Cooperstown, nello stato di New York, è famosa soprattutto per essere la sede del National Baseball Hall of Fame and Museum e in quanto tale rappresenta la Mecca per ogni appassionato del national pastime: chi avesse l’occasione – e la fortuna – di visitarlo potrebbe rendere omaggio a quasi trecento persone che hanno contribuito alla nascita e allo sviluppo di questo sport.

Il nove gennaio scorso Cooperstown è tornata d’attualità grazie all’annuncio dei risultati delle elezioni della BBWAA che, per la prima volta dal 1996, non ha premiato nessuno dei nomi presenti sulle schede di votazione. Eppure solamente dieci giorni dopo l’Hall of Fame è tornato tristemente alla ribalta delle cronache americane.

Il diciannove gennaio, infatti, il Baseball ha salutato due dei suoi pilastri: Earl Weaver e Stan Musial se ne sono andati lo stesso giorno, dopo due vite sportive che non avrebbero potuto essere più distanti tra loro. Ironia della sorte anche le loro origini hanno un singolo punto in comune, St. Louis: città natìa di Weaver – classe 1930 – e casa di Musial che in Missouri è semplicemente considerato il miglior giocatore nella storia della franchigia. Con buona pace di Roger Hornsby, Bob Gibson, Lou Brock, Dizzy Dean, Enos Slaughter e Ozzie Smith.

Stan the Man

È possibile immaginare, oggi, una carriera MLB lunga 22 anni sempre con la stessa squadra? Probabilmente no, eppure questo è solamente il punto di partenza quando si parla di Stan Musial, esterno classe 1920 nativo della Pennsylvania, firmato curiosamente come pitcher dai Cardinals nel 1938.

Parlare del suo impatto sul baseball è certamente più difficile rispetto ad altri giocatori come Jackie Robinson, che hanno lasciato un segno anche al di fuori del diamante: Musial, dal canto suo, si è limitato ad essere uno dei migliori hitter che abbia mai calcato i campi della MLB nella sua ultracentenaria storia. Il paradosso è che il suo nome non compare al primo posto in nessuna classifica offensiva, anche cercando tra le più disparate: semplicemente sapeva fare tutto eccezionalmente bene, tanto da chiudere nei primi 30 posti all-time in tutte le hitting stats.

I freddi numeri, a mio parere, sono i più adatti a riassumere la sua straordinaria carriera: 10972 AB (9° all-time), 3026 games (6), 3630 hits (4), 725 doubles (3), 177 triples (19), 475 HR (28), 1949 runs (9), 1951 RBI (6), 1599 BB (13), 6134 total bases (2), 2562 runs created (3), 1377 XBH (3) e 119.8 offensive bWAR.

Il miglior giocatore nella storia dei St. Louis Cardinals

Il miglior giocatore nella storia dei St. Louis Cardinals

Counting stats di eccellente livello, come si vede: non sorprende considerata la sua lunghissima carriera, ma non tutti sanno che il buon Stan trascorse tutta la stagione 1945 – a venticinque anni – a servire in marina. E non sorprende nemmeno leggere le sue rate stats: .3308 AVG (30), .4167 (22), .5591 SLG (19), .9757 OPS (13) e 159 OPS+ (15).

Tutte queste cifre si sono tradotte – tra le altre cose – in tre World Series vinte, tutte tra il 1942 e il 1946, 3 premi di MVP della National League, 24 apparizioni all’All-Star Game e la naturale introduzione, nel 1969, a Cooperstown nel primo anno di eleggibilità.

Nel 1952 Ty Cobb, non uno specialista nell’elargire complimenti, disse di lui: «No man has ever been a perfect ballplayer. Stan Musial, however, is the closest to being perfect in the game today…». Una frase che non necessita di traduzioni, come quella di Leo Durocher, che una volta ammise che «There is only one way to pitch to Musial — under the plate».

Può bastare questo per definirlo, come ho fatto qualche paragrafo fa, il miglior giocatore nella storia dei St. Louis Cardinals? Probabilmente sì, ma questa domanda ci porta ad analizzare l’altra vita di Stan Musial, quella fuori dai diamanti di gioco. Quella più soggettiva e difficile da giudicare dall’esterno.

Eppure anche in questo caso – pur senza il supporto dei numeri – ci troviamo di fronte ad un Campione; in Missouri hanno voluto andare sul sicuro e all’esterno del Busch Stadium trovano posto ben due statue di Stan the Man. Alla base di una di esse si legge: «Here stands baseball’s perfect warrior. Here stands baseball’s perfect knight». Un’esagerazione? Sembra di no a giudicare dagli attestati di stima e dalle parole dei suoi colleghi, compagni e avversari, dei giornalisti e degli analisti che in tanti anni ne hanno tracciato il profilo.

A chi avesse ancora dei dubbi consiglio di osservare la lista degli sportivi che hanno ricevuto la “Presidential Medal of Freedom”, la massima onorificenza civile concessa dal Presidente degli Stati Uniti. Vi anticipo che troverete i nomi di Muhammad Ali, Jesse Owens e – per restare al baseball – Jackie Robinson e Roberto Clemente.

Pitching, defense, and the three-run homer.

