E se davvero LeBron James fosse il più grande di sempre ?

Sappiamo che il quesito riguarda solamente lui e Michael Jordan, nessun altro. Forse abbiamo sempre avuto una risposta troppo frettolosa. MJ è “The GOAT”, il pensiero è della stragrande maggioranza di tifosi, addetti ai lavori ed anche del popolo lontano dal basket.

Per me non ci sono mai stati dubbi. Michael Jordan è il più grande e tale rimarrà, LeBron non può davvero nulla al confronto. Il tema però è più ampio e pur ammettendo il gusto del paradosso vorrei introdurre un nuovo campo di paragone tra i due.

Non vorrei soltanto giudicarli per quello che hanno fatto unicamente su un campo da basket. A questi livelli, i più alti, è importante secondo il mio modesto parere anche il loro aspetto sociale. Sociale, badi bene, non necessariamente e solamente “social”.

Cosa voglio intendere per aspetto sociale ? Questi giocatori, ammirati da milioni di persone e che col loro talento generano non solo punti al tabellone ma direi soprattutto centinaia di milioni di dollari, hanno delle responsabilità sociali enormi. Sono delle voci all’interno della propria comunità, della propria nazione, in ultimo e senza esagerare per il mondo intero.

Possono e devono essere dei modelli. Possono e devono essere degli esempi positivi da seguire. In quest’ultima generazione nessuno è stato il simbolo del basket mondiale più di LeBron, a ben ragione, perché è stato il migliore in campo e perché può legittimamente essere inserito nei discorsi su chi sia il più grande di sempre con Michael Jordan.

E’ stato anche un buon modello sociale ? La risposta è sì. E’ stato grande quanto sul campo quanto fuori, davvero il migliore dei suoi anni. Per questo di risposta ne anticipo un’altra. E’ stato anche molto più incisivo di MJ svestiti i panni di giocatore.

Vediamo perché. LBJ era un ragazzino già molto maturo al suo ingresso nella NBA, seppur avesse saltato del tutto l’esperienza universitaria. Negli anni è ulteriormente cresciuto e oggi è definitivamente il leader più influente della lega.

Non è scontato. Michael Jordan non è lo è mai stato. Altri tempi, è vero, ma MJ ha sempre e soltanto fatto parlare il suo gioco, non ha mai preso posizioni, men che meno scomode. Il caso più eclatante e che lo ha marchiato a fuoco risale al 1990.

Nel suo stato, il North Carolina, ci sono le elezioni per il Senato e da più parti si levano le richieste a sua Altezza di appoggiare con una sua pur minima dichiarazione il candidato Democratico Harvey Gantt, un nero.

Corre contro Jesse Helms, un razzista conclamato. MJ non dice un parola, il candidato afro-americano perde di misura. Avrebbe sicuramente potuto influenzare la campagna elettorale ma ha deciso di non farlo. Per quello che è peggio passerà alla storia perché nel giustificare il suo silenzio disse la famose frase “anche i repubblicani comprano le sneakers”.

Quindi i suoi guadagni sono stati più importanti dell’identità razziale, dell’antirazzismo ? Difficile dirlo, di sicuro nel non prendere posizione ci ha rimesso parecchio, anche se alla lunga tutto è stato quasi del tutto cancellato dal suo splendore con una palla in mano.

Se la mettiamo su un piano prettamente politico, Jordan è sempre stato un moderato, non certo un difensore dei rivoluzionari ma anche soltanto dei più elementari diritti civili. Un amante della vita semplice da americano medio di provincia e da buon figlio della borghesia media (alla quale ovviamente lui ha detto addio da parecchio tempo) è un capitalista affamato ed arrivista, come lo sono difatti praticamente tutti.

Ha recuperato terreno col tempo, seppur sempre dopo il suo ritiro, arrivando a donare almeno 10 milioni di dollari l’anno per cause sociali ma evitando ancora di prendere posizioni molto forti mentre l’America reale brucia ancora tutta intorno alla sua lussuosa dimora dalla quale si limita alle interviste in divano per il bellissimo “The last dance” su Netflix.

