20130729-235413.jpgC’era una volta Joe Dumars. Il Gm demiurgo dei Detroit Pistons campioni NBA 2004, finalisti a gara 7 nel 2005. Quelli del quintetto da ripetere a memoria, come l’undici dell’Italia nell’82: Billups – Hamilton – Prince- Rasheed – Big Ben. Di coach Larry Brown. Del basket giocato “in the right way”.

Deeee-trooooit-basketbaaaaal: per anni, insomma, l’omologo dei San Antonio Spurs a est del Mississippi.

Poi il tempo fa il suo corso, i giocatori invecchiano, le altre squadre migliorano: arrivano i Celtics dei Big Three, LeBron James comincia a impossessarsi della Lega, e la squadra perde i pezzi.

Se ne vanno Billups e Rasheed per primi. Ben Wallace saluterĂ  per poi ritornare. Via anche Hamilton e poi Prince.

Ma prima l’estate 2009. Quella che cambia la percezione di Dumars nella Lega. Un’estate con spazio salariale importante per rimettere a punto la squadra e mantenerla competitiva ad alti livelli. Arrivano Ben Gordon e Charlie Villanueva. Buio.

Solo per citare una statistica, i Pistons sono l’unica squadra NBA ad essere stata negli ultimi 4 anni sempre tra le 15 peggiori sia per efficienza offensiva che difensiva.

La squadra è un disastro. Arrivano stagioni perdenti in fila e tante palline alla lottery (sfruttate neanche malaccio). Il popolo, che prima affollava il Palace, fugge. Dumars ora è quello a cui non vuoi dare spazio salariale da spendere. Che è quello che i Pistons avevano quest’estate. Ed è stato investito su Josh Smith, già ribattezzata come la peggior firma di questa free agency.

4 anni di contratto. 56 milioni di dollari. Occorre quindi cercare un attimo di fare il punto della situazione per capire le motivazioni di entrambe le parti in questo matrimonio che pareva non s’avesse da fare.

PERCHE’ JOE DUMARS HA VOLUTO JOSH SMITH

Quando parli di Josh Smith, parli del classico giocatore che o ami o odi. Resti abbacinato dalle cose che sa fare, ti cadono le braccia per le sue mancanze. L’atletismo fuori dal comune, anche per gli standard NBA, la visione di gioco e la presenza difensiva, il tutto su di un fisico eccellente, per altezza e stazza, si scontrano principalmente con le manchevolezze a livello mentale.

Non è un caso che i tifosi di Atlanta abbiano visto il meglio del suo repertorio due stagioni fa, quando si è deciso a mettere in soffitta il jumper dalla distanza per privilegiare le conclusioni al ferro. Non che il tiro gli manchi, può segnarlo specie se entra in striscia, ma è molto altalenante (sotto il 35% dalla media quest’anno) e, per di più, spesso è conseguenza di situazioni dove ferma la palla e con lei l’attacco.

Quando, invece, l’idea è quella di aggredire il ferro, allora la sua utilità aumenta esponenzialmente. Ha capacità di attaccare dal palleggio, e nel pitturato con le sue gambe fa la differenza.

Prima “red flag” dunque sul giocatore: non pare l’identikit perfetto del soggetto cui dare 14 milioni all’anno, a maggior ragione considerando tutta la querelle messa in piedi nell’ultima stagione per lasciare gli Hawks, che racconta di un giocatore non esattamente stabile dal punto di vista emotivo.

Seconda “red flag”: è (a meno di clamorose smentite) assolutamente incompatibile per coesistere con i due giocatori principali di questi Pistons, Monroe e Drummond. Entrambi, infatti, prediligono il gioco nei pressi del canestro, Drummond per mancanza di altri fondamentali, al momento, Monroe per una propria propensione (è il giocatore che più di tutti ha preso tiri al ferro in NBA, pur convertendoli con una percentuale non esaltante). Pertanto, un terzo atleta che dà il meglio di se laddove l’area è colorata non si vede come possa integrarsi.

