Lebron con il titolo NBA: il suo sogno è diventato realtà

Ci sono voluti 713 giorni per farcela, da quando LeBron James, in mondovisione, decise di portare i suoi talenti a South Beach ma adesso i Miami Heat sono campioni NBA.

Il fatidico 8 luglio di 2 anni or sono andò in scena l’obbrobrio della “The Decision”, il punto più basso della carriera di LeBron James che consacrò gli Heat, almeno sulla carta, come la squadra da battere, e fece sprofondare il Prescelto in un abisso mediatico senza pari nella storia dello sport professionistico americano.

La decisione divise il mondo sportivo in due fazioni, “Haters” e “Lovers”. Senza vie di mezzo, Bianco o Nero, senza sfumature di grigio.

Gli Haters inorriditi dalla scelta di James di fare comunella con altri top player come Dwyane Wade e Chris Bosh. La via più facile per il successo dicevano. Un tradimento sportivo per i tifosi dei Cleveland Cavaliers. Un senso diffuso di rabbia misto a commiserazione per chi vive l’essenza della lega come un terreno di rivalità tra giocatori del solito livello.

I Lovers, quelli che tifano James a prescindere dalla canotta che veste e dal contesto in cui gioca. Quelli che lo difendevano anche quando nei playoff veniva sistematicamente fatto fuori dai Celtics e dai Magic, che non riusciva a raccogliere a livello di squadra quanto il talento poteva permettergli.

La cavalcata per il titolo è riuscita anche a sconvolgere tutto questo, mettendo tutti, o quasi tutti d’accordo su una cosa: LeBron James ha meritato questo titolo.

Detrattori e non sono convenuti tutti sul fatto che James ha giocato dei playoff spettacolari, a tratti epici, facendo svanire quasi del tutto i discorsi relativi alla sua “cluchtness” o la capacità di fare le giocate decisive per la squadra e trascinarla verso l’anello.

“Earned. Not Given “. E’ stato lo slogan del titolo conquistato dagli Heat. Mai parole furono più potenti e azzeccate.

Miami campione del mondo (termine oramai anacronistico ma che viene tuttora usato per definire la squadra campione NBA, implicitamente la migliore al mondo…) è l’apice di un percorso intrapreso da due anni, pieno di insidie, ostacoli, pressioni esagerate, cadute, errori inevitabili, altri evitabili ma tutti necessari e obbligati per vincere.

Da che mondo è mondo, per vincere, prima devi perdere. In questo senso è illuminante questo articolo dei colleghi del blog we got game.

Ecco, gli Heat, hanno perso, ed anche sonoramente, e la metamorfosi compiuta dopo la finale persa nel 2011 contro i Dallas Mavericks ha qualcosa di mistico.

Durante tutta la stagione 2010-2011 gli Heat sono stati letteralmente odiati, a causa della fratellanza che ha portato in vita i Big Three, ma soprattutto a causa di certi atteggiamenti di LeBron James e Dwyane Wade hanno aiutato a far crescere questo odio.

Risatine, festeggiamenti inopportuni, strafottenza, mancanza di umiltà, ricerca continua dell’highlight per impressionare.

Su We Want Heat discutemmo in tempi non sospetti di come il più grande difetto degli Heat non fosse strutturale, di cast o coaching staff, ma bensì mentale.

Quell’articolo ritorna di attualità adesso, perché gli Heat sono stati capaci di vincere il titolo “semplicemente” svoltando pagina dal punto di vista della mentalità.

Ma una mentalità vincente non la costruisci solo con i buoni propositi. Va allenata e coltivata quotidianamente.

Il più grande obbiettivo posto da Pat Riley durante la scorsa offseason fu proprio questo: arrivare al training camp di questa stagione motivati, concentrati, ma non agitati.

La parola d’ordine è stata “tranquillità” intesa come viatico per scrollarsi di dosso tutto il fango che il mondo stava buttando addosso alla squadra, ovattare l’ambiente esterno da possibili distrazioni. Caricarsi con lucidità della giusta dose di rabbia sportiva. Senza strafare.

Il processo che ha portato nuovamente in finale gli Heat per la seconda stagione consecutiva è stato un percorso lento, sudato, ma che ha fatto guadagnare a Miami la maturità necessaria a diventare realmente una contender nella forma e nello spirito, non semplicemente una squadra forte ma senza anima.

Per arrivare a ciò si è anche dovuti scendere a compromessi importanti:

LeBron James ha accettato di giocare più continuativamente in post basso, non tanto per ruolo, ma per necessità e per sfruttare il fatto è un generatore umano di mismacht in pratica contro chiunque.