Non mi pare calzante il paragone col vecchio ebreo di “Inside man” che fece affari con i nazisti tradendo il suo popolo ma insomma è una provocazione per ribadire che l’unico difetto gigantesco che gli ho sempre imputato è stato il suo silenzio sociale.

Poi arriva LeBron e la musica cambia. Sono tempi diversi, è vero, oggi il clima è da vero e proprio Rinascimento della sensibilità politica in America e LeBron ne è stato tanto ispiratore quanto figlio.

Se Michael Jordan era solamente un giocatore, il più grande, ma solo quello, LeBron è da sempre “More than an athlete”.

Basta questo a renderlo migliore ? La legacy, a questi livelli, è anche sociale e politica ? Secondo me si, senza dubbio, la legacy riguarda tutto. Con i milioni in tasca arrivano anche milioni di responsabilità e non possiamo più accettare che uomini e donne di successo non se prendano alcune di queste responsabilità per comunicare qualcosa di rilevante per tutti.

La storia del LeBron “politico” è densa. Ha ufficialmente appoggiato i candidati dei Democratici alla Casa Bianca, compresa Hillary Clinton con tanto di comizio al suo fianco e ovviamente il suo buon amico Obama.

Con l’attuale Presidente, il vecchio cattolico Joe Biden, magari il rapporto non sarà luccicante ma l’appoggio non è mancato perché ovviamente il nemico da sconfiggere è stato il più odiato di sempre, Donald Trump.

Un odio ricambiato. LeBron : “Boicottiamo il suo hotel a NY-Soho, non dormiremo lì”. Trump : “E’ stato appena intervistato dal più stupido della TV, Don Lemon (CNN). Ha fatto sembrare LeBron intelligente, il che non è facile”.

Per il Presidente Trump appena tornato ad agiata vita privata in Florida non ci sono mai stati dubbi sul quesito di cui sopra. “Il migliore è Jordan, non era politico”. Facile, ma Trump è fuori contesto, la sua opinione contro chi osa criticarlo non è mai sincera e vorrei allargare il campo ben oltre la sua era alla Casa Bianca.

Su Fox News, la rete propaganda del messaggio conservatore, Laura Ingraham ha avuto il coraggio di dire che giocatori come LeBron è meglio che stiano zitti e che pensino solo a giocare. Proprio così, ha detto a LeBron e compari testuali parole : “Shut up and dribble”.

Il dibattito che ne è seguito è un tema che sta forgiando un’epoca. E’ giusto che i giocatori parlino di “cose sociali” o è meglio che stiano zitti pensando solo a giocare ?

Da un sondaggio su un’app popolare di tifosi il 70% si dice a favore degli atleti che esprimono il loro attivismo sociale e politico. La risposta di LeBron è stata in ogni caso immediata. “Conto molto per la società, conto molto per i giovani”.

Per me sono parole sacrosante e badate bene, difendo il suo diritto a parlare e anzi ne riconosco il dovere ben prima delle sue specifiche prese di posizioni, peraltro condivisibili.

Trovo quindi di una stupidità sia arrogante che infantile la dichiarazione di Zlatan Ibrahimovic per cui “LeBron è meglio che pensi solo a giocare non occupandosi di politica”. Detto da uno che è cresciuto come un immigrato nella città svedese di Malmo fa ridere.

LeBron ovviamente ha subito risposto, rilanciando la sua azione. E’ sempre stato presente e il suo impegno è di non mollare. C’era prima del movimento Black Lives Matter e c’è ora, soprattutto a fianco dei ragazzi neri che subiscono le violenze della polizia, vittime di un sistema ingiusto e corrotto.

“Essere neri in America è dura. Abbiamo dovuto superare molti ostacoli e ne avremo tanti ancora fin quando ci sentiremo davvero cittadini con eguali diritti in America”.

La sua sensibilità politica è cresciuta di pari passo con quella dell’intera NBA. Fino a non molto tempo fa era una lega imbalsamata, attenta a non turbare nessuno, non gli uomini forti, devota a quella frase su scarpette e Repubblicani attribuita a Michael Jordan.

Poi è cambiato tutto, forse dal caso Sterling in avanti. Nel 2017 non si è andati a Charlotte per l’All Star Game perché nello stato del North Carolina, sempre loro, – Michael hai visto cosa hai combinato col tuo silenzio ? – avevano appena approvato una legge che discriminava i gay. Decisione coraggiosa, impensabile fino a pochissimi anni prima.

