1° ottobre 1967. Fenway Park, Boston. I Red Sox affrontano i Minnesota Twins nell’ultima partita della Regular season. L’incontro tra le due squadre è particolarmente carico di significato perchĂ© sono appaiate in vetta alla standing della American League. A contendere loro il pennant anche i Tigers, impegnati quello stesso giorno a Detroit contro i California Angels in un doubleheader che ha visto la squadra del Michigan prevalere nel primo match ma soccombere nel secondo.

La partita è molto tesa. Tutta Boston attende una vittoria di pennant dall’ormai lontano 1946.

Il primo momento di svolta arriva al terzo inning, turno di attacco dei Twins. Un banale singolo a sinistra di Harmon Killebrew con Cesar Tovar in prima si trasforma nel punto del 2 a 0 per Minnesota. Un errore sembra essere il presagio di un incubo: la palla passa tra le gambe del due volte “Golden glove” esterno sinistro di Boston. Quello stesso giocatore già quattro volte All-star, ultima delle quali nella stagione in corso.

Stiamo parlando di Carl Yastrzemski. Il suo appuntamento con la storia era solo rimandato.

Yastrzemski, 28 anni, giocatore di buon livello negli anni della High-school sia di Basketball che di Football, oltre che promessa del Baseball fin dalle Little Leagues, aveva esordito in MLB nel 1961. I primi momenti di gloria arrivarono al termine della stagione 1963, con la conquista del batting title, frutto di una media di .321. Ma era nel campionato in corso che, per la prima volta, conquistò lo status di vero fuoriclasse: giunse al match decisivo con una media battuta di .322, 44 fuori campo e 119 RBI. Primo assoluto in due categorie su tre, a pari merito con Killebrew in testa alla graduatoria degli home-run.

Yastrzemski era in piena corsa per la tanto ambita Triple Crown.

Quel giorno la pressione era tutta su di lui. Non poteva essere altrimenti in una città così appassionata al Vecchio gioco e, al contempo, affamata di vittorie da una lunga astinenza.

Quell’errore al terzo inning aveva tutta l’aria di una beffa; sembrava, per Yastrzemski, l’indegno finale di una stagione memorabile.

Quello stesso giorno, invece, si sarebbe trasformato in una marcia trionfale. La grande gioia e i festeggiamenti in tutto il New England, avrebbero fatto da sontuoso contorno ad una prestazione magistrale di Yastrzemski: 4 su 4, 2 RBI. Il suo singolo al sesto inning portò a casa i primi due punti, quelli del pareggio, di una ripresa che avrebbe visto gli uomini dei Red Sox attraversare il piatto di casa base per ben 5 volte.

5 a 3. Era il trionfo. Quella stagione viene spesso ricordata come l’ “Impossible dream”.

I Red Sox sarebbero giunti fino alle World Series, nelle quali dovettero arrendersi ai St.Louis Cardinals in 7 emozionantissime gare.

Yastrzemski aveva vinto la Triple Crown, un premio tra i piĂą ambiti nel Baseball (quando uno stesso battitore primeggia, al termine della stagione, nelle tre principali categorie di attacco: media battuta, punti battuti a casa e fuoricampo). In quegli anni non era ancora diventato, come invece ai giorni nostri, un’assoluta raritĂ : l’ultima volta che un giocatore si era aggiudicato tale riconoscimento era appena l’anno precedente, quando ad aggiudicarselo era stato Frank Robinson dei Baltimore Orioles.

Tanto valse a Yastrzemski per aggiudicarsi il titolo di MVP della stagione 1967 della AL. L’unico di una carriera scintillante, anche se mai coronata dal titolo di World Champion, per lui che ha sempre giocato con la casacca dei Red Sox, negli anni terribili del “Curse of the Bambino”, interrottosi solo nel 2004.

Nei quarantacinque anni successivi, nessuno più è stato in grado di aggiudicarsi la tanto ambita Triple Crown.

Ed è per questo motivo che, alle porte dei “glory days” di Ottobre, vogliamo ricordare le gesta eroiche di Yastrzemski. Per il fatto che quest’anno, dopo quasi mezzo secolo, un giocatore, Miguel Cabrera, sembra avere concrete chance di poter essere il primo da allora a fregiarsi del prestigioso riconoscimento.

Il terza base di Detroit, con una media di .325 e 136 RBI è, a tre partite dal termine della Stagione regolare, il leader assoluto in entrambe queste categorie. Quanto ai fuoricampo, invece, è lotta serrata con Josh Hamilton, lo slugger dei Texas Rangers: entrambi sono a quota 43.

Queste ultime giornate saranno molto intense e varrà la pena seguire con attenzione ogni at bat del giocatore dei Tigers. Mike Trout, il giovane rookie degli Angels, è decisamente “caldo” e la sua media battuta è salita a .322. Anche Joe Mauer dei Twins sta battendo con una certa continuità, al punto da aver raggiunto BA di .323. Persino Adrian Beltre, il terza base di Texas, attualmente a quota .321, sembra essere tornato in ballo per il batting title.

Sarà in grado “Miggy” di arrivare fino in fondo? Cabrera non vuole sentir parlare di record personali, ma solo della squadra. O almeno così dice.

Ciò che è certo è che tutta Detroit sta facendo il tifo per lui. E non solo per il contributo che sarĂ  in grado di dare ai Tigers nella battaglia contro i Chicago White Sox per la vittoria finale della AL Central, ma anche per il profondo significato che potrebbe avere per l’intero movimento del Baseball tornare ad assegnare, dopo tanti anni, la Triple Crown.

Per i Tigers si tratta ormai di una situazione “do or die”: la wild card è ormai un discorso riservato a Baltimore/New York, Oakland e LA Angels, con i Tampa Bay Rays ancora vivi, almeno per la matematica.

E’ nei “dog days” di fine settembre, lontani solo da un punto di vista meteorologico dai “solleoni” di agosto, che si decidono molteplici destini. Per alcuni team saranno il preludio al grande showdown autunnale. Per altri saranno l’inizio di un lungo inverno di riflessione, il tempo per affilare le armi in vista di una nuova primavera piena di speranze.

A fare la differenza saranno, come sempre, i giocatori. E’ adesso che i campioni sapranno distinguersi dai buoni giocatori.

Ed è ora che Miguel Cabrera dovrà dimostrare di essere non solo un contendente alla Tripla Corona, ma anche un vero MVP.

Esattamente come Yastrzemski in quell’ormai lontano 1967.

One thought on “La corsa alla Triple Crown, 45 anni dopo

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