cs2008Per il terzo ed ultimo capitolo del ciclo di articoli sulle squadre che sono riuscite ad arrivare al titolo venendo direttamente da una stagione, quella precedente, in cui si erano adagiate sul fondo della classifica della rispettiva Division è giunto infine il momento di parlare dei Boston Celtics – stagione 2007-08.

Per certi versi si tratta della vicenda più lineare fra quelle analizzate. Erano una squadra giovane e incompiuta con più di qualche speranza per l’avvenire e decisero in modo brusco ma innegabilmente risoluto di sacrificare il proprio futuro, dai contorni rosei ma pur sempre nebulosi, per un presente da favola, acquistando due dei migliori giocatori sulla piazza. Molto Semplice, no?

Tuttavia nell’arco di un anno si resero protagonisti del tutt’altro che irrilevante incremento di 42 doppievù nel computo finale delle partite vinte in regular season. E nonostante la differenza di qualità del roster delle due stagioni sia sotto gli occhi di tutti, qualcosina si può comunque aggiungere su tale repentino ribaltamento di prospettive.

Senza considerare l’interesse che suscita il fatto che, almeno in parte, proprio gli odierni Celtics stiano cercando di ricreare i medesimi presupposti che in quegli anni resero possibile una così rapida ricostruzione. Gli stessi peraltro che non fruttarono invece comparabili soddisfazioni quando nel 1996-97, con Todd Day e Greg Minor sul parquet e soprattutto il sensazionale senior da Wake Forest Tim Duncan in testa, misero a durissima prova lo stomaco degli affezionatissimi spettatori dell’allora Fleet Center. Mi spiego meglio.

Anche nel 2007, così come ai giorni nostri e nel 1997, il piano A del management dei Celtics prevedeva che la ricostruzione di una squadra di vertice nella città che ha dato i natali Benjamin Franklin passasse obbligatoriamente dalla possibilità di usufruire della prima o, al massimo seconda, scelta del draft.

Gli assalti prima a Ray Allen e dopo a Kevin Garnett non furono altro che l’esito di quella che poteva essere considerata tranquillamente una exit strategy, resasi necessaria dopo che era svanita la possibilità di scegliere Oden (sì, Greg – cos’hai fatto in tutti questi anni? Sono andato a letto presto – Oden) o Durant.

Lo sfortunato centro da Ohio State e l’incontenibile KD erano infatti considerati gli unici due prospetti della lotteria di fine giugno a cui poter realisticamente affidare il pesante fardello di ricoprire il ruolo di uomo-franchigia dei bianco-verdi negli anni a venire. I Celtics allora erano reduci dalla seconda peggiore stagione della loro storia (la peggiore quella in cui scendevano in campo con le scritte sulle maglie “Lose 4 Tim”), terminata con il non invidiabile record di 24-58 e l’ultimo posto della Atlantic Division e dell’intera Eastern Conference.

Era una squadra quasi esclusivamente costruita attraverso i draft degli ultimi 2-3 anni. Un calderone di talento in prospettiva, ma senza apparenti segnali di sicura gloria futura, se si esclude i buoni progressi fatti registrare dalla giovane ala forte Al Jefferson. Gli unici che potevano vantare più di 3 anni NBA alle spalle erano l’immarcescibile Paul Pierce – che all’epoca al TD Banknorth Garden cantava e portava la croce (e lo faceva da quasi due lustri) – e Wally Szczerbiak, il figlio di Caramelo, mito delle merengues.

Sì ok, c’erano anche Scalabrine detto “vitello”, l’ammirevole Ratliff e l’ex-prima scelta assoluta (anche ex-giocatore) Olowokandi che calcavano i campi da un po’ di tempo, però diciamo che erano marginali nel roster attivo dei bianco-verdi. Sotto la loro ala protettiva cresceva baldanzosa un’intera generazione di giovani leoni pronti ad elettrizzare – almeno nei sogni bagnati di Ainge & Soci – tutta la Celtics Nation.

