jrsm6755Se siete in cerca di buoni sentimenti, ve lo diciamo fin d’ora: questa non è una storia edificante, nella quale dopo le difficoltà arriva il riscatto, come nei film di Hollywood. Non è nemmeno l’esaltazione di un anti-eroe del ghetto, come piace a tanta “controcultura” che ormai va per la maggiore.

E’ la storia di un talento e dei suoi limiti, tecnici ma prima ancora caratteriali.

Di J.R. Smith conosciamo gli arresti dal palleggio, il tiro proibito, le schiacciate, i tatuaggi. Conosciamo anche gli arresti d’altro genere, quelli per guida pericolosa, eccesso di velocità; conosciamo i ritiri della patente come anche le accuse di usare lo slang della famigerata gang del Bloods su Twitter.

Earl Smith III è così, e a quasi 28 anni, è ragionevole pensare che difficilmente si trasformerà mai in un role model.

Soprannominato J.R. per sbaglio, visto che non è il terzo della sua famiglia a portare quel nome, ha vissuto nel 2013 la miglior stagione della sua carriera: 80 partite disputate, 18 punti di media (career high) con il 42% dal campo e 2.7 assist e 5 rimbalzi ma soprattutto un contributo importante uscendo dalla panchina; uno Smith sedato, disposto a passare la palla anziché a tirare sempre e comunque.

Free agent nell’estate, è arrivata l’estensione con i Knicks, soddisfatti di una guardia atletica, capace di raffiche di punti che si sposano perfettamente con lo stile implementato da Mike Woodson, che nell’ultima stagione ha vinto e convinto tutti. Oddio, almeno fino ai Playoffs, nota dolente del 2013, conclusa con l’eliminazione da parte degli Indiana Pacers, mentre i numeri di J.R. precipitavano a 14 punti con il 33% dal campo e un misero 27% da tre.

Al di là delle facili e scontate analisi a posteriori (non si vince con il tiro da tre, arma storicamente discontinua, che ha già lasciato a piedi più di una squadra sul più bello) i Knicks si sono confermati una bella squadra da stagione regolare, ma quando il gioco si è fatto duro i limiti dei solisti (su tutti Anthony e Smith) sono emersi e l’ombrello difensivo del meraviglioso Tyson Chandler non è stato sufficiente per reggere tutta l’intera difensiva.
I Pacers, zitti zitti, tacciati di essere noiosi e un po’ scolastici, hanno difeso, ruotato, passato la palla e sono andati ad un soffio dalle Finali NBA.

I Knicks, tutt’altro che abbattuti dalla sconfitta, sono decisi a proseguire sulla stessa strada; è arrivato Metta World Peace per portare difesa (anche se Metta non è nemmeno il vicino di casa del Ron Artest che fu Difensore dell’Anno) e Bargnani per avere un altro tiratore in uscita dalla panchina.
Dopo un po’ di incertezza, anche J.R. è stato riconfermato. Suo padre aveva parlato di “rendergli giustizia” e a quanto pare, nessuno ha offerto più “giustizia” dei Knicks (tre anni per un totale di 17 milioni), che detenevano i Bird Rights sul prodotto di freehold Borough, New Jersey.

Come sempre però, J.R. alterna con disinvoltura carezze e schiaffi; dopo aver rifirmato, Smith ha optato per un intervento al menisco che lo terrà lontano dai campi NBA per tutto il training camp e il primo mese di stagione regolare, oltre ad aver rimediato una sospensione per non aver superato un test antidroga.

A quasi 28 anni d’età, con un contratto triennale e un ruolo da riconosciuto sesto uomo NBA, chi è J.R. Smith?
E’ figlio di Earl Smith jr, una stella locale della Belmar’s Jersey Shore League; Earl, tiratore dal carattere non troppo accomodante (vi ricorda qualcuno?) secondo la leggenda, pensò bene di educare sin dall’infanzia il figlio all’arte del tiro: canestri in ogni angolo della casa, lezioni di tecnica, piegamenti per rinforzarsi e così via.

Il problema, come ha detto Earl stesso, è che la difesa venne lasciata per ultima, perché “se ne può fare a meno“, frase che raggelerebbe le vene di qualunque allenatore di pallacanestro del mondo, salvo che il ragazzo è dotato di un tiro fenomenale e, ancora meglio, è capace di costruirselo dal palleggio, in svitamento da fermo, in emergenza, senza equilibrio. Quel tiro è esattamente il genere di salvacondotto che consente di prosperare in NBA a chi non difende e magari pianta anche qualche grana.

