Esiste una parte della California in cui la pallacanestro si respira nell’aria, non meno che in Indiana, dove il basket affonda le proprie radici. Parliamo della Bay Area di San Francisco, con i suoi tram e le vie ripide, e nello specifico di Oakland –dirimpettaia storicamente meno chic e stilosa rispetto a Frisco– patria di un buon numero di cestisti NBA, cresciuti tra l’asfalto delle strade e il cemento dei playground, come il leggendario Mosswood Park, oppure Lincoln Square Park.

In questi luoghi la giocata viene prima del punteggio, e quindi a Oakland non vedremo mai la pallacanestro predicata a Bloomington o Springfield, ma è vissuta con altrettanta intensità e passione.

Oakland è un centro portuale di rilievo, il quinto di tutti gli USA. Un tempo c’era anche la Chevrolet, ma ormai, si sa, le automobili costa meno fabbricarle altrove, e questo ha contribuito ad allargare il divario tra le nuove generazioni di yuppies 2.0 che stanno “rivalutando” intere aree cittadine (quelle a ovest, vicino all’acqua), e la classe media, tagliata fuori dalle logiche dei nuovi mercati del “dot-com”, e sempre più prossima alla soglia della povertà.

C’è anche chi, come DJ Treat-U-Nice, ha messo in commercio delle discutibili t-shirt con lo slogan “Kill a Hipster, Save Your Hood”, che, se non altro, fotografano bene la tensione sociale sommersa che alberga questi luoghi.

Negli anni ottanta Oakland era diventata una delle città più violente d’America; colpa delle droghe, che invasero (non di loro spontanea volontà, certo) le parti più povere della metropoli: i projects di Lower Bottoms West Oakland, trasformati in enormi centri di smistamento e consumo di eroina, cocaina, e soprattutto di crack; arrivavano nascoste nei container del porto, e il gioco è fatto, “dal produttore al consumatore”, come nelle migliori réclame del consumo sostenibile.

Alcuni ragazzi della zona sono sfuggiti a quest’ambiente miserabile; per farcela, hanno schivato narcotici e pallottole, mentre i più deboli si perdevano via via lungo la strada.

Solo pochi sono davvero riusciti a passare dai playground con le reti di metallo, agli scintillanti parquet della NBA. Per farcela non basta il talento, serve anche testa e volontà di ferro, qualità che non sempre riconosciamo ai giocatori che emergono da Coney Island o Compton, preferendo inconsciamente le narrative gangsta, certamente più esotiche e trasgressive. “Puoi togliere l’uomo dal ghetto, ma non il ghetto dall’uomo”. Sarà.

Gary Payton e Jason Kidd sono i due più celebrati esempi del successo che si può ottenere anche nascendo a Oakland (anche se in realtà, Kidd è di Alameda, e non viene dalla strada). Brian Shaw è cresciuto con loro, poi ci sono Greg Foster (decente pivot nell’NBA degli anni novanta), Antonio Davis (ala forte di formidabile fisicità, che arrivò in NBA dopo aver fatto tappa a Milano, dove giocò anche con Davide Pessina e Alessandro Mamoli, oltre a Riva, Pittis e Đorđević), Damian Lillard, Isaiah Rider, un Hall of Famer come Jim Pollard, Paul Silas e, in fondo, anche Bill Russell, la cui famiglia fuggì i linciaggi dalla Louisiana quando lui aveva solo otto anni, stabilendosi all’ombra del Bay Bridge.

14030597_10154451367294521_652207432_nSe però chiedeste a Payton o Kidd, chi fosse il più forte giocatore ad aver calcato i campetti di Oakland negli anni ottanta, vi risponderebbero all’unisono col nome di Hook Mitchell.

Hook era più forte di me” dice il Guanto, “Anzi, era più forte di tutti”. Per Jason Kidd “Era di gran lunga il miglior giocatore di Oakland”.

Nato Demetrius Mitchell da genitori tossicodipendenti l’11 settembre del 1968, e soprannominato Hook per via della forma della testa (non chiedeteci…), nelle parole di Brian ShawHook Mitchell trattava la palla come Marbury o Iverson e aveva la pura competitività di un Michael Jordan”.

Hook, dato per 5’11’’ (c’è chi esagera e dice 5’9’’), era soprattutto un artista della schiacciata. Costruito come un running-back del football americano, con gambe esplosive e un torace possente, Mitchell era capace di stare in aria come e più di Clyde Drexler o Michael Jordan, ai quali però rendeva una ventina di centimetri.