C’erano il bipolare-tatuato Delonte West, che non disdegnava neppure il possesso di armi da fuoco opportunamente caricate, il sovversivo Ryan Gomes (sovversivo perchè in una delle ultime partite contro i Bucks provò a denunciare l’oscuro disegno perdente dei suoi per arrivare ad una scelta alta all’imminente draft), il roccioso difensore Tony Allen, l’esplosivo Gerald Green, uno dei 65 cugini di Marbury al secolo “Bassy” Telfair, e c’era anche Allan Ray, nome e cognome invertito – quasi – rispetto al più famoso “He got game” ma stesso identico talento, tanto che Toti cercò di vendere il Colosseo per tenerlo a Roma.

C’erano poi Kendrick Perkins, Leon Powe ma soprattutto Rajon Rondo, che non era ancora il funambolico prestigiatore che è oggi ma minacciava seriamente di diventarlo. Come se non bastasse, a completare quello che pareva diventato in tutto e per tutto un circo itinerante ci pensarono gli infortuni.

Pierce subì una frattura da stress al piede sinistro e rimase ai box dal 21 dicembre al 9 febbraio, periodo in cui peraltro la squadra ebbe vita facile vincendone 2 delle 24 a disposizione ma soprattutto cominciò la terribile striscia di 18 sconfitte consecutive che fu arginata solo per san valentino, grazie all’amorevole (per l’occasione) concessione di Milwaukee. Si fermò nuovamente anche nelle ultime 11 partite di regular season ma a quel punto i buoi erano già scappati dalla stalla. Numero di W? come sopra.. 2.

Oltre a lui, Wally World saltò 50 gare, T.Allen 49, West e Big Al Jefferson si fermarono a 13 cadauno. Risultato: stagione disastrosa e Double-P che non vuole più essere il faro dei suoi. Ah, dimenticavo… piccolo particolare da non tacere: Red Auerbach, mister Celtics, era morto il 28 ottobre 2006, presagio funesto se ce n’è uno.

Preso atto di tutte queste peripezie, non restava che attendere la notte della draft lottery per rimboccarsi le maniche e vedere se era possibile aggiungere al roster uno fra Oden e Durant per impreziosire la nidiata di talenti di cui già disponevano. Al momento dell’estrazione però la prima scelta assoluta andò a Portland. I diritti per la seconda… a Seattle. Ahia… anche a questo giro – come era stato per Duncan – erano rimasti al palo.

La 3 se l’aggiudicarono gli Hawks, la 4 Memphis (poveretti, erano gli unici ad aver fatto peggio dei Celtics in stagione). E allora possibilità per i nostri di scegliere per quinti… troppo poco. Così Il Direttore Esecutivo per le Basketball Operations Danny Ainge non si perse d’animo, cambiò strategia e si decise a forzare decisamente la mano del destino, fin lì meticolosamente avaro con i suoi.

Acquistò dai Sonics Walter Ray Allen in cambio di West, Szczerbiak e la quinta scelta Jeff Green. Come mero ornamento della trade vera e propria si ritrovò in mano anche “Ciccio” Davis, 35esima scelta da LSU e che sarebbe venuto utile nel seguito della storia.

Ma il vero capolavoro Ainge lo mise in piedi convincendo Kevin Garnett, all’inizio recalcitrante – è proprio il caso di usare questo termine preso in prestito dal mondo equino perchè il Bigliettone non era certo programmato per tradire le aspettative della sua gente, i tifosi di Minneapolis.

Considerando il mondo come un gigantesco campo di battaglia in cui operino rigidi schieramenti che si percepiscono rigorosamente come “noi contro di loro”, non era contemplata la possibilità di saltare il fosso e passare dall’altra parte, da qualsiasi parte delle altre presenti sul campo.