39864_mcd04_ap3Scelto alla diciottesima chiamata del draft 2004 dai New Orleans Hornets, Smith è stato uno degli ultimi high schooler a saltare il college. Al McDonalds aveva fatto strabuzzare gli occhi agli scout, con venticinque punti e il titolo di MVP (da dividere con Dwight Howard) e all’epoca impazzava la moda di saltare il college; rinunciò a North Carolina e fu uno degli otto liceali scelti tra le prime 19 chiamate.

Poco importa se coach Bob Hurley della Saint Anthony High School di Jersey City, vedendo giocare J.R. nella squadra allenata da suo figlio Dan (che oggi allena Rhode Island), criticava la sua selezione di tiro. Per gli scout NBA quelli erano problemi secondari, da risolvere in un non meglio precisato futuro.

Secondo Dan Hurley, Smith era un giocatore che adorava essere allenato, uno che non è mai stato allontanato da un allenamento e che, alla Alonzo Mourining con Pat Riley, si sarebbe buttato contro un muro per lui. Benvoluto da tutti, fu sospeso una sola volta, per aver lasciato il campo senza permesso. Ah-ah, direte, eccolo qui, che va a fare rifornimento di crack! Nossignori, J.R. era uscito per andare dal parrucchiere.

Cos’è successo a questo ragazzo, uno che, nelle parole di un esasperato George Karl, offende il gioco con la sua selezione di tiro e che ha più sospensioni e denunce che tatuaggi (e non sono pochi)?

Le cose iniziarono ad andare sud non molto tempo dopo il training camp, mentre la stagione andava a rotoli e Byron Scott mal sopportava questo ragazzino un po’ troppo allegro, che faceva battute in spogliatoio mentre la squadra incassava solo sconfitte.

Oltretutto, con la 18° chiamata, gli Hornets avrebbero potuto dargli un giocatore più pronto anziché un bambino che non poteva in alcun modo entrare in rotazione e non aveva la maturità di quel Kobe Bryant, che, diciassettenne, dopo aver abusato di Scott nel famoso provino per Jerry West, fece della guardia dei Lakers il proprio mentore durante la propria stagione d’esordio.

Passare nella NBA diede a Smith una libertà mai provata prima, coniugata con la realtà di non essere più al centro dell’attenzione come negli anni di liceo, durante i quali era coccolato da tutti ma anche tenuto sotto stretto controllo. Il professionismo gli ha dato un’improvvisa indipendenza ma gli ha tolto attenzioni, in uno spogliatoio che aveva altre preoccupazioni che non rassicurare un adolescente fragile, che, lasciato a se stesso, anziché lavorare e migliorarsi, prese i peggiori atteggiamenti ed abitudini dei propri compagni.

Smith avrebbe avuto bisogno di essere tutelato e seguito in altro modo, ma la storia è la stessa che si ripete uguale come per molti altri liceali che in NBA non hanno trovato spazio: per quanto possa suonare trito, il college prepara alla vita da adulti e consente ai giocatori di essere seguiti nel percorso di completamento del proprio bagaglio tecnico.

Chissà cosa sarebbe successo a J.R. se, anziché saltare subito nel mondo Pro, avesse accettato l’offerta di North Carolina.
L’opinione di papà Smith al riguardo? “Uscendo dall’high school puoi essere scelto tra i primi 30 al draft mentre andando al college, rischi di venire smascherato e ti ritrovi fuori dal draft. Devi prendere i soldi quando puoi fare i milioni senza fare fatica, l’educazione puoi fartela più tardi. So quant’è dura. Ho lavorato molto a lungo anche solo per cercare di fare un milione di dollari e non arriva facilmente.”

Il rapporto con Scott continuò a peggiorare durante il secondo anno, finché Smith, esasperato dall’essere sempre in panchina, criticò il suo allenatore con la stampa locale, sancendo di fatto la fine di qualunque possibilità di convivenza e venendo scambiato con P.J. Brown in cambio di Tyson Chandler in un giro che lo vide atterrare a Denver, dove il minutaggio migliorò ma non così l’impatto: ad ogni training camp, ci si chiedeva se J.R. fosse finalmente pronto ad esplodere massimizzando il suo potenziale; ogni anno le promesse di cambiamento venivano poi infrante con arresti e sospensioni comminate dalla NBA.