Aggiungiamo pure a tutto questo che gli esterni attorno non si distinguono certo per le capacità di tiro, eccezion fatta per Chauncey Billups e senza sapere quello che potrà essere l’impatto del nostro Datome.

Knight ha sì migliorato le proprie percentuali, ma non è ancora troppo affidabile, Stuckey è costantemente bersaglio di “battezzi” imbarazzanti da parte degli avversari, Singler ha avuto il 35% in stagione da 3 e il rookie Caldwell-Pope ha appena concluso le Summer League con un poco rassicurante 22%.

Il risultato è che una squadra che vorrebbe attaccare il ferro probabilmente troverà sempre difese che potranno chiudersi e intasare l’area senza pagare troppo dazio in termini di tiro da fuori concesso. Quindi, sul campo, i problemi paiono esserci e pure in gran numero. E allora come ha ragionato Dumars?

Da un punto di vista di mero valore del giocatore potrebbe essere andato con il migliore avanzato nella free agency, considerato che di speranze per arrivare a Dwight Howard o Chris Paul non ce n’erano e di esterni, la vera necessità della squadra, che potessero far compiere un salto di qualità nemmeno.

Avendo soldi da spendere, che il regolamento NBA comunque ti farebbe spendere, la scelta è stata quella di mettersi in casa un asset importante: ancora giovane, con ammiratori in giro per la Lega e che potrebbe, dovesse andar male l’esperimento, avere valore per altre trade.

Ancora. Abbiamo detto di come Monroe e Drummond siano i due giocatori sui quali pareva Detroit volesse ricostruire. Ma occhio, perché forse, per Monroe, l’arrivo di Smith può far suonare campanelli d’allarme pericolosi.

Il ragazzo è diventato un fattore importante in attacco, ma non è ancora riuscito a compiere i passi in avanti, specie difensivi, che ci si aspettava. Fatica tremendamente sia nella difesa del pick’n’roll che in aiuto dal lato debole. Il tutto sfavorito da un atletismo sotto la media, che tra l’altro gli toglie qualcosa anche nell’altra metà campo.

E’ un giocatore che ha sicuramente degli ammiratori in giro per la Lega, quindi, qualora Drummond dovesse crescere più in fretta del previsto, non pare una follia pensare al nome dell’ex G’Town sul mercato, lasciando alla coppia Smith-Drummond il futuro della franchigia. Tutti ragionamenti che possono avere un senso, ma che non mutano il fatto che Dumars si sia preso un grandissimo rischio.

PERCHE’ JOSH SMITH HA VOLUTO I PISTONS

Ecco, qua snocciolare un discorso articolato come il precedente diventa più complicato. Di primo acchito, l’unica risposta che viene da dare sono i soldi: tanti, maledetti e subito (e per i successivi tre anni).

Difficile che Smith potesse trovare molti GM decisi a dare quei soldi a un giocatore che dà il meglio di sé come all-around e secondo o terzo violino di una squadra. Resta da capire cosa l’abbia spinto in Michigan, in una squadra che è una di quelle con il futuro maggiormente avvolto da nubi di tutta la NBA, con i problemi di inserimento visti prima, in una città non esattamente frizzante e, in aggiunta, con il pubblico in costante ribasso anno dopo anno.

A Atlanta i rapporti erano rotti ormai da tempo e forse anche lui si è reso conto di essere stato vittima di sé stesso. Il “Joshmare” (edizione ridotta del “Dwightmare” di orlandiana e losangelena memoria) andato avanti per un anno in Georgia non l’ha certo messo in buona luce con le altre franchigie e pertanto anche lui probabilmente avrà dovuto rassegnarsi alle attenzioni solo di squadre in difficoltà alla ricerca di un nome altisonante che almeno potesse riportare un po’ di gente a palazzo.

Inutile sottolineare come Smith a questo punto sia al bivio della sua carriera: o rialza in un qualche modo questi Pistons o imboccherĂ  inevitabilmente il viale del disio, avendo bruciato tutte le chances per dimostrare di essere un difference maker affidabile.

One thought on “Josh Smith ai Pistons: storia di un matrimonio

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