A dir la verità i contatti tra le due franchigie risalivano a ben prima del draft. Da principio KG era titubante anche perchè non vedeva nei Celtics quella squadra in grado di garantirgli il necessario salto di qualità che gli avrebbe permesso di giocare subito per l’argenteria. Una volta saputo però dell’ingaggio del micidiale tiratore di Seattle, Da Kid ruppe immediatamente gli indugi e dette all’agente l’autorizzazione a procedere con la trattativa.

Il 31 luglio era ufficialmente un Celtic. Si era appena concluso lo scambio più voluminoso della storia, quello che fino ad allora aveva coinvolto il maggior numero di elementi, in quanto erano passati ai Timberwolves ben 7 giocatori: G.Green, Telfair, R.Gomes, Big Al Jefferson, Ratliff più due prime scelte.

Così, come un sospiro di vento che allontani lentamente la calura estiva, l’immagine di squadra incostante, sfortunata e a tratti sfibrante della stagione precedente lasciava il posto a quella ben più allettante di favorita numero uno alla vittoria finale. Anche perchè oltre ai due che insieme a The Truth furono immediatamente soprannominati The Big Three, erano arrivati alla corte di Doc Rivers, allenatore capace e stimato, anche veterani del calibro di Eddie House, in una delle migliori incarnazioni della sua camaleontica carriera, e James Posey, che portava in dote l’anello di campione NBA 2006 con Miami.

In più, probabilmente non ancora soddisfatti del già ottimo prodotto confezionato che portavano in giro per le Arene d’America, i Celtics aggiunsero in corso d’opera al roster anche i veterani P.J. Brown e Sam Cassell, con quest’ultimo che nel trasferimento a Boston aveva lasciato nella vecchia soffitta il vestito da Sam “I am”.

Proprio Coach Rivers giocò un ruolo determinante nella costruzione di quella forza motrice che fu in grado di spazzare via uno ad uno tutti gli avversari che gli si pararono sul cammino. Nonostante fosse ritenuto, a torto o ragione, fra i principali responsabili dell’infausta conclusione della stagione precedente, Rivers rinsaldò in breve tempo la propria posizione mettendo a tacere tutti coloro che si erano affacciati alla nuova stagione ansiosi di veder rotolare la sua testa.

Allenatore sagace, rese ben visibili sul campo tutti i frutti del duro lavoro a cui sottoponeva i suoi in allenamento. Ma era soprattutto con le spiccate doti di leadership di cui disponeva che convinceva i propri giocatori a gettare il cuore oltre l’ostacolo.

Aiuta ricordare – anzi mi pare, come minimo, doveroso farlo – che per quanto concerneva la metà campo dietro era coadiuvato da un certo signor Tom Thibodeau, autentico mago della difesa. Il suo complesso sistema di protezione del canestro era come un organismo unico che si muoveva in completa armonia e che iniziava dalle lunghe leve di Rondo in punta e finiva con gli incalzanti tentacoli dell’onnipresente piova nera col numero 5, vero ministro della difesa di Thibodeau e giocatore in grado di controllare tutto ciò che si alzava all’interno dello spazio aereo di sua competenza.

L’arrivo in coppia di Tom e KG riuscì persino a mettere in evidenza capacità difensive fino ad allora a dir poco sopite negli insospettabili Pierce e Allen. E, a pensarci bene, ci si sarebbe forse stupiti del contrario: da ottobre infatti ci si era sintonizzati su radio-Garnett e le trasmissioni sotto forma di urla, commenti e incitamenti vari non accennavano a concludersi.

Boston+Celtics+v+Charlotte+Bobcats+9DJK7i4u0bYlSe Garnett sperdeva le truppe nemiche col grido, accanto a lui, Perkins le scoraggiava col grugno. E proprio la difesa fu la più grande forza dei Celtics durante tutta la stagione. Con la fitta rete di aiuti e la capacità di collassare in area che la caratterizzavano costituì un ostacolo insormontabile per tutti coloro che in quei mesi si presentarono al cospetto dei bianco-verdi con più o meno dichiarate velleità di vittoria finale.