Hook era una forza della natura, una dinamite capace di salti inverosimili; in carriera ha inchiodato schiacciate saltando oltre un ragazzino seduto su di una sedia (trattasi di Jason Kidd), oppure planando sopra a moto, scrivanie, e anche un’automobile; ha schiacciato con doppi 360°, e a lui spetta la paternità dell’appoggio al tabellone con acclusa bimane, usato anche da T-Mac durante l’All Star Game del 2002.

Non sono favole da playground, destinate a squagliarsi al minimo confronto con i fatti: certo, c’è sempre chi esagera, e racconta di quando si librò un’automobile con una bicicletta sopra, ma se le testimonianze-video bastano a tacitare i dubbi sulle sue tonitruanti schiacciate, il consenso unanime di tanti grandi giocatori zittisce ogni sospetto sul suo talento.

Attenzione, però: questo non deve indurci a vagheggiare un automatismo tra le sue prodezze giovanili e la Hall of Fame. Forse sarebbe stato un secondo Tiny Archibald, o magari, solo un antesignano di Nate Robinson.

I campetti d’America sono una fucina di talenti che a contatto con l’NBA, si rivelano buoni giocatori, e nulla più. Da Smush Parker a “Skip-To-My-Lue” (al secolo, Raefer Alston), da “The Abuser” (Jamaal Tinsley) a “Black Magic” (Lewis Lloyd), in un contesto di basket organizzato hanno reso meno del previsto, perché il campetto non ti addestra a mettere il talento al servizio del gruppo, non insegna a difendere, e spesso neppure a tirare da fuori.

È lo scarto culturale che denuncia il personaggio di Denzel Washington in “He Got Game” (film di Spike Lee, 1998), quando racconta al figlio, il mitico Jesus Shuttlesworth, perché l’ha chiamato così. Non in onore del Figlio dell’Uomo evangelico, quanto piuttosto in omaggio al proprio idolo di gioventù, Earl “The Pearl” Monroe, che prima di conoscere il successo a Baltimore e New York, era stato un assiduo frequentatore dei campetti di Philadelphia, guadagnandosi il soprannome di Jesus.

Tutti se lo ricordano per i Knicks, quando li aiutò a vincere il secondo titolo, insomma, quella roba lì, ma io parlo di quando era con i Bullets, e prima, a Winston-Salem State, l’anno in cui viaggiò a 42 punti a partita per tutta la stagione, 41.6 (in realtà, 41.5)… per tutta la stagione. I Knicks gli hanno messo le manette, sai cosa intendo, hanno imprigionato il suo gioco, come se gli avessero messo una camicia di forza. Quando però era per le strade di Philly, sai come lo chiamavano? Jesus. Lo chiamavano così perché lui era la Verità, poi ovviamente i giornalisti bianchi hanno dovuto ribattezzarlo Black Jesus, perché non poteva essere solo Jesus. Ma anche così, era la Verità”.

È una bella storia in uno splendido film (il miglior film sul basket di sempre? Noi pensiamo di sì), ma questo solo è il punto di vista del protagonista; il Monroe dei Baltimore Bullets faceva da solo, e ha costruito la propria leggenda in quelle stagioni devastanti, ma è stato reso immortale proprio per aver accettato le regole (le “manette”) del gruppo, giocando in quella che è stata una delle più belle squadre di ogni epoca, in cui lui, Willis Reed e Walt Frazier dividevano il parquet.

In compenso c’è sempre chi è pronto a giurare che proprio quelli che non ce l’hanno fatta (Earl Manigault, Pee Wee Kirkland, Booger Smith o Joe Hammond, per citare i più celebri), fossero anche i più forti, quelli destinati a dominare la NBA.

I più grandi, relegati ai margini, invisibili, talmente epici da non potersi conformare ai miseri canoni del basket “bianco”; è un contrasto tanto stridente da diventare magnetico, che fa cascare nella trappola del “se solo”.

Nel caso di Demetrius Mitchell, il primo “se” s’incontra rapidamente; appena nacque, suo padre, tossico e spacciatore, se la svignò alla chetichella e non ricomparirà mai più nell’esistenza del figlio. La madre, a sua volta, era tossicodipendente, e lo piantò in asso mentre era ancora in fasce. A crescerlo ci provò la nonna materna, Johnnie Mae Mitchell, replicando i risultati ottenuti in precedenza con la figlia.

14054720_10154451368749521_1782553066_nDemetrius divenne molto legato a Shirley Jones, la sua “nonna surrogata”, che intanto stava provando a crescere il nipote, Larry Parker, un ragazzo che finirà ucciso in una rissa nel 1986. Intanto anche Harold Longwood, responsabile di un comitato per le minoranze, provava ad aiutarlo, e un giornalista locale, Joe Wolfcale, che lo seguiva ai tempi del Costa Contra College, riuscì poi a fargli ottenere un posto a South Carolina State.

