Mike Bibby proverà a mettere un po' d'ordine in attacco nei Miami Heat

C’è una squadra in NBA che più di tutte le altre viene passata al microscopio per ogni sussurro e ogni partita giocata.

Sono ovviamente i Miami Heat dei Big Three, che dopo aver radunato tutto il talento possibile a South Beach, per dirla come l’ha detta Lebron James quest’estate, si è ritrovata ad essere la squadra con i fari di tutti puntati addosso.

Certo le dichiarazioni spavalde di LeBron James quest’estate hanno fatto si che le pretese dei tifosi su di loro fossero alte, molto alte, come d’altronde era normale che aumentasse il partito dei cosiddetti heaters, che non vedevano l’ora di vedere gli Heat in difficoltà per gettare fango su di loro.

Fango che puntualmente è arrivato non appena sono comparse le prime difficoltà ad inizio stagione. Il processo di crescita per una squadra che deve immettere due stelle in un roster quasi totalmente rifatto è fisiologicamente lungo e le prime sconfitte con team sulla carta più deboli erano messe ampiamente in preventivo.

Quello che non era stato previsto, però, è che queste difficoltà aumentassero con il tempo e che invece che un assestamento, ci si trovasse di fronte a un quasi detronamento del team.

Intendiamoci, rimaniamo di fronte a una squadra che ha il terzo record ad Est con il 67% abbondante di vittorie. Però a pesare come un macigno ci sono le ultime prestazioni della squadra di Spoelstra. Da dopo la pausa dell’All Star Game il record è perdente, con sole 3 vittorie su 9 gare disputate. Di più, contro squadre con un record sopra il 50%, Miami ha un record di 15W e 18L, decisamente non di buon auspicio per affrontare i playoff anche ad Est dove dal secondo turno si incontreranno squadre attrezzate per arrivare in fondo.

Di motivi di preoccupazione ce ne sarebbero quindi a sufficienza, ma il più preoccupante non è ancora stato detto: nelle partite decise da meno di tre punti, gli Heat hanno un record di 2 vittorie e 8 sconfitte. E questo avendo in squadra due giocatori tra i più decisivi della lega.

Preoccupante, e anche parecchio. Perchè vuol dire che la fiducia sta iniziando a cigolare e che forse nonostante Wade e Lebron gli avversari riescono a imbrigliare l’attacco nei momenti chiave della partita.

Sì, perchè il problema tecnico, più che difensivo pare essere offensivo.

Più volte anche nelle sconfitte gli Heat sono infatti riusciti a mantenere gli avversari sotto i 90 punti, trovando però difficoltà a mettere a referto punti da giocatori che non siano LeBron, Wade e Bosh. I tre infatti sono sostanzialmente in linea con le medie delle passate stagioni, con una leggera flessione in più per l’ex Raptor che si è trovato però a passare da prima a terza opzione offensiva della squadra, mentre tra i compagni in contumacia Haslem il terzo realizzatore risulta essere Mario Chalmers, scongelato nella seconda parte di stagione dopo un avvio in cui ha visto pochissimo il campo, che segna poco più di 6 punti a gara.

Quello che è preoccupante per gli Heat è che a dire il vero a inizio anno l’attacco funzionava decisamente meglio. C’era molta più circolazione di palla e anche i tre tenori davano l’idea di voler giocare molto più coralmente.

Alle prime difficoltà però questo trend è decisamente cambiato e si è passati dal voler dimostrare di essere altruisti e di rischiare la sconfitta per provare a costruire dei giochi anche nei momenti decisivi della gara all’anarchia cestistica, con brani di isolamenti di LBJ alternati a zingarate di Wade e a (pochi) isolamenti al gomito per Bosh, anche e soprattutto nei momenti topici della gara, dove il rischio di sconfitta è diventata ormai quasi una certezza.

La questione però oltre che tecnica è principalmente psicologica. Questo passaggio ad un gioco molto più individuale è indice di scarsa fiducia nei giochi, nei compagni e nell’esito delle partite. Il fatto di avere gli occhi puntati addosso non aiuta sicuramente e i due giocatori chiave, Wade e James si sentono quasi in dovere di dimostrare al mondo di essere i migliori e di saper vincere le partite da soli e nel momento in cui non ci riescono, la fiducia cala ulteriormente.

L’ambiente inoltre, dopo l’idillio iniziale, pare essersi un po’ destabilizzato.

In prima istanza ci sono state le dichiarazioni di Chris Bosh, che ha fatto presente che per rendere meglio avrebbe bisogno, nell’ordine, di più palloni e di giocare di più da situazioni di post e meno dal gomito.

