knicpac656L’NBA è sempre lenta a carburare, ma quest’anno sembra anche più lenta del solito, complici assenze importanti (Kobe su tutti, ma per noi italiani anche quella di Danilo Gallinari), squadre deliberatamente lasciate a metà, con un bel cartello “lavori in corso”, mentre altre franchigie tentano di recuperare la loro identità (come Chicago, con il rientrante Derrick Rose) ed altre ancora, come Brooklyn, provano a costruirne una ex novo.

Nulla di insolito, ma questa annata nasce sotto ad una congiuntura particolare che cospira a rendere questa stagione meno regolare di altre: in sintesi, c’è poco talento complessivo (l’ultimo grande draft risale al 2003) ed è appena entrato in funzione il nuovo contratto collettivo, con annesso il nuovo salary cap e le nuove, rigide regole sulla luxury tax.

Al termine della stagione arriverà un grande draft, unito ad una free agency di alto livello, mentre nel corso della stagione avverrà un altro evento epocale: David Stern andrà in pensione, lasciando il posto che occupa da trent’anni ad Adam Silver.

Non vi basta? Ci sono anche nuove regole ed interpretazioni arbitrali da adottare.

Le 30 franchigie stanno cercando di capire come usare al meglio le nuove disposizioni del contratto collettivo e allo stesso tempo stanno muovendosi con attenzione nel tentativo di scaricare contratti che sono eredità di quello vecchio; con il nuovo salary cap, che impone una luxury tax così onerosa da costituire di fatto un tetto rigido al monte stipendi, la cautela è d’obbligo.

Ci sono state delle mosse interessanti, ma nel complesso tutti temporeggiano e la situazione rimane bloccata e non può non riportare alla memoria quella che si era creata qualche anno fa, quando alcuni club s’erano resi conto che esisteva una finestra buona per provare a “rubare” un titolo NBA senza fare investimenti eccessivi.

Un sondaggio tra i GM NBA ha fatto emergere che una delle loro principali preoccupazioni sono le aspettative poco realistiche dei proprietari, specialmente di quelli nuovi, che hanno fatto investimenti corposi e vogliono vederli rientrare. Tanti credono di avere per le mani delle squadre da titolo, da Dolan dei Knicks a Prokhorov dei Nets, mentre in realtà hanno solo costruito dei gruppi talentuosi ma disfunzionali.

Nell’estate del 2007 i Celtics misero assieme la squadra dei “Big three” e quella finestra si chiuse, spingendo le altre franchigie a correre ai ripari a stagione in corso. I Lakers presero Gasol, i Suns Shaq e i Mavs Kidd, tutto nel giro di un paio di settimane. Corsi e ricorsi storici, quindi.

Sicuramente la NBA non vive oggi uno dei suoi momenti più fulgidi dal punto di vista qualitativo-tecnico, ma questo dipende dai cicli che periodicamente portano più o meno talento e questo ci riconduce al prossimo draft: Jabari Parker, Julius Randle, Andrew Wiggins, Dante Exum, Marcus Smart, James Young, sono tutte potenziali superstar e la caccia per procurarsi il maggior numero di palline nell’urna della lottery è iniziata durante l’estate: tante squadre hanno deciso di posticipare la messa a punto del roster, facendo “maturare i giovani” (ehm…) e sperando di portare a casa una scelta capace di cambiare la faccia della franchigia per anni a venire.

Aggiungiamoci che la prossima estate saranno disponibili tanti free agent, come Kirilenko, Deng, Pierce, Granger, Collison, Randolph, Pau Gasol, le tre superstar di Miami oltre a Bryant e Carmelo Anthony; ecco spiegato perché molte squadre hanno evitato di legarsi a contratti che finirebbero con l’ostacolare la corsa ai fuoriclasse; si sono cioè lasciate sfuggire delle utili pedine in attesa di capire se la prossima potrà essere l’estate decisiva per i destini della franchigia.

