Alla bella età di 39 anni Jason Kidd è ancora titolare nella NBA…

Sono nato nel 1980 e ho iniziato a interessarmi “seriamente” di Nba a tredici anni circa. I primi anni 90. Periodo strano, di transizione. Si passava dai duelli Magic-Bird al bel mezzo del dominio Jordan – Bulls che sarebbe durato fino alla fine di quella decade.

Ricordo però nitidamente che un interrogativo in particolare iniziava a porsi sempre con maggiore insistenza tra media e tifosi: chi avrebbe, di lì a pochi anni, portato avanti la Nba e chi sarebbe stato il “Nuovo Jordan”?

Metà anni 90. Precisamente dal 1994 al 1996. Anni che certamente non avrebbero dato risposta al quesito di cui sopra (che probabilmente non sarà mai risolto) ma i giocatori entrati nella Lega in quel periodo avrebbero certamente aperto la strada a una delle più grandi rivoluzioni nella storia del gioco.

Una rivoluzione prima di tutto fisica: lunghi sempre più atletici, veloci come guardie e in grado di giocare un pick n’roll non più solo come bloccanti ma anche come portatori di palla, capaci di tirare e segnare con grande efficacia dalla distanza e da tre punti.

Ali piccole potenti, in grado di schiacciare in testa ai lunghi nell’aria pitturata ma capaci anche di iniziare l’azione rendendo il ruolo di Point Forward non più una rarità identificabile quasi esclusivamente nel nome di Scottie Pippen.

E’ passato tanto tempo e tanti giocatori hanno attraversato l’universo Nba entrando nella Lega come astri nascenti, uscendone troppo  presto per vari motivi: alcuni vittime di infortuni, altri dello stile di vita che proprio da quegli anni iniziò a diventare sempre più frenetico e logorante  a causa della sempre maggiore sovraesposizione mediatica, con le conseguenti tentazioni e stravaganze extra basket che hanno notevolmente accorciato più di una carriera promettente; altri – pochi –  esponenti di spicco, probabilmente i migliori prodotti di quelle generazioni di fenomeni, sono però ancora in attività e si presentano ai nastri di partenza della stagione 2012 – 2013 avendo superato abbondantemente i trentacinque anni ma con ancora la voglia di stupire, vincere e recitare un ruolo da protagonista. Chi per cercare di conquistare quel titolo Nba inseguito e mai raggiunto nel fiore della carriera, chi con il compito di compattare spogliatoi sull’ orlo di una crisi di nervi e di fare da chioccia alle giovani rampanti sta, insegnando loro come si dovrebbe stare sul parquet.

Quando uno sportivo supera le trentacinque primavere si avvia naturalmente verso la fine della carriera. Inconsciamente il tifoso o l’appassionato inizia a non aspettarsi più di tanto dall’atleta in questione: cali di statistiche, acciacchi sempre più frequenti e lo scivolamento a ruoli sempre più marginali all’interno dei roster passano inosservati o quantomeno appaiono fisiologici all’occhio dello sportivo medio.

Anziano o ultratrentenne nella Nba di oggi non è sempre sinonimo di vecchio. Lo sanno bene i New York Knicks, da sempre squadra controversa, continuamente presa di mira da tifosi e stampa per le decisioni dirigenziali spesso incomprensibili.

Quest’anno, dopo la passata stagione da psicodramma  e l’incredibile gestione della vicenda Lin, hanno pensato bene di battere già prima della prima palla a due un record assoluto Nba: sono la squadra piu’ vecchia della storia.

Kurt Thomas è il giocatore più anziano della Nba e senza dubbio ancora uno degli ultimi professori del gioco soprattutto per quanto riguarda l’aspetto difensivo, lacuna più grande di questi Knicks che hanno come presenze cardine il tandem Antony – Stoudamire… non proprio due scienziati della materia. Certamente la presenza di Thomas sarà limitata a un aiuto vocale e teorico da bordo campo e durante gli allenamenti.

Per quanto riguarda il campo, la presenza di Marcus Camby, trentottenne maestro della stoppata e della difesa, dovrebbe senza dubbio portare un apporto pratico ben più tangibile. Il quasi trentottene proveniente e da Houston, cercato durante l’estate anche dagli Heat, che gli avrebbero offerto ben più solide speranze di arrivare a quel titolo che ancora manca nella sua carriera, ha preferito tornare ai Knicks, guadagnare meno e ritrovare l’ambiente dove tutto sommato ha raggiunto il picco più alto della sua carriera. Sarà certamente in grado i dare sostanza in vernice e girare un paio di perni in difesa all’occorrenza, magari marcando per qualche minuto il lungo avversario più pericoloso.

Il Madison Square Garden è l’arena più famosa d’America e Rasheed Wallace non avrebbe potuto scegliere palcoscenico più importante per il suo ritorno al basket giocato dopo due anni d’inattività.