Dwayne Wade ha finalmente capito che non è più il Wade del 2006, quello che cambia le partite a piacimento, ma che ha 15 minuti di basket di alto livello nelle gambe e nella testa e i restanti 20 minuti deve farsi da parte, agendo nell’ombra.

Chris Bosh ha abbracciato il suo nuovo ruolo di centro atipico, che ha sempre scansato in carriera, e lo ha fatto per il bene della squadra.

– A cascata ogni altro componente dello starting Five o della panchina ha seguito l’esempio, e sacrificato ego, minuti, ideali alla causa.

Ma il cambiamento è stato anche tecnico.

Erik Spoelstra è stato sempre nell’occhio del ciclone, ad ogni vittoria veniva stigmatizzato il suo lavoro mentre ad ogni sconfitta finiva sempre nel tourbillon che lo voleva licenziato in favore di un coach più esperto, in grado di farsi ascoltare dalle star, oppure carismatico come lo stesso Pat Riley, di cui il coach di origini filippine è un clone, giovane, ancora da farsi, ma con il solito fuoco negli occhi.

Il coach ha lavorato sodo, infischiandosene del parere esterno, come da prassi dell’ambiente Heat, in cui vige la regola che i panni sporchi si lavano in famiglia, in cui si trova conforto nella tranquillità della routine del lavoro, se viene svolto in modo meticoloso.

Ha costruito una delle migliori, se non la migliore difesa NBA, che in stagione regolare, in modalità pilota automatico, ha permesso a Miami tante vittorie anche a discapito di un attacco a tratti insufficiente, ma che nei Playoff grazie alla versatilità di alcuni giocatori (Shane Battier su tutti) si è adattata a ogni contesto e conformazione avversaria, variando di volta in volta.

Anche offensivamente si sono visti dei notevoli miglioramenti rispetto alla prima stagione dell’era Big Three.

Tanto post basso indistintamente di James e Wade, tanti tagli dal lato debole per andare a colpire le difese avversarie alle spalle, per concentrare l’attenzione in determinate zone dal campo e far si che il cast sfruttasse gli spazi per colpire dalla lunga distanza o prendesse in controtempo gli aggiustamenti difensivi.

Un basket offensivo non discriminato da movimenti fissi, da posizioni, o da filosofie predominanti, ma in grado di creare sempre un opportunità e alternative percorribili ai due big e di riflesso anche per Bosh.

Vedendo giocare offensivamente gli Heat sembrava di essere tornati indietro di 20 anni, a cavallo tra gli anni 80 e 90, epoca in cui si giocava prettamente di isolamenti, in cui il lato forte era un’opzione da sfruttare fino in fondo ed in cui l’1 vs 1 era un arte che oggi a causa del pick & roll e il suo abuso sembra in via di estinzione.

Il cammino che ha portato Miami a ridosso dei playoff, in stagione regolare è stato anche incerto. Fortificando e cementando il gruppo.

Partenza fulminante, che aveva dissipato tanti dubbi, almeno fino alla pausa dell’All Star Game. Periodo di “introspezione” in cui coach Spoelstra ha cercato di ricreare nuovi equilibri, complici anche alcuni fastidi fisici tipici del momento della stagione. Rush finale ad alti e bassi, tornando a giocare un basket poco lucido, gestendo lo sforzo per non scoppiare di lì a poco, lasciando per strada diverse vittorie, per sperimentare soluzioni alternative.

Ma nei playoff tutto ha iniziato a girare nel verso giusto, ed i pezzi si sono incastrati a perfezione nel mosaico.

Contro i Knicks, Miami ha di forza chiuso la serie in 5 partite, mostrando tutto il proprio furore.

Al secondo turno gli Heat sono stati di fronte al primo punto di svolta della propria stagione (forse anche esistenziale riferito alla nuova era dei Big Three). Sotto di 2-1 contro gli Indiana Pacers con Bosh out per infortunio e il Wade più brutto della carriera, per di più zoppo.

James & Soci venivano già dati per spacciati, e già si pregustavano sorrisi ironici.

Invece, la coesione, e la maturità, ovvero le cose che difettavano la scorsa stagione, e un Wade spettacolare hanno cambiato inerzia e serie con 4 vittorie consecutive scaccia crisi.

La finale di Conference poneva di fronte i Boston Celtics, l’acerrima rivale, il muro contro cui LeBron James si è ripetutamente schiantato durante i suoi anni a Cleveland. Due vittorie in casa, una all’overtime, nonostante un immenso Rajon Rondo, poi 3 sconfitte consecutive, l’ultima della quali bruciante, di fronte al pubblico amico per opera della freddezza di Paul Pierce.

