Durant e Anthony: i 2 migliori realizzatori puri della NBA contemporanea

Durant e Anthony: i 2 migliori realizzatori puri della NBA contemporanea

Nei meravigliosi anni ’80, gli anni della rivalità Larry vs Magic e dell’esplosione del nuovo fenomeno in casacca Bulls che avrebbe cambiato per sempre la storia del gioco, soltanto in una occasione il vincitore della classifica marcatori NBA aveva concluso la stagione con meno di trenta punti a partita (per precisione il grande Nuggets Alex English nel 1983 con 28,4 di media).

Iceman Gervin per due volte, Dantley per altrettante, Dominique Wilkins e Bernard King una volta ciascuno e ovviamente Jordan per ben tre volte consecutive (con una ulteriore coda di sette titoli nel leggendario decennio successivo) avevano scollinato i trenta punti con continuità.

Il decennio degli anni ’90 fa notare già qualche mutamento in divenire: i vincitori con una media inferiore al trentello sono addirittura cinque (Robinson, O’Neal, Iverson con la clamorosamente bassa media di 26,8 punti ad incontro e infine per due volte sua maestà MJ in occasione degli ultimi due titoli del secondo threepeat) ed anche le medie dei rivali per vincere questa ambita classifica appaiono in calo rispetto ai decenni passati; segno evidente che qualcosa nel gioco stava cambiando, pur se lentamente.

Gli anni 2000 sino ad ora hanno evidenziato una discreta stabilità ai piani alti delle classifiche marcatori rispetto ai dati degli anni ’90, anche se è interessante notare un drastico calo dei giocatori in grado di superare i venticinque punti ad allacciata di scarpe, ed addirittura una brusca frenata per quanto riguardo i cosiddetti “ventellisti”.

In tredici stagioni sono state cinque le occasioni in cui il vincitore della classifica cannonieri si è attestato sotto i trenta punti di media, di cui le ultime tre stagioni consecutivamente al di sotto di tale soglia con le due vittorie di Kevin Durant (medie di 27,7 e 28 punti) e l’ultima di Carmelo Anthony (media di 28,7); ed è proprio degli ultimissimi anni il fenomeno riguardante una, per certi versi, preoccupante “moria” di giocatori stabilmente sopra i venti o venticinque punti a partita.

L’ultima stagione di livello eccellente dal punto di vista dei realizzatori puri è stata quella del 2005/2006 con la clamorosa vittoria di Bryant alla fantascientifica media di 35, 4 punti e con tutti i primi dieci giocatori della classifica al di sopra dei venticinque punti a partita (e persino i primi ventitre sopra il ventello di media!); la classica eccezione in un quadro dalle tinte un po’ diverse.

Quali i motivi di questa inversione di tendenza rispetto ai decenni precedenti?

Eppure le difese degli anni ’90 e soprattutto ’80 (qualcuno ricorda i Bad Boys di Detroit oppure il sistema difensivo perfetto dei Bulls dell’era Jordan?) secondo la quasi totalità degli addetti ai lavori erano ben più fisiche e dure rispetto a quelle odierne.

Oggi i puristi del gioco criticano la scarsa tendenza alla creazione di sistemi difensivi rodati e studiati nei minimi dettagli – anche se le eccezioni, alla voce Thibodeu o Popovich, ci sono eccome – e la contraria ricerca di specialisti adibiti a coprire proprio la mancanza di un reale meccanismo di squadra: Tyson Chandler, Shumpert e il neo arrivato Metta ai Knicks vanno letti proprio in quest’ottica, ottimi specialisti della difesa in un meccanismo di squadra farraginoso o assente.

Tornando alla domanda precedente, perché gli attaccanti in questo contesto, apparentemente più favorevole rispetto al passato, sembrano invece faticare maggiormente a trovare la via del canestro?

1. L’introduzione della difesa a zona di matrice europea nella NBA ha comportato una mini-rivoluzione – ancora in atto – per gli attacchi e le difese della lega, alle prese con un nuovo modo di poter interpretare le due fasi di gioco.

Introdotta, tra le polemiche, soltanto nel 2002 (prima la mancata marcatura a uomo da parte di un difensore veniva punita con un fallo tecnico), e comunque in parte limitata dalla regola dei tre secondi difensivi, la difesa a zona ha certamente contribuito ad alleggerire la pressione “fisica” in diverse circostanze sugli attaccanti, ma d’altra parte ha migliorato l’efficienza difensiva complessiva (lo provano le statistiche degli analisti di ESPN) delle squadre che riescono ad utilizzarla al meglio (gli allenatori della vecchia scuola sono ancora piuttosto restii ad applicarla).

La zona per essere affrontata con successo richiede capacità di lettura tattica in misura maggiore di quella classica a uomo, perciò spesso gli attaccanti NBA, solitamente giocatori dall’atletismo selvaggio e dal talento un po’ anarchico, si trovano in difficoltà perché non possono attaccare il canestro nel loro modo abituale.

Una delle armi classiche per attaccare la zona è il tiro da tre (come ha ben dimostrato Team USA nelle vincenti spedizioni mondiali ed olimpiche degli ultimi anni), e tra i migliori attaccanti della NBA oggi si annoverano mani roventi dall’arco come quelle di Anthony, Durant, Harden, Bryant e anche il migliorato James dell’ultima stagione; tuttavia le squadre che si sono basate sul tiro da tre (i Magic di Howard o gli stessi Knicks di quest’anno) hanno fallito inequivocabilmente.

