dnig878Fa specie che il ritorno sul grande schermo di Clint Eastwood non sia stato preceduto da un’intensa campagna pubblicitaria, giusto tributo per un personaggio che ha saputo reinventarsi da regista, smessi una volta per tutte gli stivali con speroni dei tempi che furono.

A visione ultimata se ne può comprendere meglio il motivo, peraltro con rammarico: sembrano lontani i tempi dell’osannato Mystic River, ma anche quelli più recenti dello sceriffo borghese di Gran Torino.

Colpisce immediatamente il passaggio di timone alla regia, accreditata all’esordiente Robert Lorenz, una vita da mediano dietro al vecchio Clint e premiato con la formale conduzione del set, sebbene maligni lo abbiano dipinto piuttosto limitato nella libertà di manovre dal Grande Vecchio.

In secondo luogo, non convince il casting, soprattutto nella scelta di Justin Timberlake: troppo patinato, troppo poco vero attore da credere che sia stato scelto dallo stesso regista dell’altalenante Hereafter, comunque interpretato da un “top player” quale Matt Damon.

Di nuovo in gioco è la storia di Gus, vecchio e burbero (perfino eccessivo, se non addirittura caricaturale nell’interpretazione più congeniale a Eastwood) osservatore di giovani talenti di una squadra di baseball professionistico (gli Atlanta Braves), il quale si trova nella difficile situazione di dover gestire un lento, ma inesorabile declino fisico che si manifesta tramite una maculopatia che lo sta gradualmente portando alla cecità e un lavoro che si sta evolvendo sempre di più tecnologicamente, ponendo l’anziano scout alla stregua di un dinosauro.

Come se non bastasse, il rapporto con la figlia Mickey, avvocato prossima alla promozione a socio dello studio in cui lavora, è contraddistinto da un muro di incomunicabilità, eretto nei tanti anni di trasferimenti di città in città dietro ai migliori talenti della nazione, in parte dovuti per celare un terribile segreto.

Un ultimo terreno di confronto sarà offerto dal North Carolina, paese natale di quello che è unanimemente ritenuto il miglior prospetto della nazione: i Braves inviano proprio Gus, accompagnato da Mickey nel tentativo di aiutare a salvare l’incarico del padre e nella speranza di riuscire a ricucire quel rapporto paterno di cui ha sempre accusato la mancanza, anche a costo di mettere a repentaglio la propria avviata carriera.

Relegato sullo sfondo, quasi come un esterno che riesce solo aguzzando la vista ad intuire ciò che capita sul monte di lancio, lo sport, il baseball in particolare, spesso utilizzato nella narrativa cinematografica hollywodiana come tramite per raccontare le favole del grande sogno americano: però, de “L’uomo dei sogni” questo film non presenta l’ammiccante rimando storico-onirico, mentre de “L’arte di vincere” cerca di sabotarne le premesse, tant’è che in “Di nuovo in gioco” i fautori dell’introduzione di mezzi scientifici per valutare il rendimento di un atleta sono dei giovani usurpatori arrivisti (fresconi), mentre Clint raffigura il vecchio lupo di mare che se la cava “riconoscendo i colpi dal suono della mazza” e sapendo come schivare le palle curve che le contingenze gli sparano contro.

Un malinconico affresco conservatore, coerente con le ultime prese di posizione dell’attore feticcio di Sergio Leone, allontanatosi da quel “conservatorismo illuminato” che sembrava averlo contraddistinto negli ultimi anni di carriera, con l’inatteso endorsement a favore della prima candidatura di Obama.

Lo scontato lieto fine, che il regista segnala grossolanamente nello svolgimento della trama e a cui lo spettatore non può sfuggire se non sperando (invano) in un colpo di scena che scompagini i piani, vorrebbe essere il definitivo fuoricampo che suggella la partita; purtroppo, assomiglia più ad una lisciata di palla che condanna il battitore Eastwood ad una interlocutoria eliminazione.

Aspettando il prossimo inning, come il Clint che ci piace di più ci ha abituato, negli ultimi anni, reinventandosi, nonostante la veneranda età.

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