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Lionel Hollins, Maurice Lucas, Jack Ramsey, Dave Twardzik e Bill Walton

Per raccontare la stagione 1976-77 dei Portland Trail Blazers si dovrebbe, come minimo, scomodare qualche penna autorevole. Personalmente non mi posso certo definire all’altezza di un così alto incarico. Suggerirei un Nick Hornby per l’occasione. Per la sua capacità di raccontare la passione sportiva all’interno di una narrazione fluida e ritmata. E di passione in questa storia ce n’è a iosa.

Ma anche l’autore inglese non sarebbe abbastanza. Bisognerebbe allora riesumare direttamente dal passato qualche artefice di poemi cavallereschi o di racconti fantastici.. qualcuno del calibro di Ludovico Ariosto ecco… capace di intrecciare armonicamente il motivo epico, quello legato all’intimità dei personaggi della vicenda e il filone encomiastico e celebrativo. Solo così infatti si potrebbe cogliere l’intero ventaglio di sfaccettature che caratterizzarono quel capitolo irripetibile della storia NBA, conosciuto anche con il nome di Blazermania.

Per fortuna il mio compito si limita in questo frangente alla mera analisi di quella trasformazione fulminea che portò i Blazers da essere una squadra materasso della Pacific Division ad alzare il trofeo di campioni NBA nell’arco di una sola stagione. Mica facile, anche questo. Però non è l’Orlando Furioso ed è già qualcosa. Senza considerare che la magia di quell’annata è talmente contagiosa che non posso indugiare oltre.

I Portland Trail Blazers fecero la loro comparsa sul luccicante palcoscenico NBA nella stagione 1970-71, assieme ad altre due franchigie di espansione: i Cleveland Cavs e i Buffalo Braves, che a fine anni ’70 saranno trasferiti a San Diego per poi cambiare ancora e divenire infne gli odierni Los Angeles Clippers.

Come tutte le squadre di nuova creazione faticavano – e molto – nei primi anni di militanza nella lega, nonostante il ridotto numero di partecipanti al campionato (rispetto ad oggi) favorisse comunque una maggiore concentrazione del talento in circolazione nelle poche compagini presenti. Nelle prime 6 stagioni non riuscirono mai ad andare oltre le 38 doppievù e, di conseguenza, lo spartiacque classico del 50% di vittorie restò soltanto un miraggio, da osservare da lontano, col binocolo.

Nella stagione 1975-76, quella da cui parte la nostra narrazione, chiusero il campionato col record di 37-45, fuori dalla griglia playoff e all’ultimo posto della comunque competitiva Pacific Division, che vantava fra i suoi interpreti più conosciuti gente come Rick Barry e Kareem Abdul-Jabbar, per dirne solo alcuni.

Sorte diversa sarebbe toccata loro se avessero giocato anche solo nella Midwest Division, sempre ad Ovest, dove Bucks e Pistons si qualificarono per il primo round della post season nonostante record finali ampiamente in passivo. Tanto per cambiare si aggiudicarono il titolo i Boston Celtics di Cowens, Havlicek e Jo Jo White, che nella decisiva gara 5 di finale – passata alla storia come the greatest game ever – finita al terzo overtime combinarono per 81 punti. Miglior giocatore dell’anno, manco a dirlo, Kareem “The Big Fella”.

Nell’estate successiva però Portland si concesse un leggerissimo lifting. Nella città delle rose approdarono ben 7 nuovi giocatori e si registrarono almeno altri due cambiamenti all’interno del coaching staff, non necessariamente di secondo piano visto che l’ultimo occupante dell’ufficio di capo-allenatore al Memorial Coliseum, Lenny Wilkens, fu costretto ad inscatolare armi e bagagli per far posto agli effetti personali di Jack Ramsay.

