beli565tDi esperti opinionisti ne venivano fuori a iosa quando Marco Belinelli, alla fine della sua prima stagione da NBA player, collezionava 0 (si legga “zero”) presenze partendo in quintetto.

“Tornerà presto in Europa”, “in America di giocatori come lui ce ne sono a palate”: queste erano solamente due delle massime più in voga ai tempi in cui Don Nelson gestiva un circo da 48 vinte e 34 perse chiamato Golden State Warriors. Anno Domini 2008.

Puntualmente, ogni nuova stagione, Belinelli era sul punto di andarsene. Che si trovasse ad Oakland o che sostasse sulle rive dell’Ontario, stando alle voci dei più maligni, aveva sempre la valigia pronta per tornare a respirare il profumo dei tortellini.

Che a lui piacessero i donuts però, era altrettanto risaputo e qualcuno avrebbe dovuto cogliere questo elemento come l’indizio di un futuro differente rispetto a quello che in molti gli avevano surrettiziamente assegnato. Oddio, ingiustificatamente mica tanto.

Seppur cambiando aria e sbarcando a Toronto infatti, le cose non erano cambiate in maniera sostanziale. Non si deve essere un feticista delle statistiche per sostenere che quando un giocatore scende da otto a sette punti di media probabilmente la sua considerazione nella lega non è migliorata di molto.

Passa appena un’estate: ottanta volte titolare, e i neo opinionisti spariscono come la palla quando Chris Paul se la fa passare dietro la schiena. Uno dei primi cinque playmaker del mondo (CP3), un coach giovane e senza nulla da perdere (Monty Williams), una città unica (New Orleans) e un ambiente che non mette la minima pressione: ecco tutti gli ingredienti, che insieme al talento ancora non del tutto espresso e alla professionalità di Belinelli, lo porteranno a tirare col 41% da tre e a segnare più di 10 punti a partita. In men che non si dica il bolognese diventa così una pedina insostituibile del “sistema Williams”.

Lodi a go go, qualificazione ai PO, porca figura contro i Lakers e in un attimo il nome “Belinelli” non è più quello che fanno i telecronisti americani più sbadati quando vogliono indicare l’altro italiano, quello alto e scelto alla prima chiamata nel 2006.

La differenza tra stare in NBA e “giocare” in NBA era stata finalmente esplicata da Belinelli con chiarezza, dovizia e fatti concreti, ma qualche scettico continuava ad insistere: “in altre squadre non giocherebbe”.

Erano solo le considerazioni del tipico riottoso frequentatore di bar? Nessuno poteva saperlo, intanto però l’allenatore continuava a tesserne le lodi e Chris Paul, nel frattempo emigrato dal jazz agli studi cinematografici, lo voleva ancora al suo fianco per allargare le difese avversarie.

L’anno seguente è quello delle conferme. Beli segna di più e mantiene una buona percentuale dall’arco, ma qualcuno storce ancora il naso, soprattutto quando si entra nel merito del gioco che l’italiano esprime. Una cosa è indubbia: Belinelli ora, come due anni fa, non è lo stesso giocatore che a Las Vegas, durante la sua primissima Summer League, metteva a segno trentelli giocando lo stesso basket che aveva espresso fino a quel momento nel vecchio continente.

Marco col tempo è cambiato: ha modificato il suo tiro, è diventato meno veloce ma più robusto, ha fatto tanta panchina ma ha acquistato esperienza, è diventato meno spettacolare ma più cinico. Tutto ciò, almeno relativamente al gioco NBA e alle caratteristiche che possedeva questo giocatore, deve leggersi come un’evoluzione.

Quest’anno, prima che iniziasse la sua esperienza con i Bulls, ha deciso di spenderle lui un paio di parole: “Non sono solo un tiratore e voglio dimostrare di non essere venuto qui per sostituire Korver”.

Ennesimi nasi storti ed ennesimi bisbigli, soprattutto sul web, dove in tanti esprimevano il disappunto per il suo straripante ego (o almeno presunto tale). Poi i fatti.

Un mese di Dicembre da incorniciare. Il canestro in penetrazione contro Brooklyn (segnale divino, da interpretare come anticipazione di una magica serata di inizio Maggio), la perla luminosa allo scadere contro Boston, il fallo e canestro contro i Pistons, la tripla della vittoria contro i Jazz ed infine, appunto, la magica gara-7 contro i Nets.

Per il Beli la stagione è finita e fra pochi mesi ne inizierà un’altra. Come sempre tante domande e tanti dubbi sul suo futuro, ma un po’ meno sul giocatore che ha ormai confermato di essere. Se stavolta non sapete cosa pensare, visti i precedenti, meglio far poche smorfie e salire subito sul carro.

 

One thought on “La rivincita di Marco

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