Era perso, poco coordinato, e si muoveva nei corridoi o sui campi di Sachem come fosse un robot”, così lo descrisse qualche anno fa Fred Fusaro, coach di John Elliott ai tempi del liceo che mai avrebbe pensato che quel ragazzo così impacciato, così poco incline alla competizione, un giorno sarebbe diventato uno dei più grandi lineman della National Football League, tra i pochi che riuscì ad arginare lo strapotere di Bruce Smith sulla linea di scrimmage a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, cosa che gli riuscì particolarmente bene nel Super Bowl XXV, al termine della stagione 1990.

Partita che segnò probabilmente il punto più alto della carriera di un venticinquenne che da qualche tempo aveva abbandonato il suo nome di battesimo per passare alla storia del Football semplicemente come Jumbo, nome attribuitogli quando cercava di costruirsi un futuro spendendo lunghi, interminabili, pomeriggi di allenamento alla Sachem HS, seguito sempre da vicino da un HC che con il tempo si è trasformato in una sorta di secondo padre, seguendolo passo a passo nel corso del suo viaggio.

Quello stesso coach che saltò sulla sedia il giorno che John gli comunicò di voler accettare la borsa di studio offertagli da Michigan, un programma esageratamente competitivo per le qualità caratteriali mostrate fino a quel momento dal ragazzone di origini scozzesi, ma che si consolò quando il collega Bo Schembechler, allenatore dei Wolverines, rispose alle sue preoccupazioni con un semplice “Una volta che entri in un ambiente competitivo, o gareggi o non sopravvivi”, e in cuor suo sapeva che Jumbo, il suo Jumbo, non era uno che mollava.

Un po’ come nel match che gli aprì le porte del football universitario, quando da solo spianò la strada ai compagni nella vittoria contro West Islip nei playoffs liceali del 1982, attirando le attenzioni delle maggiori università del paese, un’anteprima di ciò che era in grado di fare sul terreno di gioco e delle abilità di bloccatore che emersero definitivamente in NCAA, facendolo diventare un punto fermo nella linea offensiva del programma di Ann Arbor, dove fu impiegato indistintamente sul lato destro e sul lato sinistro, risultando sempre determinante per quarterback e runningback che si posizionavano alle sue spalle.

Messo nel mirino da Bill Parcells, riuscì a draftarlo nel corso del secondo round del Draft 1988, facendolo diventare un punto fermo dei New York Giants con cui vinse il Vince Lombardy Trophy due anni più tardi, sfruttando proprio la capacità di Elliott di arginare i migliori pass rusher avversari; rimasto con i blue newyorkesi fino alla stagione 1995, nel corso della free agency successiva John attraversa la città e firma per i cugini Jets, mantenendo così lo stretto legame con lo stato in cui è nato il 1 Aprile del 1965, a Lake Ronkonkoma.

Sempre la Grande Mela, e precisamente il Giants Stadium, fanno da sfondo all’azione e alla partita che lo consegnano alla storia di questo fantastico Sport, nel match meglio conosciuto come Monday Night Miracle, in cui i biancoverdi newyorkesi compiono l’impresa rimontando i rivali Miami Dolphins, dopo che questi ultimi avevano chiuso il terzo quarto sul 30-7, con il quarterback avversario Jay Fielder pronto ad etichettarla come “finita” parlando con il compagno Jason Taylor, microfonato a sua insaputa dalla ABC.

In questo contesto, con molti tifosi Jets che nel frattempo avevano già abbandonato lo stadio, Vinny Testaverde mette in mostra tutto il talento che gli aveva permesso di conquistare l’ambito Heisman Trophy qualche anno prima e guida i suoi alla riscossa, impattando il risultato prima di una nuova segnatura dei ‘Phins; sul 37 a 30 a 3 minuti e 33 secondi dal termine sembra davvero tutto perduto, ma quando mancano solo 42 secondi all’epilogo ecco la giocata decisiva, un lancio per un lineaman dichiarato eleggibile prima dello snap, quell’uomo di linea è John “Jumbo” Taylor, che con le sue manone porta nuovamente in parità la sfida, aprendo le porte alla vittoria conquistata nell’overtime, grazie al FG calciato da John Hall.

Anni dopo ricordando l’episodio “Johnny Boy”, come lo chiamava affettuosamente sua madre, raccontò il suo stato d’animo nei momenti successivi a quando gli comunicarono che la prima lettura del suo quarterback sarebbe stato lui, “scendendo in stance il mio primo pensiero fu -Santotusaicosa, questa cosa è più grande di me-, il secondo -Vinny, per favore, lanciala altrove-“ e invece Vinny, quel mezzo matto di Testaverde, lanciò il pallone proprio verso di lui, trasformando un piccolo attimo nella lunga storia dei Jets in semplice, pura, leggenda.

Dopo quella sera, 23 Ottobre 2000, Elliott gioca ancora 25 partite con i biancoverdi, saltando la stagione 2001 e tornando in campo in quella successiva, la 2002, l’ultima della sua carriera professionistica; oggi, da proprietario di due negozi Dunkin ‘Donuts e fresca nomina nella Hall of Fame NCAA, racconta di aver un solo rammarico nel suo passato da giocatore, quello di non aver vinto un anello anche con i New York Jets, impresa solamente sfiorata nel 1998 fermandosi al Championship AFC contro i futuri trionfatori Denver Broncos.

Avrei vinto con entrambe le franchigie del mio Stato, sarebbe stato bello” chiosa davanti alle telecamere Elliott, con la stessa felice, incredula, espressione che comparve sul suo volto in un magico lunedì sera di Ottobre, mentre stavano revisionando il suo touchdown, l’unico di un viaggio durato quattordici, lunghe, stagioni.

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