Il draft e la free agency, quindi, sono due dei motivi per cui alcune squadre schierano delle formazioni di relativa competitività. A volte però le dinamiche sportive sconfiggono la logica: nel 1999-00 gli Orlando Magic giocavano a perdere con un roster in scadenza di contratto in attesa di buttarsi sulla ricca free agency che avrebbe dovuto condurre in Florida Tim Duncan e Grant Hill.Quella squadra sfiorò i playoffs contro tutte le aspettative e non è detto che la stessa cosa non accada anche quest’anno.

Un gruppo come quello dei Sixers potrebbe scoprire di avere dell’orgoglio e giocare come una squadra in missione per 82 partite, mandando a monte i piani della dirigenza. Oppure chissà, le vittorie iniziali potrebbero essere semplicemente figlie dell’eccessiva rilassatezza degli avversari, convinti di scendere in campo contro cinque sagome di cartone.

Non si può poi sottovalutare che tredici squadre hanno cambiato allenatore e nove di questi sono esordienti (Brown, Budenholzer, Clifford, Stevens, Hornacek, Joerger, Kidd, Malone, Shaw) che stanno cercando di introdurre nuove filosofie di gioco (Brian Shaw vuole un gioco più ragionato e ispirato ai principi del Triangolo a Denver, Doc Rivers sta invece cercando di trasformare i Clippers in una compagine dotata di mentalità difensiva); molte delle difficoltà iniziali di tante di queste franchigie sono dovute al cambio in panchina e all’inesperienza di alcuni dei nuovi allenatori.

Discorso a margine per quanto riguarda i fischietti e i regolamenti: l’NBA non ha da anni una direzione particolarmente tecnica, complice l’atletismo dirompente che caratterizza il gioco moderno e rende oggettivamente difficile l’arbitraggio.

Quest’anno la National Basketball Association vuole enfatizzare il cosiddetto delay of the game (giocatori che dopo un canestro segnato ritardano la rimessa degli avversari trattenendo il pallone senza averne diritto, essenzialmente), e non ci sarebbe nulla di male se non ci fossero problemi macroscopici che passano in cavalleria, dalle infrazioni di passi ai blocchi in movimento (posizione illegale dei gomiti e dei piedi, che non dovrebbero superare la larghezza delle spalle e che verranno puniti maggiormente, ma solo se il difensore verrà colpito, il che significa che converrà andare a sbattere contro al blocco, e poi se la veda l’arbitro a capire se c’era fallo e di chi) che avvengono ad ogni piè sospinto.

Se lo scopo delle varie modifiche e migliorie che ogni anno la NBA propone era quello di aumentare i punteggi, occorre rilevare che il numero di giocatori che viaggiano a venti di media è diminuito negli ultimi cinque o sei anni e che si segnano 107 punti per 100 possessi di squadra. Trent’anni fa i numeri erano esattamente gli stessi, quindi è chiaro che le regole hanno un’influenza relativa sui punti per possesso, mentre ne hanno una enorme sulla tipologia e qualità dei tiri e del gioco ed è lì che si gioca la partita della spettacolarità.

Gli ex giocatori quarantenni ridicolizzano spesso l’NBA attuale, ritenuta soft, con regole difensive eccessivamente penalizzanti.
In realtà bisognerebbe spiegare a Charles Oakley e agli altri “bruise brothers” dei Knicks di Riley piuttosto che ai John Salley e Rodman di questo mondo che i punti per possesso sono oggi gli stessi di quando loro contribuivano a trasformare il verniciato NBA in quello che Johnny Bach ebbe a definire “la fossa dei coccodrilli”.

La museruola messa al difensore primario è compensata dal defensive roaming (cioè il flottaggio dei difensori impegnati su avversari meno pericolosi, in pratica) che nei tempi della difesa illegale era proibito.

Il gioco può essere più o meno bello, più o meno tecnico, perimetrale o interno a seconda di come lo si arbitra e delle caratteristiche di chi gioca, ma, a meno di cambiare integralmente il libro delle regole, alla fine i punti per possesso rimangono sostanzialmente invariati. Oggi salgono le percentuali da tre punti, mentre scendono i tiri mid-range, ma di fatto la produzione resta invariata.

