Il titolo è volutamente striminzito: non si parla di una combinazione di tasti per PC, ma dell’ultima “moda” che sta prendendo piede in MLB. Si tratta degli shifts difensivi, le variazioni di posizionamento dei difensori per coprire più densamente le zone di campo dove è più probabile che le battute degli avversari vadano a finire.

Il termine “moda” non è stato usato a caso, visto che si tratta di un accorgimento difensivo nato nell’immediato secondo dopo guerra, per contrastare il formidabile battitore mancino dei Red Sox Ted Williams; la tendenza dei battitori mancini, contro lanciatori destri, di battere prevalentemente verso il lato destro del diamante spinse alcuni manager a slittare i propri interni verso destra fino ad avere il proprio terza-base vicino al cuscino di seconda.

Ma il baseball, più di altri sport, è dominato dalle tradizioni e non è facile cambiare le mentalità di giocatori e manager e così negli anni si è assistito ad un doppio paradosso: da una parte numerosi battitori mancini ripetutamente out dopo grounders che non trovano più il buco tra 1B e 2 B, dall’altra managers incapaci di trasferire il modello sull’altro lato dell’infield per limitare anche i più pericolosi pull-hitters destri per paura di lasciare scoperto il sacchetto di prima.

Anche al giorno d’oggi, nonostante i risultati (su cui tornerò tra poco), sono poche le squadre che hanno capito l’importanza della difesa, e di tutti quei piccoli accorgimenti, come appunto gli shifts difensivi, che la migliorano. La speranza è che la ventata d’aria fresca portata negli ultimissimi anni dall’analisi sabermetrica, e che fino ad ora si è concentrata soprattutto su pitchers e hitters, possa estendersi anche allo studio della prevenzione delle runs sfruttando il posizionamento dei difensori. Ma il primo passo, ripeto, è quello di riconoscere il ruolo determinante giocato dalla difesa.

Tipiche manovre per limitare David Ortiz

Per rendersene conto basterebbe chiedere a David Ortiz o a Carlos Pena, a Ryan Howard o Adam Dunn cosa provano a vedere molte delle loro battute finire nella fitta rete di avversari che si annidano tra i cuscini di prima e seconda base; la tecnica è talmente efficiente che i pochi bunt for hits a sinistra che riescono non cambiano il giudizio globale. Prince Fielder e Brian McCann lo potranno confermare a loro volta.

Ora i più scettici potranno chiedersi se gli shift difensivi funzionino veramente e, magari, anche in che misura; per rispondere basta dare un’occhiata ai dati raccolti dal 2010 da Baseball Info Solutions.

Forse non si tratta di un campione statistico abbastanza ampio da fornire garanzie, ma sicuramente è stato preso in considerazione un buon numero di partite e i risultati sono interessanti. Prima di iniziare, vediamo quali solo le squadre che fanno maggior uso dei defensive shifts, tenendo presente che, se nel 2010 e nel 2011 sono stati registrati circa 1.900 shifts, le previsioni per la stagione in corso parlano di una crescita del 100% fino a quota 3.800.

Come i più attenti, specialmente se tifosi di Yankees e Red Sox, possono immaginare sono i Tampa Bay Rays a farla da padrona, con quasi l’11% degli shifts totali in ogni stagione nell’ultimo biennio: non è un caso se digitando “mlb defensive shifts” in Google Immagini quasi tutte le foto mostrano il Tropicana Field. Baltimore Orioles, Toronto Blue Jays e Cleveland Indians sono state, a debita distanza, le altre tre franchigie ad aver adottato questa strategia difensiva con continuità negli ultimi anni.

La National League sembra meno incline a sperimentale, visto che le ultime quattro squadre, in questa speciale classifica, sono Rockies, Reds, Cardinals e Phillies: questi team, insieme ai White Sox, si proiettano con meno di dieci shifts finali in tutta la stagione in corso. Eppure è proprio una franchigia della N.L. a fornire l’esempio migliore per dimostrarne l’efficacia: si tratta dei Milwaukee Brewers.

Nel 2010, sotto la guida di Ken Macha, i birrai chiusero la stagione con appena 22 shifts e 77 vittorie totali, utili solo per il terzo posto divisionale: l’infield di quella squadra poteva contare su Fielder (1B, che difensivamente costò 17 runs alla squadra, 35simo su 35 pari ruolo), Weeks (2B, -16 DRS, 34/35), Betancourt (SS, -27 DRS, 35/35) e McGehee (3B, -14 DRS, 31/35). In tutto, questi giocatori costarono alla squadra 74 runs in difesa.

La soluzione? Incrementare gli spostamenti difensivi fino a 170 (oltre 7 volte il numero dell’anno precedente) e diventare il secondo team in MLB alle spalle dei Rays; numeri alla mano, la mossa di Ron Roenicke, ha pagato dividendi altissimi, che si sono tradotti in 96 vittorie. In termini di runs saved il guadagno è stato misurato in 56 runs, quindi 5/6 vittorie; Fielder (da -17 a -8), Weeks (da -16 a -5), Betancourt (da -27 a -7) e McGehee (da -14 a +3), pur rimanendo sotto media, formarono un infield almeno dignitoso.

Un altro esempio? I Rays, la scorsa stagione, hanno guidato la lega in defensive shifts e in runs saved, potendo ovviamente contare su eccellenti difensori come Evan Longoria o Casey Kotchman, ma il dato più interessante riguarda le palle in gioco.

Nel triennio 2009/2011, infatti, solamente il 22,4% delle grounders degli avversari di Tampa Bay si è trasformato in una valida; il dato medio dell’intera American League è stato il 23.6%. In conseguenza dell’incremento degli shifts che si sta registrando nel 2012, in totale la percentuale di groundballs che diventano hits è calata, in questi primi due mesi, dal 23.7% al 22.6%.

Si dice che tanti indizi fanno una prova, ma se c’è una cosa che le statistiche difensive insegnano è che hanno bisogno di un campione statistico enorme per poter essere considerate attendibili: l’impressione è che lo studio approfondito della fase difensiva del gioco possa fruttare grossi risultati e non approfittarne sarebbe un clamoroso autogol. Si può parlare quindi di rivoluzione?

Probabilmente sì, sperando di non dover attendere, come da tradizione tipica del baseball, decine di anni per apprezzarne i frutti.

3 thoughts on “Shift D

  1. Onore al grande manager Joe Maddon e complimenti per l’articolo davvero molto interessante

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