Il nuovo coach, reduce da 8 stagioni, quasi tutte buone, equamente suddivise fra le panchine di Philadelphia – dov’è nato – e Buffalo, faceva dell’intensità difensiva e della disciplina in allenamento i suoi cavalli di battaglia. Prediligeva la pressione a tutto campo e la ricerca quasi ossessiva dell’uomo libero in attacco. Forse proprio per questo nell’infuocata offseason di quell’anno fu attratto fatalmente dall’altruismo insito nel gioco di Walton.

Allenatore esigente sul campo, non lesinava commenti pungenti alla stampa. Tutt’altro che banali, le sue argomentazioni, come spesso succede in questi casi, il più delle volte rischiavano di sembrare irriverenti. Una volta disse a un cronista che gli chiedeva del famoso Celtics Pride: “Non significa niente per me. Non senti dire niente sul Celtics Pride quando in squadra hanno Sidney Wicks e Curtis Rowe e vincono solo 32 partite in un anno.”

L’ostinazione che mostrava nel portare avanti le sue idee di basket era pari solo alla perseveranza che aveva nell’indossare giacche improbabili e pantaloni sgargianti. Il buon Craig Sager al confronto sarebbe impallidito. Era solito seguire i momenti salienti della partita appoggiato su un ginocchio, aggrottando le folte e nere sopracciglia, quelle sì per niente a la page. Appena sedutosi sul pino dei Blazers si convinse che una squadra tendenzialmente lenta fino a quel momento potesse alzare decisamente i ritmi per veder applicati sul campo i suoi concetti di gioco.

Senza il minimo dubbio però l’evento più determinante dell’estate – secondo per importanza solo alla missione Viking con cui gli americani fecero atterrare le prime sonde automatiche, Viking I e II per l’appunto, sul pianeta rosso Marte – fu il Dispersal Draft della ABA, che si tenne il 5 agosto del 1976.

L’American Basketball Association – la lega ribelle – infatti era in crisi. Dopo soli 9 anni di attività gli ascolti delle partite stavano calando a picco, i conti delle franchigie erano stabilmente in rosso e nel corso dell’ultima stagione erano rimaste solo 7 squadre a giocarsi il campionato. Venne raggiunto quindi un accordo per compiere una fusione.

La NBA preferì parlare di espansione ed ammise fra i propri ranghi le squadre di Denver, Indiana, San Antonio e New York (Nets). Persino i Kentucky Colonels, che avevano vinto solamente 2 anni prima, furono costretti a scomparire con buona pace della stella Artis Gilmore, surrogato ABA del “National” Kareem e al quale piaceva tanto giocare a Louisville .

Ad ognuno dei giocatori ABA rimasti senza squadra venne quindi assegnato un prezzo, per permettere alla lega ormai defunta di ripagare i debiti che aveva contratto e ottenere con ciò una sepoltura dignitosa. Così Gilmore costava 1.100.000 $, Marvin Barnes 500.000 $, Moses Malone 350.000, e Maurice Lucas veniva via con 300.000. Gli altri a seguire.

Potevano partecipare tutte le franchigie della nuova NBA alla grande abbuffata ma ben 12 delle 22 totali scelsero di non prendervi parte. Non così i Blazers, che trassero nuova linfa da tale beneficiata. Presero alla 2 Maurice Lucas e 3 posizioni più tardi Moses Malone. Erano talmente in esubero di personale sotto le plance che cedettero immediatamente Big Mo a Buffalo in cambio di una prima scelta futura, senza troppi tentennamenti.

Affidarono invece lo spot di play titolare a Dave Twardzik, capelli rossicci e fattezze da colletto bianco, in arrivo dai Virginia Squires. Questi era fatto con lo stampino per giocare nel sistema di Ramsay che si fondava su movimento della palla, altruismo e pressione difensiva. Non a caso veniva chiamato flipper.

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Bill Walton e Maurice Lucas

Dicevamo però dell’importanza del Dispersal Draft che si tenne quell’estate. E la più lieta delle notizie per i nostri dell’Oregon fu senza dubbio l’ingaggio di Maurice Lucas. Per avere la possibilità di scegliere per secondi i Blazers impacchettarono il loro miglior giocatore delle stagioni precedenti, la guardia tiratrice da Princeton Geoff Petrie, e Steve Hawes e li spedirono a visitare la sede originaria della coca cola ad Atlanta.