Altro psicodramma, altro punto di svolta.

Meno di un anno fa, gli Heat si sarebbero sciolti, sarebbero naufragati senza anima in un abisso senza fine.

Invece LeBron James li ha trascinati quasi da solo a gara 7, con un epica prestazione da 45 punti, onnipotenza pura in ogni zona nel campo, difensiva e offensiva.

La vittoria in gara 7, ha segnato il definitivo passaggio di testimone nei valori della Eastern Conference. Una vittoria che ha fatto morale, ma che ha anche reso evidente la forza interiore di questo gruppo.

E poi le Finals che mezzo mondo aspettava, contro gli Oklahoma City Thunder, il nuovo che avanza, il primo capitolo di una rivalità ancora tutta da scrivere.

C’era tanto scetticismo sugli Heat, alla luce della fatica fatta per raggiungere l’ultimo atto.

I Thunder arrivavano carichi da un 4-2 contro gli Spurs, con 4 vittorie, di forza, consecutive, il favore dei pronostici, smaliziati, “portatori sani” di prepotenza atletica e tattica.

Miami entrava nelle finali senza il fattore campo, con una rotazione ridotta all’osso, con un Bosh da reinserire a pieno nel motore, stanchi.

Gara 1 è stato il riassunto di quanto sopra.

Ma la testa è sempre stata fissa sull’obbiettivo, come dimostra una gara 2 giocata all’arma bianca, e strappata per i capelli.

Poi le tre gare disputate alla American Airlines Arena sono state un crescendo, in cui l’esperienza ha giocato un ruolo determinante e fondamentale, in cui tutti, giocatori e coach hanno risposto presente.

L’efficacia di Shane Battier, la faccia tosta di Mario Chalmers, il martirio di Miker Miller, il jolly pescato in Norris Cole sono state le piegature di una serie finale da annali.

Di certo c’è la consacrazione di LeBron James a un livello che ancora non era riuscito a toccare.

Ora per gli Heat si apre la delicata stagione della riconferma che per certi versi è la stagione mentalmente più difficile.

Il titolo non deve essere inteso come un exploit o un punto di arrivo, ma un punto di partenza, da consolidare già dal prossimo novembre.

Le motivazioni di vendetta e di rivalsa con cui gli Heat hanno convissuto a braccetto per tutta la stagione devono essere tenute accese trasformando la voglia di riscatto, in voglia di vincere a prescindere dalla vicissitudine passate.

Un motivatore come Spoelstra, erede di un altro motivatore come Pat Riley, non avrà problemi, nel toccare le corde giuste per la prossima stagione. La voglia di competere di James e Wade è pari sono alla loro ambizione di vincere ancora titoli e anelli.

Da un punto di vista strutturale c’è da rivedere qualcosa.

Se Mike Miller da adito alle voci che lo vedono pronte al ritiro, portando con se gli ultimi 3 anni del suo contratto garantito per un totale di 18 milioni e spiccioli, sostituirlo con un altro tiratore, meno inclini agli infortuni è una priorità.

Anche alla luce del fatto che pure James Jones sta meditando il ritiro, scoprendoci ulteriormente in un settore, quello dei tiratori con stazza e fisicità, di vitale importanza in questi Heat.

Altra necessità è quella di aggiungere centimetri, e intimidazione a un reparto lunghi che Bosh escluso vede gregari di impatto ma sottodimensionati per il ruolo.

Non serve necessariamente un bigman ingombrante, ma non sarebbe male un prospetto da far maturare negli anni, magari investendoci la scelta numero 27 del prossimo e imminente draft.

Per completare il roster poi serve valutare le posizioni degli 8 giocatori in scadenza di contratto (paccottiglia a dire il vero) e tappare le falle con veterani, scommesse, e via dicendo.

Il destino degli Heat è ancora tutto da scrivere. Di capitolo in capitolo. Noi di We Want Heat siamo onorati di raccontarvelo, da ogni punto di vista.

 

One thought on “Earned. Not Given

  1. Se avesse perso, Miami, non avrebbe perso solo il titolo, ma anche qualcosa di più: la consapevolezza di essere la squadra più forte. E’ da inizio anno che, obiettivamente, diciamo che “se non vincono quest’anno…”… Ergo, è andata come doveva andare, a prescindere da haters e lovers… C’è una squadra che è decisamente più forte di tutte le altre: vincere è l’unico risultato possibile, quindi… Bravi loro a fare quello che dovevano fare. E su LBJ non c’è niente da dire: è il migliore. Sul fattore “clutchness”… Non ci è manco arrivato, le ha chiuse prima!

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