Sembra incredibile eppure non ho trovato nessun sopranome affibbiato all’ex manager di Baltimore da poter utilizzare per poter iniziare a parlare della sua carriera come manager: toccherà accontentarsi della frase che sembra descrivere al meglio la sua impostazione tattica.

Come per Musial, è impossibile limitarsi a citare i suoi numeri e le sue idee come allenatore senza finire a parlare del suo carattere: i suoi teatrini con gli arbitri – in particolare Ron Luciano – lo hanno reso uno dei personaggi più pittoreschi nella storia dello sport, forse premiandolo oltre i propri meriti (vedasi l’inclusione nella Hall of Fame), pur enormi.

Dopo aver chiuso la propria carriera come giocatore senza riuscire a raggiungere l’MLB, la sua avventura manageriale prese il via, nel 1956, nella Sally League: fu l’anno successivo che entrò nell’organizzazione degli Orioles dove sarebbe rimasto fino al 1982. Nel luglio del 1968 dopo la solita gavetta nelle minors si liberò per lui il posto come capo allenatore: il successo fu praticamente immediato.

Il 1968 oltre che “The year of the pitcher” fu l’ultima stagione a giocarsi senza playoff, con le due vincenti delle rispettive leghe – American e National – a scontrarsi direttamente alle World Series: Baltimore, che chiuse al secondo posto, si limitò al ruolo di spettatrice nonostante il buon contributo del suo nuovo manager, che vinse 48 delle ultime 82 partite. Ma quanto valeva quella squadra?

Earl Weaver impegnato nel suo passatempo preferito

Earl Weaver impegnato nel suo passatempo preferito

Evidentemente parecchio, viste le WS vinte appena due stagioni prima contro Sandy Koufax, Don Drysdale e i Los Angeles Dodgers: il lineup poteva contare su due HoFamers come Brooks e Frank Robinson oltre al mago difensivo Mark Belanger e il 1B Boog Powell che avrebbe vinto il premio di MVP dell’A.L. Nel 1970. Il parco lanciatori era un po’ meno impressionante ma poteva contare su Dave McNally, uno dei migliori pitchers della lega a cavallo tra gli anni ’60 e ’70.

Il vero problema era che nel 1968 Jim Palmer stava recuperando da un infortunio e non lanciò nemmeno un inning; ma quando nel dicembre di quell’anno arrivò da Houston il mancino cubano Mike “Crazy Horse” Cuellar gli Orioles potevano schierare anche sul monte un reparto di livello assoluto.

Il 1969 si chiuse con 109 vittorie, l’approdo alle World Series ma anche lo cocente sconfitta contro i Miracle Mets di Tom Seaver e di un giovanissimo Nolan Ryan; per la riscossa Weaver e gli Orioles dovettero attendere appena 12 mesi, il tempo di vincere 108 gare di RS, eliminare Minnesota nelle Championship Series e superare 4-1 la “Big Red Machine” guidata da Johnny Bench e Pete Rose. Purtroppo per Weaver e tutti i tifosi di Baltimore il triennio da 100+ vittorie chiuso nel 1971 con 101 W terminò ancora con un delusione, quando furono i Pittsburgh Pirates trascinati da Roberto Clemente (1.210 OPS in 29 AB) ad imporsi in gara-7 dell’atto finale.

E mentre in campo i protagonisti cambiano, nel dugout – o più spesso fuori – continua a comandare Earl Weaver: Bobby Grich, Doug DeCinces, Lee May, Ken Singleton, Mike Torrez, Eddie Murray e Mike Flanagan sono alcuni dei più famosi giocatori che si alternano durante gli anni ’70 in maglia Orioles. Sono loro – tra gli altri – e tutto il pubblico del Momerial Stadium a diventare gli spettatori degli “scontri” tra Weaver e gli umpires di tutta l’America. Chiuderà la carriera con oltre 90 espulsioni e alcuni dei siparietti con gli arbitri si possono facilmente trovare ancora oggi su Internet: ne consiglio caldamente la loro visione.

Il canto del cigno di Weaver e degli Orioles arriva nel 1979 ma come otto anni prima sono i Pirates a vincere il titolo dopo sette battaglie: Willie Stargell è il miglior giocatore di una serie che Baltimore conduceva per 3-1 con tre match-point (due in casa) a disposizione.

La carriera come allenatore si conclude – esclusa una breve parentesi negativa nel biennio 1985/1986 – nel 1982, appena un anno prima che Cal Ripken Jr guidi gli Orioles alla conquista delle World Series contro Philadelphia. Nel dugout c’è Joe Altobelli che al primo tentativo nel Maryland centra subito il bersaglio grosso.
Amante delle statistiche, faceva un gran uso di platoon ed era sempre alla ricerca del miglior match-up tra lanciatore e battitore: poco incline allo small ball, sembra che non avesse nemmeno elaborato un segnale per chiamare le giocate di hit&run.

I suoi numeri finali parlano di 1480 vittorie e 1060 sconfitte, una percentuale di .583 che gli vale il sesto posto all-time tra tutti i managers con almeno 1000 vittorie in carriera e la nona piazza considerando gli allenatori con almeno 600 presenze. Il 1986 oltre che l’ultima è stata anche l’unica stagione chiusa con un record negativo a fronte di ben cinque annate chiuse oltre quota 100 W.

Da una decina di giorni il mondo del baseball è più povero.

Commenta

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.