Considerato una delle primissime ali forti dominanti che si siano viste sul parquet, Lucas andò a formare con Walton una coppia di Bronzi di Riace del pitturato che sembravano usciti direttamente dalla storiella del poliziotto buono – poliziotto cattivo.

Lascio immaginare chi fosse quello cattivo dal momento che il nuovo arrivato fu presto conosciuto nell’ambiente come “The Enforcer “, il sicario, nonostante la moglie non perdesse occasione per osteggiare tale nomignolo, asserendo che non rendesse il giusto merito alla nobiltà d’animo e alla generosità dell’uomo da Pittsburgh.

Nell’anno del titolo si assestò sui 20,2 punti e 11,4 rimbalzi di media. Restò soltanto 3 anni e mezzo nei Blazers ma tanto gli bastò per iscrivere il suo nome a caratteri cubitali nel cuore dei tifosi della franchigia dell’Oregon. Lungo fisico in grado di attaccare l’area con impeto, era però col tiro dalla media che mandava ai pazzi i malcapitati difensori.

La sua tecnica di tiro era tale da permettergli di lasciar partire lo spalding anche da distanze ragguardevoli – con i piedi per terra o dal palleggio faceva poca differenza. Ottimo rimbalzista nel traffico, rappresentava per i suoi un esempio di intensità e durezza mentale. Non impiegò molto per divenire il cuore dello spogliatoio.

Appena arrivato in città da St. Louis, portò Walton e Herm Gilliam, fresco di approdo da Seattle, da Jake’s sulla Dodicesima Avenue per affinare l’intesa coi compagni a tavola davanti a un ottimo granchio di Dungeness. Finita la cena, quando ormai si trovavano in strada, Lucas fece cenno a Walton di dargli la mano, l’afferrò, guardò dritto nella sua anima e disse: “Vinceremo. Quest’anno vinceremo. Vinceremo il titolo. Ora!” Ipse dixit.

Le altre novità di rilievo del roster per la stagione del pronto riscatto vennero tutte dal draft di quell’anno (questa volta classico e non dispersal). Alla lotteria Portland si assicurò le prestazioni di Wally Walker, del lungo di riserva Robin Jones ma soprattutto di Johnny Davis, play-guardia da Dayton capace di accelerazioni mozzafiato e autentico animale da transizione.

Quest’ultimo prese il posto in quitetto dell’infortunato Twardzik in gara 6 delle semifinali della Western contro Denver, fece scrivere 25 al povero scout di turno sotto la casella dei punti e da lì in poi non abbandonò più il teatro delle operazioni. Ripensando a quell’estate movimentata il sopracitato Dave Twardzik affermò tempo dopo: “Una stagione da titolo nasce come un’idea, un atto di fede. E’ qualcosa che riesci solo a immaginare… Alcuni di noi venivano dalla ABA, altri dal college, altri ancora recuperavano da infortuni e quasi tutti avevamo qualcosa da dimostrare.”

Chi veniva da stagioni piuttosto tormentate a livello fisico era certamente Bill Walton. 35 partite giocate nell’anno da rookie, 51 nell’annus horribilis 1975-76. Era dato in buona salute ai nastri di partenza ed infatti durante la stagione saltò “solamente” 17 partite (12 delle quali perse).

bill-waltonDi lui sappiamo ovviamente tutto. Devastante al college a UCLA con 2 titoli NCAA all’attivo, 3 premi come miglior giocatore dell’anno e una striscia di 88 partite vinte consecutivamente. Ormai è arcinota anche la storiella del suo reclutamento, quando Denny Crum, assistente di coach Wooden a UCLA, andò a visionarlo, anche se solo per scrupolo, a Helix in La Mesa – San Diego – e, una volta tornato all’ovile, disse al capo di aver appena visto il giocatore di High School più forte mai apparso su un campo di basket.