Non si dovrebbero mai cambiare le regole per incentivare o meno un certo tipo di gioco bensì per migliorare il basket nel suo senso complessivo, ma è molto facile produrre risultati inattesi e nefasti; citando Theodore Roosevelt, “è difficile migliorare la nostra condizione materiale attraverso la migliore delle leggi, ma è molto semplice peggiorarla con delle cattive leggi”.

Mutatis mutandis, è inutile tentare di alzare i punteggi drogando il regolamento, e ormai ci si è provato in ogni modo: il semicerchio difensivo non ha portato ad un numero maggiore di schiacciate perché le difese si sono adattate con gli sfondamenti in aiuto (spinti a livelli osceni) neutralizzando l’innovazione.

Non è servito eliminare la difesa illegale per allargare il campo, perché le difese, complici il genio di gente come Gregg Popovic e Tom Thibodeau, ha imparato a restringerlo collassando sulla palla per poi riaprirsi sullo scarico per poi collassare di nuovo.

Di fatto, il titolo NBA lo vince sempre la difesa; Celtics, Lakers, Spurs, Heat e anche Mavericks (quando hanno vinto le Finali) avevano in comune solo ed esclusivamente la presenza di grandi difese (costruite su presupposti tecnici-fisici-tattici diversi in base al materiale a disposizione).

Tanto varrebbe allora ripristinare le regole originali, ricordando che:
a) il basket è oggi uno sport globale ma nella maggior parte dell’orbe terraqueo ci si appassiona nonostante le regole FIBA, che a volte sono stucchevoli e di sicuro non sono fatte per lo spettacolo;
b) il periodo di massima popolarità della NBA è coinciso con gli anni novanta e soprattutto ottanta, quando c’erano Magic, Bird e Jordan, e si giocava un basket che faceva emergere un certo tipo di giocatori (cioè quelli tatticamente intelligenti e rifiniti tecnicamente).

Non bisogna comunque disperare o credere che il basket stia degenerando; semplicemente, ci sono momenti di flessione del gioco e quelli attuali si spiegano sia con contingenze legate al mercato e ad una situazione economica non facile che spinge molti proprietari ad applicare la mentalità riassumibile con “più risultati e meno spese” che derivano dagli altri loro business (che poi questa mentalità paghi, è tutto da vedere, ma non spetta a noi giudicare) sia, dicevamo, con la carenza di talento puro, cosa a cui provvederà a rimediare il nostro amico Wiggins e i suoi soci del draft 2014, in combinato disposto con una free agency che si preannuncia scoppiettante, non foss’altro perché i Lakers torneranno per la prima volta dal 1996 (quando portarono in riva al Pacifico Shaquille O’Neal) a tentare di far presa sui free agent con il peso del loro brand.

L’aspetto della secca in cui è incappata la NBA (una secca relativa, a giudicare dallo stato della pallacanestro mondiale e nello specifico del disastrato basket nostrano) che non svanirà da solo riguarda all’interpretazione arbitrale, ma anche in tal senso, esistono motivi di ottimismo, visto che non si tratta di decisioni definitive o irrevocabili. Staremo a vedere che direzione prenderà il metro arbitrale a seguito della nomina di Silver, per capire quale impronta vorrà dare all’NBA di domani.

Tra il nuovo commissioner, la prossima free agency e il prossimo draft, una nuova era NBA ci attende al varco, quindi ci sono tanti motivi per seguire con attenzione questa stagione.

Non resta che goderci l’inizio scoppiettante dei Sixiers, i nuovi Rockets alle prese con un quintettone poco maneggevole, le smorfie di Doc Rivers mentre cerca di immaginarsi DeAndre Jordan nel ruolo di àncora difensiva, il backcourt delle meraviglie dei Wizards, i Lakers che giocano run and gun, Bargnani che interpreta il ruolo di parafulmine al Madison, il gioco spettacolare dei Golden State Warriors piuttosto che il panta rei degli Spurs, classici eppure sempre innovativi.

Ce n’è per tutti i gusti, e, in fondo, l’NBA è sempre stata meno perfetta di come ce la ricordiamo!

One thought on “Focus: l’inizio di stagione e il livello del gioco in NBA

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