Effettivamente prendere Bosh per fargli fare il tiratore dai 5 metri non pare essere una grandissima idea. Non che il suo gioco in post sia di colpo diventato sui livelli di Hakeem Olajuwon, però considerando che l’ex Toronto non è un difensore integerrimo, per usare un eufemismo, forse sarebbe meglio sfruttarlo maggiormente in situazioni in cui può dare davvero qualcosa, cioè oltre che dal gomito su qualche pick&roll e qualche giocata dinamica al ferro. Ad usarlo poco si ottiene solo di scontentarlo (come le dichiarazioni dimostrano) e di fargli perdere valore di mercato nel caso si volesse in futuro provare a cambiare la strutturazione della squadra.

Il secondo avvenimento, ancora più grave e singolare, è stato l’outing fatto da coach Spoelstra dopo la sconfitta di domenica scorsa contro Chicago. Il delfino di Riley, che comunque non perde occasione per dichiarare che il coach non è in dubbio, ha infatti dichiarato alla stampa nel post partita che negli spogliatoi dell’ American Airlines Arena c’era chi piangeva dopo la sconfitta.

A chi scrive francamente non è chiarissimo l’obiettivo di questa dichiarazione.

Se Spoelstra ha voluto mandare un messaggio ai suoi facendogli capire che è ora di tirar fuori gli attributi e non di piangere sul latte versato, se abbia voluto far sapere al mondo che la squadra tiene molto a fare bella figura, o semplicemente se si è lasciato scappare un episodio che sarebbe dovuto restare chiuso tra le mura dello spogliatoio.

Quello che è certo però è che questa dichiarazione è stata un autogol clamoroso.

Sia perchè espone la squadra al pubblico ludibrio, con alcuni avversari che non hanno perso l’occasione di fare sapere la loro opinione su quanto accaduto, come Phil Jackson che ha dichiarato “Questa è l’NBA. I ragazzini non sono ammessi. Gli adulti non piangono e se lo devono fare, è meglio che lo facciano in bagno dove nessuno li sente

Sia perchè evidenzia al mondo come effettivamente la crisi degli Heat sia reale e sia principalmente psicologica ed emotiva, con la conseguenza che la squadra non sa nemmeno più se fidarsi del proprio coach e nella partita seguente è stata battuta a domicilio anche dai Blazers.

E’ palese che le nuvole nere che a inizio stagione si intravedevano all’orizzonte siano arrivate e abbiano coperto il cielo dei Miami Heat. Troppi indizi sono lì a far bella mostra di sè e oltre ai problemi sopra citati, ci sono i record contro le squadre che potenzialmente gli Heat potrebbero trovare ai playoff.

Attualmente infatti la squadra della Florida sarebbe accoppiata al primo turno contro i Knicks, con cui hanno un record in assoluta parità (2W e 2L) e che nel frattempo hanno aumentato la disponibilità di talento all’interno del roster.

Il secondo turno quasi sicuramente sarebbe contro i Chicago Bulls di Derrick Rose, con cui in stagione sono 0-3 e che hanno dato il via al Cry-Gate. In un’ipotetica finale con i Boston Celtics non andrebbe meglio. Anche qui il record è 0-3 e soprattutto difensivamente sono la squadra che dopo Atlanta li contiene meglio.

I nuvoloni neri si sono trasformati in un bel temporale dunque, e anche lo squarcio d’azzurro visto nella notte tra giovedì e venerdi con la vittoria contro i campioni in carica dei Lakers potrebbe essere un illusorio raggio di sole marzolino, soprattutto perchè arrivata in un contesto particolare, con Kobe che ha voluto giocare in modo speculare agli Heat, farcendo l’attacco dei Lakers di troppe iniziative personali.

Certo non bisogna nemmeno sminuire il fatto che la sfida tra Los Angeles e Miami vede per questa stagione i campioni NBA soccombere per 2 gare a 0, risultato molto positivo e che potrebbe effettivamente rappresentare la svolta della stagione per gli Heat, che hanno l’estrema necessità di riprendere fiducia in loro stessi e nel sistema di gioco da questa vittoria e riuscire a trasformare quel raggio di sole in un cielo più terso.

Quando dopo un temporale torna il sereno, è facile che arrivi anche l’arcobaleno e si dice che al fondo di esso ci sia un tesoro, che nel caso di Miami potrebbe essere l’anello. Certo, bisognerebbe credere alle favole…

One thought on “I pianti degli Heat

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