Allora lo storico allenatore dell’Università della California rispose in tutta tranquillità: “Denny.. non dire mai più una stupidaggine del genere. Ti fa sembrare un idiota affermare che uno coi capelli rossi e che gioca a San Diego per giunta sia il miglior high schooler che tu abbia mai visto. Innanzitutto non c’è mai stato un prospetto decente per i Major College che sia venuto da San Diego, lascia stare…”

Così come sono entrate stabilmente nell’immaginario collettivo le tendenze anticonformiste di Bill, il suo amore per l’insalata e per i Grateful Dead. Senza considerare che dopo aver diretto Frost/Nixon – il duello, Ron Howard sta ancora pensando a come trasporre in salsa hollywoodiana le critiche che Walton rivolse all’impeach-ciato presidente USA e all’FBI per la Guerra del Vietnam.

Vedendolo allenarsi nell’estate del 1976 pareva che si preparasse per battagliare con Freddy Maertens alla crono individuale del Tour de France, tanto era il tempo che passava in bicicletta. Quando poi non era impegnato a insegnare i fondamentali del gioco ai giovani Indiani d’America della riserva di Warm Springs, nell’Oregon centro-settentrionale, si faceva apprezzare anche per le grandi giocate sui parquet dell’NBA.

Presenza difensiva costante, si muoveva con tempismo perfetto andando a stoppare in aiuto gli increduli avversari che, battuto il difensore, pensavano ingenuamente di avere via libera verso il canestro. In attacco poteva segnare e soprattutto far segnare i compagni in molti modi data la tecnica sopraffina, di gran lunga superiore alla media per uno della sua stazza.

Ma a far letteralmente impazzire i suoi allenatori erano l’intelligenza tattica e l’altruismo spiccato. Non per niente Jack Ramsay, dopo la prestazione del suo numero 32 da 20 punti, 23 rimbalzi, 7 assist e 8 stoppate con cui si mise definitivamente al dito l’anello di campione nella decisiva gara 6 della finale NBA di quell’anno, vinta 109-107 sui Sixers, disse di lui: “Non ho mai allenato un giocatore migliore, non ne ho mai allenato uno più competitivo nè una persona migliore di Bill Walton.”

Per il resto, la squadra del destino, come fu più volte denominata, era composta da tutta una serie di giocatori solidi, giudicati funzionali all’up-tempo progettato dal nuovo staff e che i Blazers avevano selezionato al draft degli anni precedenti: la guardia-ala bianca e versatile Larry Steele nel 1971, il lungo grintoso Lloyd Neal nel 1972, ma soprattutto Lionel Hollins e Bob Gross nella lotteria del 1975.

A detta di Walton, l’ala piccola titolare Gross rappresentava uno di quei rari esempi di giocatore dotato dell’innata capacità di muoversi senza palla, farsi trovare libero per un tiro e scaricare eventualmente su un compagno ancora più libero nel caso fosse accorso in recupero un difensore. Superlativo quando agli inizi di giugno del ’77 si decideva il titolo e lui si prendeva la libertà di inanellare agevolmente due performance consecutive da 25 e 24 punti, rispettivamente nelle gare numero 5 e 6 della serie finale.

L’eccentrico speaker storico di Portland, Bill Schonely detto “The Schonz”, in quei mesi prese in prestito dal golf lo slogan – divenuto poi frase di culto in città insieme a tutti gli altri modi dire da lui coniati – “Bingo, Bango, Bongo!” per riferirsi ad un’azione che tendeva a ripetersi spesso dalle parti del Memorial Coliseum.

Con lo stesso automatismo con cui un golfista prende la pallina, la colloca sul green e la colpisce con la mazza infatti, Gross rimetteva dal fondo per Twardzik, scientemente appostato in mezzo all’area, il quale a sua volta serviva sotto canestro Lucas per un facile appoggio. Bingo, Bango, Bongo.