Adam Silver non è un pericoloso “socialista”, detto a mò di parolaccia com’è percepita in America questa parola ma ha spostato la NBA un po’ più a sinistra, facendone un veicolo per i messaggi sociali più caldi. E’ un equilibrista abile tra le ragioni dei soldi e quelle del popolo. Finora sta facendo un buon lavoro.

Alle ultime Finals “in the bubble” avevamo la scritta enorme Black Lives Matter sul parquet, le scritte personalizzate sulle maglie per specifici messaggi sociali, il “Vote” su quelle in panchina. La NBA è cambiata. Nel 1996 Abdul-Rauf fu squalificato perché protestò durante l’inno, oggi questo comportamento non solo è tollerato ma addirittura favorito.

La NBA va in fuga rispetto a tutte le altre realtà degli sport USA, soprattutto nei confronti della NFL. Colin Kaepernick ha dovuto pagare con la carriera il coraggio di inchinarsi durante l’esecuzione dell’inno, diventando al tempo un pioniere, un martire ed un eroe.

Le ragioni ovviamente sono più semplici di quanto si possa pensare. La NFL ha un pubblico più eterogeneo, la NBA ha una platea più “liberal”, più radicata nelle grandi città.

La NBA quindi ha meno rischi di alienare la gran parte di chi la segue regolarmente e Silver si è potuto permettere questo slancio degli ultimi anni senza per forza dover perdere consenso e quindi tanti soldi.

LeBron ne è stato il principale ispiratore. La sua più grande vittoria, almeno a suo dire, è stata la costruzione di una scuola ad Akron, Ohio, lì dove è cresciuto da figlio delle difficoltà.

L’ha totalmente finanziata lui con i soldi della sua Fondazione, l’ha chiamata “I Promise School” e dal 2018 accoglie centinaia di bambini dell’età equivalente alla nostra scuola elementare. La promessa è stata rispettata in pieno.

Ha portato a Cleveland il titolo dopo gli anni del “tradimento” a Miami e ora anche qualcosa di molto concreto nella sua cittadina, ovvero un futuro per tanti bambini disagiati come lo era anche lui.

“A kid from inner city Akron”, si è sempre sentito soltanto in questo modo, anche oggi che è milionario e famoso in tutto il mondo. Per quello che ha detto e che ha fatto sappiamo che non sono soltanto chiacchiere da propaganda di un ragazzo viziato.

Anthony Davis l’ha buttata lì, perché ormai LeBron è proprio un politico, senza mezze misure, quindi si augura che “la politica non sia un motivo per non dargli l’MVP”, che non sia cioè una scusa per danneggiare la sua corsa.

Onestamente se lo merita, sta giocando un basket intelligente ed illuminato alla veneranda età di 36 anni, avendo perso forse solo mezzo passo rispetto al suo “prime”.

Chi è il più grande di sempre quindi ? Michael Jordan o LeBron James ? Avete riconsiderato il vostro giudizio finale ? Siete pronti a farlo? Da oggi non dimenticate allora di aggiungere alla contesa un elemento di sfida e già sapete che su questo specifico punto il ragazzo di Akron è di gran lunga avanti.

Per la risposta definitiva aspettiamo ancora un po’ anche se nonostante tutto la mia già l’avrei.

 

 

12 thoughts on “La coscienza politica di LeBron

  1. Il più grande ipocrita di sempre? Non c’è gara, obbiettivamente.
    Jordan non ha mai appoggiato i democratici perchè non è uno di loro (posto che in USA Repubblicani = destra dura; Democratici = destra moderata, per parlare con le categorie italiane).
    Parrà strano ai furbastri del politicamente corretto ma esistono afroamericani repubblicani (e non sono neppure pochi), così come “latinos” e “asiatici” elettori fissi del GOP.
    D’altro canto non è la povertà a farti preferire i Democratici (tant’è vero che Trump stravinse negli stati dei bifolchi squattrinati) mentre è vero il contrario (in proporzione).
    James punta alla Presidenza prendendo la strada di Hollywood: finora è stata un’esclusiva repubblicana, ma il californiano adottivo Schwarzenegger ha mostrato una governance ibrida che può funzionare.
    Ad ogni modo finchè l’argomento resta il basket il nativo di Brooklyn è la stella polare.