Mike-DAntoni-JR-Smith-fits-perfectly-8K10R6E8-x-largeCon George Karl, uno che a North Carolina c’è andato ed è cresciuto sotto Dean Smith, il rapporto non fu necessariamente migliore che con Byron Scott; i problemi erano sempre gli stessi: la selezione di tiro, per gli allenatori; il minutaggio, per J.R. Ci si misero anche i consigli di Earl Smith: “Sapete che cosa ho detto a J.R.? Gli ho detto tira ogni volta che hai la palla in mano. Tanto ti sostituirà in ogni caso, tanto vale tirare“.

Secondo Rex Champman, che all’epoca era vicepresidente del personale, “Smith non sapeva chi era. Cercava di essere come Carmelo Anthony e quando arrivò Iverson, voleva essere come lui. Solo un anno e mezzo dopo ha iniziato ad essere a suo agio con sé stesso e a voler essere semplicemente J.R. Quando questo è avvenuto, il suo gioco è migliorato ed è maturato anche lontano dal campo“.

Nel frattempo J.R. si è ricoperto di tatuaggi, dal suo soprannome, Swish, sotto al mento, alle fiamme sul braccio, passando per il nome della figlia sulle nocche e un impagabile “innamorato dei miei soldi”. Insomma, il classico armamentario di cui, per qualche ignoto motivo, occorre munirsi per essere dei duri; gioverebbe ricordare che un duro vero, Gary Payton, cresciuto per davvero nel ghetto, dei tatuaggi disse: “Se ti piace un disegno, fattelo su un pezzo di carta“.

La maturità di cui parla Chapman è stata assai volatile: durante i suoi anni a Denver, ricordiamo una sospensione di 10 partite per rissa in una partita contro New York (una cosa per cui Karl non l’ha mai perdonato), una sospensione per aver sputato ad una donna ed averle versato addosso champagne in un nightclub nel 2006, mentre nel 2007, ignorando uno stop alla guida della sua automobile, centrò in pieno un’altra vettura; Smith e il suo amico Andre Bell, entrambi senza cinture, vennero sbalzati fuori dall’abitacolo per la violenza dell’impatto e alcuni giorni dopo Bell morì in ospedale per i traumi riportati nell’incidente.

Lungi dall’approfittare della tragedia per realizzare (tardivamente, certo, ma come recita l’adagio, meglio tardi che mai) la gravità del proprio comportamento, prima di arrivare a sentenza Smith collezionò altre due multe per eccesso di velocità e tre sospensioni della patente, segno che la morte dell’amico l’avrà certamente scosso, ma non abbastanza da rallentare.

24 giorni di detenzione e 7 gare di sospensione dopo, J.R. rispose decidendo di abbandonare il soprannome e di essere chiamato con il suo nome di battesimo, Earl Smith III. Smith proclamò di essere pronto ad accettare il suo ruolo in squadra e a difendere meglio (anche se già solo difendere sarebbe stato un passo avanti), ma così come tornò a farsi chiamare J.R., quasi altrettanto prontamente abbandonò gli altri intendimenti.

Dopo un’eliminazione ingloriosa per 4-0 nel 2008 per mano dei Lakers, l’anno successivo i Nuggets, scambiato Iverson con Billups, arrivarono fino alle Finali di Conference, perse per 2-4 sempre contro i gialloviola. Quando Carmelo Anthony ottenne di andarsene a New York, nel 2011, Smith lo raggiunse a fine stagione, lasciandosi alle spalle il Colorado e l’odiato coach Karl.

Durante la parentesi cinese (dovuta alla serrata), trascorsa tirando a volontà (come d’altronde i Zhejiang Golden Bulls si aspettavano che facesse) e chiusa con 36 punti di media, Smith riuscì nuovamente ad attirare controversie, saltando gli allenamenti e chiudendo il rapporto in modo brusco e belligerante. I Golden Bulls lo accusano di aver sistematicamente saltato gli allenamenti, ma secondo papà Earl “lui agli allenamenti ci andava, ma dopo una buona partita, per uno o due giorni non devi per forza andarci”.

New York, dunque, ma anche ai Knicks, Smith è rimasto lo stesso giocatore: convinto di dover essere una superstar, è viceversa al suo meglio quando fornisce punti, atletismo e tiro uscendo dalla panchina.

Le sospensioni, l’abuso di sostanze e la guida pericolosa non sono cessate, ma c’è anche un altro aspetto di J.R. che il pubblico, abituato ad idolatrarlo o a detestarlo per le sue intemperanze, non conosce. La sua fondazione si occupa di borse di studio per studenti non abbienti, segno che forse la mentalità del padre non ha attecchito fino in fondo.