Hook, a detta di tutti, era un bambino molto gregario, che cercava l’approvazione, e passava il tempo in strada, sui gradini di qualche palazzone fatiscente popolato da spacciatori e ladruncoli che rubano per pagarsi la prossima dose. Date le carte toccategli in sorte, la sua storia non poteva finire bene, e di fatti andrà malissimo. Mitchell iniziò a usare marijuana quando aveva solo una decina d’anni, per poi passare alle droghe pesanti, cocaina ed eroina, ritrovandosi allo sbando senza nemmeno essere passato per il via.

Prima ancora di compiere 18 anni era già una leggenda dei playground, ma al contempo, era un semi-analfabeta e un tossicodipendente. Frequenta gentaglia, delinquenti di quartiere, spacciatori e buoni a nulla. Hook gioca a basket per la droga: c’è boss locale che gli allunga un centone a ogni schiacciata effettuata in partita (l’ha raccontato Gary Payton), e chi lo paga per andare a giocare al campetto, offrendogli direttamente una dose in cambio della sua presenza.

Demetrius non era un ragazzino cattivo, anzi, era molto benvoluto, ma la rete di “protezioni” del quartiere, che sostituiscono l’inesistente famiglia, gli consente di sfangarla quando si mette nei guai, lo abitua ad essere irresponsabile, prima di tutto verso sé stesso. Va a scuola solo ed esclusivamente quando c’è da giocare una partita (lui e Antonio Davis dominavano in lungo e in largo la vecchia ”Oakland Athletic League” con McClymonds High), passa le giornate a stordirsi con la droga e ad allenarsi per il prossimo numero da esibire al campetto, perso nella propria gloria da “leggenda di strada”. Tutti gli dicono che va bene così, e lui, dall’alto dei suoi 15 anni vissuti gomito a gomito con tossici e criminali, non sa che esiste di meglio.

Nonostante tutto, il talento è lì da vedere, e arriva una lettera da South Carolina University, che in barba ai voti (più che pessimi, semplicemente inventati) gli offre una scolarship, ma Hook è coinvolto in un incidente stradale in cui perde la vita un suo amico, e dato che nell’abitacolo viene rinvenuta marijuana, finisce in libertà condizionata, e non può lasciare la California. Questa storiaccia non sembra scuoterlo minimamente; Hook continua a girare per i campetti in cerca di un 3-contro-3, vivendo come sempre alla giornata.

Qualcuno riesce a rimediargli un posto nel roster di Cal State Hayward, ma Hook trova il modo di rovinare anche quest’opportunità; si infila in una rissa contro San Francisco State, viene sospeso per due partite, e di fatto, la sua carriera collegiale finisce lì, e d’altronde, non era mai davvero iniziata, dato che giocava senza essere iscritto.

14017619_10154451368114521_1458563825_nNel 1993 rischia di finire in galera per l’omicidio di un sessantenne, ma l’inattendibilità dei due testimoni gli consente di cavarsela, ma è solo questione di tempo: si ritrova dietro le sbarre per aver provato a vendere droga ad un agente sotto copertura. Come tanti carcerati di colore, abbraccia l’Islam –che in realtà ha legami con la schiavitù degli africani tanto quanto il cristianesimo di Martin Luther King– e cambiò il proprio nome in Waliyy Abdur-Rahim.

Nel 1999, è di nuovo arrestato per aver rapinato un Blockbuster. Aveva usato una pistola finta per minacciare i dipendenti del negozio, ma la refurtiva con la quale la polizia lo sorprende (4.000 dollari) è vera, e per Demetrius si riaprono le porte della galera. Esce dal carcere di Santa Rita a 35 anni, nel 2004, dopo aver furoreggiato nel campetto della prigione, e riesce ancora ad ottenere un provino in NBA, con i Golden State Warriors, ma alla fine lo tagliano dal roster del training camp.

Oggi, a quarant’anni suonati, è ancora possente come un atleta nel pieno del proprio vigore, ed è incredibile pensare che per quasi tutta la vita (anzi, a ben vedere, da prima ancora di nascere, visto che la madre si faceva regolarmente) ha abusato di stupefacenti, perché è più tirato lui di tanta gente che passa la vita in palestra.

Schiaccia senza problemi in partita, e quando il suo viso -segnato da una vita vissuta pericolosamente- si apre in un sorriso, ci si accorge che gli mancano gli incisivi inferiori. Li ha persi quando andò troppo su per schiacciare e batté contro il ferro; è una leggenda alla quale ci piace credere, perchè in fondo, è una metafora della vita di Demetrius “Hook” Mitchell.

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