Lionel Hollins invece, che tutti quanti abbiamo ben presente in giacca e cravatta al timone dei sorprendenti Grizzlies nell’edizione dei playoff di quest’anno, quando indossava i pantaloncini rosso-neri operava stabilmente nel backcourt titolare dei Blazers e bombardava inesorabilmente da fuori con la mano mancina.

La prontezza nel cercarsi spazi sul perimetro – che perimetro non era vista l’assenza del tiro da 3 – e la rapidità di tiro con cui convertiva in due punti gli scarichi di Lucas e Walton erano alla base della motion offense di Ramsay. Dopo una vittoria sui Sixers in regular season – squadra di singoli che ogni domenica apparivano sulla televisione nazionale – disse: “Sentivamo come se potessimo correre per sempre.” Ah, dimenticavo.. era soprannominato Train.

A testimoniare l’irripetibilità di certi momenti sportivi, si rende noto che la franchigia dell’Oregon ha poi ritirato la maglia di ben 7 giocatori di quella indimenticabile squadra. Che fosse un’annata favorevole – one of those season – si poteva evincere fin dalle primissime fatiche pre-stagionali. Tanto sudore lasciato sul campo di allenamento non si era mai visto.

A forza di correre, dentro le canotte dei Blazers si sentiva quasi lo sfregare delle ossa. Proprio come voleva la filosofia del coach, la palla non toccava mai terra. Nonostante sedute durissime sul parquet e fuori, era tanta la voglia di sacrificarsi per il compagno. Ognuno si sentiva parte di un qualcosa di più grande e importante. C’era una connessione particolare fra i giocatori all’interno dello spogliatoio.

Walton ricorda: “Da un giorno all’altro eravamo tutto un altro tipo di squadra. Era quasi come se non avessimo niente a che fare con ciò che eravamo stati in precedenza.” Per lui in particolare si trattava di un nuovo inizio. Nonostante tali e incoraggianti presupposti, la stagione regolare non fu così straordinaria come ci si poteva aspettare.

Tuttavia trascorse abbastanza liscia, anche se la squadra mostrava una preoccupante riluttanza a vincere in trasferta, come del resto quasi tutte le avversarie più accreditate. 49 vittorie e 33 sconfitte alla fine, secondo posto nella Pacific Division dietro ai Lakers e testa di serie numero 3 a Ovest. Fu però nella post season che i Trail Blazers del ’77 scrissero le pagine più belle della loro epopea.

Al primo turno si sbarazzarono dei Bulls guidati dalla stella ex-ABA Artis Gilmore, non senza qualche difficoltà. Da lì in avanti giocarono le restanti serie con lo svantaggio del fattore campo, il che rende più appassionante la cavalcata di cui si resero protagonisti.

Eliminarono in semifinale di Conference i Nuggets della temibile coppia Issel-Thompson, vincendo in gara 1 a Denver e non voltandosi più indietro. Nel pieno della corsa playoff, in un clima divenuto ormai estatico, era anche scoppiata definitivamente la cosiddetta Blazermania.

Nell’immaginario collettivo c’erano tutti gli ingredienti del più classico dei Davide contro Golia nella sfida della modesta città di Portland (circa 300.000 abitanti all’epoca), apprezzata fin lì per l’annuale festival delle rose e la moltitudine di piccoli birrifici indipendenti della zona, alle grandi metropoli del basket come Los Angeles o Philadelphia, che con la loro tradizione attiravano i giocatori più spettacolari del paese.

Così, con gli abitanti della città indissolubilmente identificati con la squadra di basket, si assisteva di continuo a scene a dir poco folcloristiche. Orde di fan imperterriti al seguito di Bill Walton che da buon ecologista prendeva la bici per andare da casa al palazzetto dello sport. Tifosi esaltati che regalavano fiori e biscotti ai giocatori ogni volta che vi si imbattevano per strada. Una serie indefinita di sell-out al Memorial Coliseum quando si giocava fra le mura amiche e parcheggi dell’aeroporto di Portland sempre stracolmi di auto piene di supporter in trepidante attesa del ritorno dei propri beniamini dalle insidiose trasferte.