Smith oggi è Sesto Uomo dell’Anno, riconoscimento che indubbiamente da ragione a George Karl,il primo ad intuire che per J.R. quella era la strada maestra per il successo. E’ un cosiddetto volume shooter, considerato che i suoi 18 punti dalla panchina si accompagnano a percentuali dal campo non troppo lusinghiere, ma è certamente migliorato nella selezione di tiro.

Il rapporto con coach Woodson sembra solido, ma rimane da vedere cosa succederà ora che ha un contratto lungo e in squadra mancherà la presenza solida e autorevole di Jason Kidd, passato al di là dell’East River.

Anche a New York le cose procedono come al solito, tra un arresto (per non essersi presentato in tribunale) una polemica per una foto twittata senza pensare molto alle conseguenze alle poco edificanti polemiche (sempre via Twitter) dirette contro Kris Humphries dei Brooklyn Nets.

J.R. ha compreso come, a 28 anni, il suo ruolo in NBA non sarà probabilmente mai quello di un All Star, e per questo, almeno sul campo, ha smesso di cercare di tirare ogni pallone e addirittura, sembra essere diventato un difensore decente (cosa che per una guardia della sua taglia e del suo atletismo dovrebbe essere addirittura automatica), ma che dopo aver tirato 3-15 nella sconfitta di Gara 1 contro Indiana, è andato con Iman Shumpert e Rihanna a far mattina nei locali notturni di Manhattan, silenziando all’istante le incaute penne newyorchesi che avevano iniziato a mettere “J.R. Smith” e “professionista modello” nella stessa frase.

E’ diventato un golfista come il suo idolo Michael Jordan e ogni anno sponsorizza una gara di beneficenza alla quale ha addirittura invitato coach Byron Scott a giocare con lui, segno che il tempo davvero lenisce le ferite; tutti quelli che lo conoscono lontano dal parquet parlano bene di lui, da Rex Champman ai suoi vecchi allenatori e professori del liceo che lo descrivono come un ragazzo leale e disponibile. Smith è tutto ciò, eppure è anche il contrario.

E’ un ragazzo che è diventato uomo ascoltando il proprio padre dirgli di ignorare i propri allenatori; si è sentito ripetere talmente tante volte di avere un potenziale da All Star da aver finito per credere di esserlo già, condannandosi in questo modo a non colmare mai il gap tra aspettative e realtà, diventando un giocatore incompiuto, un angelo per quelli che “se solo..”, un diavolo per quelli che pretendono da tutti il carattere di Shane Battier.

Chi è J.R. Smith? Scegliete voi…

5 thoughts on “Focus: J.R. Smith

  1. Bello , complimenti ! cmq rimane una mezza via ne star ne flop non si può scegliere.

  2. Dissento profondamente sul “ma quando il gioco si è fatto duro i limiti dei solisti (su tutti Anthony)”

    Anthony ha fatto dei signori PO, è mancato quasi tutto il resto, principalmente una seconda opzione offensiva credibile (Jr su tutti, lui si che ha fatto pietà), ha mostrato un notevole cambio di mentalità, percentuali basse contro Indiana perchè è stato costretto a forzare spesso e volentieri per i motivi di cui sopra, ( no, non è la solita scusa, questa volta è la realtà) tralasciando il fatto che nella partita decisiva da dentro e fuori ha predicato basket stampando 40punti tirando oltre il 50% dal campo.

    “l’ombrello difensivo del meraviglioso Tyson Chandler non è stato sufficiente per reggere tutta l’intera difensiva.”
    Questa poi….Chandler è stato uno dei problemi principali perchè ha reso al di sotto delle aspettative ed è stato totalmente impotente contro Indiana, sbertucciato alla grande da Roy “Ballerino” Hibbert.

    Ma li vediamo possibilmente da svegli e non sbronzi i PO di NY prima di scrivere?!?!

  3. Una pippa come tante nell’NBA di oggi. Il bello del basket è che il fisico non basta e il cervello ce l’hanno in pochi. Comunque se questi fessi che fanno di tutto per farsi notare (di tutto tranne il loro lavoro) ricevono tante attenzioni significa che tanto male non fanno, a fare gli idioti. Dato che è palese: lo fanno per attirare attenzione.

  4. Chandler non ha giocato una grande serie contro Indiana ma gli si chiedeva di difendere contro Hibbert, di aiutare su West, di prendere rimbalzi, chiudere l’area, difendere forte sul pick & roll… che cedesse, prima o poi, era francamente inevitabile ed è successo nel momento peggiore.
    Di Anthony nessuno discute l’attacco, ma a pallacanestro si gioca su due lati del campo e in difesa Carmelo predica un po’ meno di quanto faccia nella metà campo offensiva.

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