Quindi sembra chiaro che difesa a zona alternata alla classica difesa a uomo a seconda delle esigenze hanno creato un volume difensivo più complesso da affrontare rispetto a venti o trenta anni fa, sebbene le difese anni ’80 e ’90 conservino un alone leggendario difficile da scalfire.

2. Una motivazione connessa alla precedente riguarda l’europeizzazione della lega, ormai popolata da moltissimi giocatori provenienti dai migliori campionati europei, abituati ai rigidi sistemi difensivi lì vigenti e più disciplinati degli americani. La loro presenza (tra gli anni ’90 e gli anni 2000 la crescita è stata verticale ed oggi non sono affatto rare le scelte alte di europei (o comunque stranieri) nelle notti del draft) ha certamente contribuito alla crescita tattica delle squadre NBA, all’apprendimento più veloce dei meccanismi della zona e ad uno scambio osmotico di conoscenze diverse nel contatto tra americani ed europei. Noah, Kirilenko e pure i nostri Gallinari e Belinelli rappresentano esempi limpidi di giocatori di scuola europea che divengono indispensabili per aumentare la qualità della difesa delle loro squadre.

3. Influisce sicuramente anche la lunghezza massacrante della stagione: 82 partite, back to back, viaggi da una parte all’altra degli Stati Uniti ed infortuni sempre dietro l’angolo (l’ultima stagione è stata una autentica ecatombe) non favoriscono intensità sempre al massimo e volontà di raccogliere bottini leggendari (non è un caso se i viaggi sopra quota 50 siano sempre più rari). [NDR: negli anni ’80, benchè la stagione fosse già di 82 partite e le difese fisiche più tollerate dagli arbitri, la regular season aveva una intensità media difensiva molto molto più bassa di quella attuale. All’Ovest in particolare non era inusuale vedere terminare le partite con entrambe le squadre oltre i 110-120 punti, con difese che oggi definiremmo “allegrissime”. Era anche proprio una moda di quegli anni, giocare a chi segnava di più e non a prenderne di meno].

Quindi molte volte sono gli stessi giocatori ad “accontentarsi” se la partita lo permette, a non forzare ancora per ulteriori traguardi statistici, oppure sono gli allenatori a preservare le loro stelle e a privarle del garbage time per arrotondare il bottino finale.

4. Un’ultima motivazione può essere scoperta analizzando il livello medio degli attaccanti puri nella NBA degli ultimi anni: esistono ancora ed esisteranno – fa parte della storia di qualunque disciplina sportiva – sempre i fuoriclasse assoluti, coloro che vengono dotati da madre natura d un talento unico e sopraffino, rispondono ai nomi di Bryant, Anthony e Durant (potrei citare ovviamente anche James e Wade, ma non appartengono completamente alla categoria degli attaccanti puri).

Esistono pure prospetti di fuoriclasse pronti a spiccare il volo definitivo come Harden, Curry, Irving e Westbrook; oppure i campioni assoluti reduci da infortuni gravi come Rose o vecchi campioni in grado ancora di dare spettacolo come Nowitzki.

Tuttavia, a ben vedere, tralasciando i sopracitati, ultimamente manca una batteria ulteriore di attaccanti in grado di veleggiare sempre tra i venti ed i venticinque punti, magari non fenomeni assoluti, ma talenti veri in grado di segnare da tutte le posizioni, insomma i prototipi degli attaccanti NBA. Ci sarebbero forse Ellis (in calo clamoroso nell’ultima annata), Aldridge e Brook Lopez (comunque non realizzatori puri), il giovane Lillard, i dispersi Eric Gordon e Love o i vecchietti Paul Pierce e Joe Johnson; ma si tratta di giocatori che per un motivo o per l’altro non garantiscono costantemente tabellini ben al di sopra dei venti punti a partita.

Dieci o anche solamente cinque anni fa l’orizzonte dei realizzatori era ben differente: Kobe, Iverson, Mc Grady, Carter, Pierce, Allen, Nowitzki appartenevano alla categoria fuoriclasse dell’attacco, raggiunti negli anni da James, Anthony, Wade e Durant; però alla categoria dei 20/25 or more appartenevano numerosissimi altri (Stoudemire, Marbury, Baron Davis, Stojakovic, Arenas, Redd, Garnett, Duncan, il Bosh dei Raptors e diversi altri “minori”) ed è proprio questo a fare la differenza, perché oggi mancano questo tipo di giocatori.

Lopez, Lillard, Gay, DeRozan, Griffin, Jennings, Lee ecc… non valgono i nomi citati sopra, e la mancanza di pistoleri doc si fa sentire, non solo nei tabellini e nelle statistiche.

Quindi non è tutto “merito” della difesa a zona o della fatica immane di dover giocare 82 partite più gli eventuali play off: forse, anzi, è molto probabile che la lega difetti di talento puro offensivo rispetto agli anni e ai decenni passati.

2 thoughts on “Focus: la crisi dei realizzatori nella NBA

  1. Bell’articolo, però ve prego: Nowitzki con la “i”, non con la “y”.

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