Non per niente riuscirono a contenere in primavera due personaggini della levatura di Lebron James e Kobe Bryant. Il duello di “The Captain and The Truth” con il Prescelto in gara 7 delle semifinali di conference è già stato consegnato agli Annales – chiedere di Tacito per eventuali delucidazioni.

La stoppata sempre del 34 al Mamba in gara 4 di finale, quella decisiva, è finita sui poster attaccati al muro delle camerette di mezzo Massachusetts. Come più volte ebbe modo di ricordare in seguito l’attento Rivers però, fu solo con le 7 gare di primo round dei playoff contro i sorprendenti Atlanta Hawks di coach Woodson che i Celtics, costretti allora a fronteggiare il primo vero ostacolo stagionale dopo una lunga serie di passeggiate in riva al mare, raggiunsero quella consapevolezza necessaria per far compiere loro l’ultimo e decisivo salto, quello verso il successo.

D’altronde Rivers oltre che abile conoscitore di schemi e tattica era anche – ed è tuttora – un accorto motivatore. Ne aveva viste tante, nella sua carriera prima di giocatore e poi di allenatore, di compagini oltremodo incensate a luglio con miriadi di titoloni e prime pagine di giornali, ma che soltanto pochi mesi dopo essersi aggiudicate l’oscar del mercato erano finite nel dimenticatoio, vittime di questo o quell’altro egoismo.

Non per niente il leader carismatico e riconosciuto dei Celtics fin dai primi albori di grandezza del training camp, per l’occasione tenutosi manco a farlo apposta nella Città Eterna, non si esaltava più di tanto per le giocate mirabolanti dei suoi sul parquet di allenamento, nè si faceva impressionare dalle scenette agiografiche di Paul Pierce in mezzo ai centurioni davanti al Colosseo. Cercava quel certo quid in più.

Mirava a trovare una formula che fosse in grado di amalgamare tutti i campioni che si era ritrovato in squadra. E quel qualcosa si palesò sotto forma di una semplice parola, Ubuntu, che così semplice non era tuttavia, perchè racchiudeva in sè un intero mondo di significati. Parola derivante dal lessico dell’etnia Bantu che si estende per tutta l’Africa Subsahariana, assunse ben presto in Sud Africa un forte connotato simbolico in opposizione ad un’altra parola piuttosto diffusa a quelle latitudini: Apartheid.

Tradotta grossolanamente con “Io sono perchè noi siamo”, trasmetteva un messaggio di coesione e di appartenenza in grado di soverchiare ogni afflato di individualismo e, peggio ancora, volontà di separazione. L’idea che ogni componente del gruppo non potesse realizzare in toto le proprie potenzialità se anche ogni altro membro non avesse espresso fino in fondo tutta la propria essenza rappresentava esattamente ciò che Rivers andava cercando per colpire la sensibilità dei propri giocatori.

Estrapolò questo concetto dalle letture estive degli scritti dell’arcivescovo anglicano e attivista sudafricano Desmond Tutu. Così iniziò ad utilizzare tale parola nei discorsi di fine allenamento, durante il soggiorno di Roma, senza peraltro spiegarne alcuna accezione. In mezzo al disorientamento generale, fu Kevin Garnett, spinto dalla classica curiosità ancestrale che caratterizza gli uomini destinati inevitabilmente ad emergere sugli altri, a focalizzare l’attenzione del gruppo sul significato del nuovo concetto.

Da lì in poi divenne lo slogan, il motto, il grido di battaglia.. chiamatelo come volete.. di una squadra veramente votata alla coesione e alla convergenza degli interessi. “One, Two, Three.. Ubuntu!!” gridavano i bianco-verdi raccolti nel classico bercio nel tunnel degli spogliatoi prima della partita. Ad essere sinceri suonava più come un “One, Two, Three.. Ubunciù” per la classica inflessione della voce degli afroamericani.