In finale di Conference della Western, forse sospinti da tanta fiducia e ammirazione, i Blazers si fecero beffe dei più rinomati Lakers spazzandoli via con un cappotto e condannando la superstar Abdul-Jabbar a prenotare le vacanze anticipatamente. Per testimoniare il grande equilibrio che regnava in squadra in fatto di distribuzioni di tiri e responsabilità, in gara 2 a Los Angeles, nella partita più tirata, Portland recuperò un passivo di 11 punti, grazie a 20 dei complessivi 24 punti siglati nel secondo tempo da quell’Herm Gilliam che non primeggiava certo nel computo totale dei minuti giocati dai suoi in stagione.

In finale trovarono poi i quotatissimi Philadelphia 76ers del nuovo astro del firmamento NBA, Julius Winfield Erving II. Oltre allo strabiliante Doctor J, arrivato dai New York Nets, i Sixers avevano tratto vantaggio dalla caduta in disgrazia della ABA aggiungendo al roster il realizzatore e rimbalzista George McGinnis nel ’75 e il centro titolare Caldwell Jones nel ’76. A completare il quintetto Henry Bibby, il padre di Mike, e Doug Collins, poi coach dei Bulls pre- primo three-peat e di Philadelphia fino allo scorso aprile.

Dalla panchina World B. Free, ex leggenda dei playground di Brooklyn e antesignano pacifista dell’odierno Metta World Peace, e un altro padre illustre, Joe Jellybean Bryant, che nel giro di pochi mesi avrebbe concepito niente-di-meno-che il nostro Black Mamba. Così addirittura la metà dei 10 starters delle NBA Finals avevano trascorsi ABA.

In più fra le fila dei Sixers, piuttosto defilato a dire il vero, c’era quel Jimmy Barnett che era stato l’artefice del famoso tiro scoccato appena superata la metà campo in un Blazers-Lakers del 1970 che aveva fatto gridare per la prima volta allo speaker Schonz: “Rip City, all right!” Formula coniata probabilmente per simboleggiare che col canestro aveva stracciato la retina, divenne una specie di tratto distintivo con cui la città tutta si identificava con i campioni del basket.

PortlandPhilly_display_imagePortland perse gara 1 (34 palle perse!) e gara 2 a Philadelphia (con fronteggiamento finale fra Lucas e Dawkins degno del più celebre Thrilla in Manila fra Alì e Frazier di quasi due anni prima). Forse proprio la scossa derivata dalle scaramucce della partita precedente fece ritrovare ai Blazers lo smalto e soprattutto la cattiveria dei tempi migliori e nelle successive due gare casalinghe seppellirono gli avversari rispettivamente sotto 22 e 32 punti di differenza.

Hollins ne fece 25 nel quarto episodio e Lucas 24. Ribaltarono poi il fattore campo nella 5, con Bob Gross che rispose colpo su colpo a un ispirato Erving da 37 punti. Chiusero il discorso nell’ultima partita al Memorial Coliseum nonostante il quarantello del – questa volta – monumentale Doctor J.

Tre errori in fila al tiro negli ultimi 16 secondi sul 109-107 Portland per Erving, World B. Free e McGinnis, rimbalzo e fuga per la vittoria di Johnny Davis. Game, Set and Match.

Larry O’brien Trophy nella Rip City, grande bagno di folla per la parata dei Blazers in un soleggiato pomeriggio di giugno del ’77 in Southwest Broadway e titoli di coda che scorrono con Ramsay che chiosa: “Ho avuto la possibilità di allenare una squadra che poteva battere ogni altra squadra al mondo, e questa è la più grande soddisfazione della mia vita.”

Come diceva Balzac: altra materia da romanzo.

 

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