Inutile parlare del carattere e dei colpi di testa di cui è capace il trentottene campione Nba con i Pistons di Larry Brown ed è facile nutrire perplessità sull’impatto che potrebbe avere il suo arrivo nel già bollente spogliatoio arancio-bianco-azzurro. Probabile ennesima sbandata della dirigenza quindi, ma Sheed ha comunque più volte dimostrato la sua classe e la sua leadership tecnica ed emotiva in situazioni di convivenza con altre ingombranti superstar (vedi gli anni a Boston), in più nelle sue prime dichirazioni ha assicurato di essere al 100 % della forma e di essere tornato per dare una mano a Coach Woodson (secondo di Brown ai Pistons campioni) quindi senza drammatiche collisioni caratteriali con altre primedonne è sensato pensare a un produttivo contributo di Wallace alla causa newyorkese magari per pochi minuti di qualità in attacco e in difesa nei momenti caldi specie nella postseason in cui i Knicks si augurano di tornare protagonisti.

Nei Playoff la palla scotta e il ruolo del playmaker diventa a dir poco fondamentale. Nella scorsa stagione gli infortuni di Lin e Shumpert lasciarono certamente un vuoto nella cabina di regia dei Knicks che cercarono di limitare i danni affidandosi all’improbabile triumvirato Baron Davis – Bibby – JR Smith con scarsissimi risultati.

Quest’anno si è cercato di dare solidità ed esperienza al reparto richiamando Raymond Felton e firmando due free agent di sicuro affidamento.

Pablo Prigioni a 35 anni è un rookie con alle spalle innumerevoli battaglie in campo europeo e con molte e pesanti medaglie conquistate anche a discapito dei Dream Team di turno al fianco di Ginobili e di quella irripetibile selezione argentina che nelle ultime olimpiadi londinesi ha emesso il suo canto del cigno. Arrivato certamente tardi nella Nba Prigioni è ancora  un solido atleta, grande organizzatore di gioco con i nervi saldi dentro e fuori dal campo.

A completare l’armata di vecchietti arrivata nella grande mela quest’estate troviamo Jason Kidd: trentanove anni e terzo giocatore piu’ anziano della Lega, senza dubbio uno dei migliori playmaker della storia del gioco, in grado, nei suoi anni migliori, di portare a suon di triple doppie, una squadra di medio livello e un’eterna barzelletta come  Nets a giocare e perdere per ben due volte la Finale Nba per poi vincerla da protagonista due anni fa con i Mavericks.

Nel 1994 Kidd esordi’ col botto, giocando la prima di tante straordinarie stagioni e dividendo a pari merito il trofeo di rookie dell’anno con un giocatore che a un certo punto della sua carriera non avrebbe pensato certamente di arrivare al 2013 con l’etichetta di giocatore più anziano della Lega semplicemente perché per lui arrivare ai giorni nostri in piedi sulle gambe è stato letteralmente un miracolo.

Tutti conosciamo la straordinaria storia di Grant Hill: dopo il suo anno da esordiente e per i successivi quattro anni fu un assolutamente dominante. Capace di ricoprire quattro posizioni dal playmaker all’ala forte; un concentrato di tecnica, potenza e agilità. Immediatamente dopo la vittoria dell’oro olimpico  ad Atlanta arriva la firma del contratto della vita con i Magic  di Tracy McGrady.

Poi il disastro: la caviglia cede e, a seguito della conseguente operazione, viene colpito da un’infezione da staffilococco che per poco non lo uccide, rallentando di praticamente un anno il suo rientro.

In sei stagioni a Orlando colleziona 200 presenze, in media trentatré all’anno e inevitabilmente si ritrova con l’etichetta di giocatore finito attaccata al collo. Ma Grant non ha mai mollato e, passato ai Suns, ha continuato a progredire applicandosi con straordinaria etica del lavoro.

Nonostante viti e perni nelle caviglie è arrivato a giocare fino ad oggi, fino a trentanove anni, senza nessuna voglia di smettere, sopravvissuto sportivamente parlando a tanti suoi colleghi più giovani che certamente non hanno avuto la sua stessa serietà e  passione per il lavoro.

Scaduto il contratto con i Suns, Hill ha deciso di sondare il mercato e numerose sono state le offerte, soprattutto da parte di squadre di altissimo livello, contenders per il titolo in cerca di un giocatore di esperienza e sicuro affidamento.

Dopo in vero e prorpio derby di Los Angels per metterlo sotto contratto l’hanno spuntata i Clippers, scelta discutibile per un giocatore che meriterebbe certamente di vincere l’anello e che difficilmente ci riuscirà con i sepur rampanti e in ascesa velieri; troverà molto traffico in posizione di ala piccola con i nuovi arrivati Odom e Barnes e il titolare Caron Butler.

Vero è che la grande pecca dei Clips è la mancanza di freddezza e la scarsa capacità di gestire la partita quando la palla scotta, come ampiamente dimostrato durante gli scorsi Playoff, quindi Grant dovrebbe comunque avere parecchio spazio nel suo ruolo con possibilità di dare una mano all’ altro grande vecchio Chauncey Billups al posto o al fianco  di Chris Paul.