Mossi da tale spirito di unione, i Celtics fugarono anche i pochi dubbi sollevati all’inizio dell’avventura dagli osservatori più scettici: Perkins può reggere una stagione da centro titolare? Sì.
Rondo è pronto per essere il play titolare di una squadra da titolo? Senza ombra di dubbio!

Per il resto i pezzi del puzzle andavano a posto da soli con Garnett a dirigere il traffico sotto i tabelloni e non solo e Paul Pierce che rispolverava le chiavi dell’attacco, mantenendo il ruolo di prima opzione offensiva ma potendo contare – aggiunta non da poco – sulla mortifera combinazione con Allen, appostato oltre l’arco per 3 punti sicuri. Procedendo quindi a velocità di crociera arrivarono ai playoff.

Superarono, come detto, in 7 partite gli ostici Hawks e fecero lo stesso con i Cavs: sette partite anche qui, quattro vittorie casalinghe e tre sconfitte in trasferta. Parevano incapaci di vincere lontano dalle mura amiche del Garden ma allo stesso tempo sembrava che non ne avessero poi così tanto bisogno visto che l’Arena di Boston era in quei giorni pressochè inespugnabile.

Ma ancora una volta giunse quantomai opportuna la prova di maturità richiesta sotto forma della sconfitta in casa contro i Pistons nella gara 2 delle finali di Conference. Come sempre successe in quell’annata trionfale, i Celtics risposero con forza e personalità anche a questo esame d’appello.Vinsero gara 3 e la serie in 6 partite.

La finalissima contro gli acerrimi rivali dei Los Angeles Lakers era quanto di meglio ci si potesse aspettare dalle parti del Mystic River. L’infortunio di Pierce in gara 1 poi fu la classica trovata dello sceneggiatore per lasciare gli spettatori col fiato sospeso incollati sulla sedia. Il rientro dagli spogliatoi zoppicante e con il ginocchio gonfio infiammò il pubblico bostoniano, le due triple spezza-equilibrio che il 34 mandò a segno appena rientrato poi contribuirono a fare la Storia, quella con la S maiuscola.

Fu una serie di finale costellata da copiosi allunghi e subitanee ma altrettanto cospicue rimonte. La più decisiva quella di gara 4 allo Staples quando la serie era in sostanziale equilibrio sul 2-1 Celtics e, dopo aver messo Double P in marcatura su Kobe Bryant, Boston rientrò per poi vincere la partita dal meno 24.

La panchina dei Lakers, se si eccettua un lampo di Vujacic in gara 3, non fu mai all’altezza di quella degli avversari. I Celtics tennero il controllo delle plance, costrinsero Kobe a operare lontano dal canestro, riducendone l’efficacia e trovarono energie inaspettate (per alcuni) dai vari House, Posey, Powe (21 in gara 2), Brown, Allen (Tony) e Davis.

Garnett vinse la sfida dei Big Men con Pau Gasol e dimostrò a Russell – col quale aveva stabilito una connessione spirituale fin da subito, d’altronde i vincenti si riconoscono a naso – di essere all’altezza di seguire le sue orme. Paul Pierce, dopo tante sofferenze, ebbe il suo momento di gloria a Boston e i Celtics col +39 (che non è il prefisso ma il punteggio…) di gara 6 appesero al soffitto il banner numero 17, conquistato il 17 giugno del 2008, a ben 22 anni di distanza dall’ultimo.

 

4 thoughts on “From Zero to Hero: i Celtics del 2008 fanno 17!

  1. beh la qualità di questo articolo ( e dei precenti) ti renderebbe degno, a mio modesto avviso, di scrivere per le maggiori riviste di basket italiane. Vista la loro scomparsa direi che la Gazzetta potrebbe avere bisogno di una penna così brillante. Talvolta a leggere i loro articoli copiati e per nulla originali viene la nausea.

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