  2. Frank Zappa diceva che “scrivere di musica è come ballare di architettura”, non voglio dire che scrivere di basket sia lo stesso, ma politicizzarlo a tal punto si, la strumentalizzazione politica della NBA ha raggiunto dei livelli mai toccati da nessun altro sport americano, inclusa la stessa NBA. Il fatto che delle personalità come LeBron o Irving, come tanti altri giocatori, sentano la responsabilità di usare la loro visibilità e ricchezza per fare qualcosa per migliorare le condizioni degli afroamericani è lodevole. Ma il fatto di usare questa leva per propaganda politica è di per sé un minus e non un plus (e qui mi fermo perché non vorrei aprire il triste capitolo delle rivolte afroamericane proprio sotto l’omertosa presidenza Obama). E’ inoltre ancora più pregiudizievole utilizzare questo opinabile aspetto extrasposrtivo per giudicare se sia il migliore giocatore di basket di sempre. Per altro sull’altro piatto della bilancia c’è un certo Michael Jordan, uno che, solo per fare qualche esempio, ha donato milioni di dollari per gli sfollati di catastrofi naturali (senza distinzione di colore della pelle), ha donato tutti i ricavi di The last dance a Friends of Children, ha donato milioni di dollari alla Naacp, storica organizzazione in difesa dei diritti degli afro-americani, giustificandosi: . Avrebbe dovuto anche schierarsi politicamente per essere considerato il goat?! è veramente meglio ballare di architettura che leggere certe cose

    • non mi ha postato le parole di Jordan quando ha fatto la donazione alla NAACP:

    • A Jordan è sempre mancato l’impegno sociale e si è ricreduto solo dopo il ritiro. È degno di nota. Parlare di politica è doveroso, anche sulle pagine un sito di sport.

      • Ma certo. Sappiamo tutti che Jordan è pieno di difetti personali. E’ dentro il campo da pallacanestro che resterà il numero 1 undisputed.
        Trallaltramente il bullo di Akron ha preso il 23 mica per nulla: quando si pensa a “basket NBA” la numerazione comincia da lì.

  3. Cosa centra la politica con la pallacanestro? Jordan è stato più grande di Lebron sul campo da basket secondo me, e non di poco. Ma sono opinioni. Giudicare un giocatore dall’attivismo sociale o politico poi mi sembra alquanto bizzarro. Anche perché NON è affatto detto le dichiarazioni extra sportive di Lebron siano ‘illuminate’ nonostante lui sembri crederlo. Però utilizza la sua visibilità per propagandare persone e (sue) idee. Per come la penso io deve fare il giocatore e una volta che ha smesso può darsi alla politica se vuole.

    • Quindi la pensi così : “shut up and dribble”, che i giocatori non hanno una propria personalità per esprimere loro opinioni. Il giocatore si giudica sul campo, la legacy comprende tutto.

  4. Io ho sempre la sensazione che le prese di posizione troppo eclatanti siano derivate dal proprio entourage che ha evidenti vantaggi a gestire certe operazioni e non dalla coscienza del singolo atleta. Mediamente gli atleti professionisti durante la carriera sportiva sono “poco o mediamente istruiti”, ovvio sono super impegnati nello sport fin da bambini, quindi gran filosofeggiamenti sui reali problemi della vita li vedo più come chiacchiere da bar a cui viene dato ascolto solo per via della bravura sportiva del personaggio. Quindi sintetizzando, quanto ritengo necessario che un atleta si esponga? Zero. Perché purtroppo o non è farina del suo sacco o è un opinione come la mia che al di fuori dei miei amici non conta nulla e non è necessario che sia riportata nel famoso mainstream.

    • Condivido.

      Anche perché il 23 dei Lakers è arrivato buon ultimo dopo Kaepernick (che ci ha rimesso la NFL, pur restando ricco), Naomi Osaka (è solo un esempio) e tutti gli altri attivisti all’opera da anni senza essere a fine carriera o avere il megafono di Hollywood.

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