In casa Lakers il rifiuto di Grant Hill non è certamente stato il tormentone dell’estate dato che la dirigenza ha restituito ai tifosi, dopo la deludente stagione passata, una squadra arricchita da una campagna acquisti faraonica: arrivare dopo mille peripezie a firmare Dwight Howard mantenendo in squadra Gasol e sacrificando solo Bynum e il suo ondivago rendimento è stata la mossa dell’anno; l’essere riusciti inoltre a firmare uno dei free agent piu’ ambiti sul mercato è stata senza dubbio la ciliegina sulla torta.

Steve Nash dopo anni ai Suns senza speranze di titolo e dopo essere stato corteggiato per tutta la off season da mezza Nba (Knicks, Mavs e Heat su tutti) ha messo nero su bianco con i giallo viola andando a rinsaldare l’unico tassello traballante della squadra di Mike Brown. Dopo la discussa e sofferta partenza di Derek Fisher la palla era rimasta nelle mani del duo Blake – Sessions aprendo un’ enorme falla tattica nonché tecnica nel sistema di gioco angeleno, falla che nemmeno Kobe è riuscito a tappare contro Oklahoma

A 38 anni Steve Nash non ha ancora dato il minimo segno di cedimento è un leader carismatico come pochi, cultore della forma fisica e grazie alle sue buone abitudini, non ha mai patito infortuni drammatici in carriera. Integro fisicamente come pochi alla sua età si presenta ai nuovi compagni vantando le credenziali tecniche che tutti conosciamo: per capacità di passatore e pericolosità in attacco è sicuramente ancora tra i primi dieci playmaker della Lega.

Facendosi trovare libero al tiro sugli scarichi generati dai raddoppi su Bryant e sfruttando le sue doti di passatore a vantaggio dei tanti ottimi attaccanti dei  Lakers, potrà essere certamente un fattore fondamentale per una grande stagione. L’unica grossa perplessità riguarda l’aspetto difensivo, materia nella quale Steve non ha certamente mai brillato ma a Los Angeles credono probabilmente a ragione, di poter rimediare con l’innesto di Howard come battitore libero sottocanestro e le prestazioni di Metta e degli uomini dalla panchina.

Kobe Bryant e compagni si presentano ai nastri di partenza come favoriti a Ovest appena dietro OKC e Steve Nash arriva forse tardi all’occasione della vita; non ha mai avuto una squadra così completa e tanto talento a disposizione, ma parliamo di un atleta fuori dal comune, due volte Mvp della Lega, che sicuramente conserva tali e tante energie nervose da poter provare con decisione l’ultimo vero assalto della carriera al tanto desiderato anello di campione Nba a coronamento di una carriera favolosa.

Ray Allen ha lasciato Boston e ha portato la sua mano fatata a Long Beach alla corte di King James. Decisione curiosa presa non si sa come dai focosi tifosi Bianco Verdi ma difficilmente al suo ritorno al Garden qualcuno avrà il coraggio di contestare il miglior tiratore da tre nella storia recente e non del gioco; un atleta entrato nel cuore di ogni tifoso per la pulizia del suo gioco, la fluidità del suo movimento di tiro unica e inimitabile.

Anche in questo caso parliamo di un atleta favoloso, integro e cultore maniacale della forma fisica e della preparazione tecnica: famose le immagini dello scorso anno quando, in gran difficoltà fisica proprio nella serie contro gli Heat, si presentava all’arena tre ore prima della partita per sfiancanti sedute di tiro per cercare di uscire dal momento nero ai liberi e al tiro da tre…cio’ che lo aveva reso famoso, un punto di riferimento assoluto.

Proprio la sete di successo ha portato Allen ad accettare la corte di Miami dove sperano che, sfruttando gli spazi lasciati liberi da James e Wade, riesca a infliggere danni enormi alle difese avversarie come e più del Mike Miller della scorsa stagione.

In un panorama Nba che vede sempre più frequentemente sotto i riflettori ventenni  strapagati e iper – responsabilizzati prima ancora di fare il loro esordio, impressiona costatare quanto i veterani siano ancora importanti per l’evoluzione del gioco e per la crescita dei suoi protagonisti più giovani; colpisce vedere quanto general manager e allenatori puntino e richiedano certe caratteristiche che solo loro sanno garantire.

Anche a loro sarà capitato di strafare, di fare le primedonne e oltrepassare i limiti ma grazie alla perseveranza e all’applicazione oggi sono ancora qui: qualcuno di loro non metterà mai piede in campo, qualcun altro sarà probabilmente ancora una volta o per la prima volta decisivo per la vittoria di un titolo.

Ciò che conta è l’esempio che portano avanti; l’amore e il rispetto per il gioco e per un percorso di vita professionale spesso, a ragione, criticato ma che in alcuni casi è eroico, stoico e profondamente significativo.

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