce ancora a strappare un buon milioncino annuale. Chauncey Billups, per quanto mi riguarda, può fare ciò che vuole: saranno dello stesso avviso staff e tifosi di Detroit, cui Chauncey ha regalato fin troppo per sentirsi dire che è troppo vecchio (da notare che è un finale di carriera molto alla Ben Wallace, se possibile).

Ad Ovest, di contro, i veterani sono spesso e volentieri il perno delle rispettive franchigie. Generalizzando, si può dire che semplicemente è andata così.

Un gruppo autonomo è rappresentato da un curioso ensemble di playmaker: Earl Watson (1979) a Portland, Andre Miller (1976) a Denver e Derek Fisher (1974, come Nash) a Oklahoma. Fino a novembre, a Salt Lake City, è stato possibile ammirare persino Jamaal Tinsley (1976), l’uomo dei ventitre assist in una partita.

Tra questi merita una menzione Miller, che più degli altri ha ancora una discreta responsabilità nel gioco del proprio team. Non parte titolare dal 2011, Miller, ma anche per lui si è messo in scena uno dei ritorni più classici e strappalacrime del panorama NBA, se è vero che è tornato in quella Denver cui si associano gli anni più rosei della sua carriera: quelli di Carmelo, Camby e del sopra citato Earl Watson. Quest’ultimo, sia detto per inciso, sta viaggiando ad un’indecorosa media di 0.3 ppg, ma ha un sensazionale 1.3 alla voce assist.

Los Angeles è, più che mai, la New York dei veterani: due squadre per due differenti maniere di servirsi dell’esperienza dei più rodati. I Clippers, che con Odom almeno ci avevano provato in nome del revival, hanno deciso di ingaggiare Antawn Jamison (1976) e Stephen Jackson (1978).

Per entrambi calo vertiginoso, ma possibilità di essere utili ad un team sul cui potenziale nessuno ha più dubbi da un pezzo. Jamison, tornato a vestire la 33, fino a due anni fa ne metteva ancora 17-18 a sera nei Cavs orfani dell’innominabile; ora, tralasciando il passaggio a vuoto in maglia Lakers, non arriva a 5. Jackson, altro grande ex-realizzatore, sta facendo, se possibile, ancora peggio.

La truppa di D’Antoni, invece, va analizzata partendo da una certezza: se Steve Nash è la cosa più vicina a John Stockton che si sia mai vista (anche in termini di longevità), Kobe dal canto suo non cambierà mai squadra. Ora che siamo in tempo di bilanci, non è sfuggito ai più il sensibile peggioramento della squadra a seguito del rientro del numero 24. Va però detto, del figlio di Jelly Bean, che una cosa alla Paul Pierce non la farà mai. E che un tendine d’Achille pare non averlo fermato, almeno per il momento.

Anzi, sulla questione-Pierce c’è una notazione da fare, perché nessuno può dimenticare il superbo astio di Garnett nei confronti di Ray Allen, quando questi passò agli Heat. Vedendo Garnett e (soprattutto) Pierce in maglia Nets, viene spontaneo pensare che Allen meriti tutto l’appoggio del caso, dal momento che l’etica – specialmente in termini di milioni – ha smesso di esistere da un bel pezzo. Almeno dai tempi in cui Garnett Kevin veniva soprannominato The Big Ticket per quei 120 milioni in sette anni: siamo sicuri che il sodalizio con Minneapolis, città quantomeno non invitante, fosse dettato da amore incondizionato?

Detto questo, che è palesemente un off topic, Bryant non poteva non essere l’attuale leader (anche se trentacinquenne) dei Lakers. L’anti-rookie report, anzi, non potrebbe esistere senza questi instancabili cercatori di anelli.

Su Duncan e Ginobili non c’è, a questo punto, molto da dire, perché sono i record a parlare per loro. Per Nowitzki, in quest’ottica, vale lo stesso discorso: sono cose che, semplicemente, sono successe. Se vinci un anello, di base, rimani a oltranza. O almeno, rimani finché puoi.

Il tedesco delle meraviglie, in effetti, sta legittimando la propria presenza in modo egregio: è lui, almeno secondo chi scrive, il vecchio più sorprendente della NBA per la stagione in corso. Tornato sopra il ventello, Dirk aveva delle statistiche da riportare in carreggiata dopo un infortunio che ne aveva condizionato in negativo tutta la passata stagione.

Menzione speciale per i due non protagonisti Vince Carter e Shawn Marion: non vinceranno più titoli e non schiacceranno più come un tempo, ma difficilmente Dallas può farne a meno allo stato attuale. Carter ha ora un barbone da vecchio saggio e non stupirebbe se iniziasse a farsi chiamare Abdul, mentre Marion ha le stesse statistiche dal 2008 e non sembra dare troppi segni di cedimento.

Dulcis in fundo, per non dimenticare, un altro grande nobile decaduto. Gioca (?!) a Golden State, ha lo stesso cognome di Shaq ma si chiama Jermaine. Nato nel 1978, l’anno scorso ha disputato la sua miglior regular dai tempi di Miami, tanto da guadagnarsi un contratto per l’anno successivo. Il fatto che non renda al massimo e che compaia non nel boxscore ma nella injured list non deve e non può stupire: anche Jermaine, con il passare dei lustri, si stava già da un po’ preparando ad uscire di scena. Di questo congedo, comunque, si può dire che è e sarà certamente dignitoso.

Insomma, per farla breve, ho avuto il piacere di tornare a scrivere su Playit. E, quel che è meglio, parlando di vecchiaia, che è uno dei miei temi preferiti. Una verità non trascurabile è che mi ero illuso che Elton Brand potesse essere il mio personalissimo steal of the draft per la stagione di Hoops (anche Larry Sanders, se è per questo), ma mi sono sbagliato e devo prenderne atto.

Con un saluto e un ringraziamento a Marcus Camby e Juwan Howard, che fino all’ultimo mi hanno commosso.

4 thoughts on “Veterans Report 2013: lode al passare del tempo

Commenta

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.