Questa la cronaca dei fatti. Il 15 febbraio scorso LeBron James e Kevin Durant sono ospiti della giornalista Cari Champion per un’intervista della serie Rolling with the Champion: quindici minuti di chiacchierata con intervistatrice al volante e ospiti sul sedile posteriore, in un video che ad oggi ha raggiunto un milione e trecentomila visualizzazioni. Si parla di basket, ovviamente, ma anche di politica.

Nel commentare l’attuale situazione americana, Kevin Durant impugna il fioretto. Paragona la politica allo sport e il paese a una squadra: serve un leader capace di dare il buon esempio, ma in questo momento gli Stati Uniti “sono in mano a un cattivo coach”.

LeBron invece, come d’abitudine, affonda con un colpo d’ascia. “Il posto di lavoro numero 1 in America appartiene a qualcuno che non capisce le persone, e a cui non importa un c**** delle persone”, ha detto. “L’uomo al comando ha dato l’opportunità ai razzisti di uscire allo scoperto, senza paura. Non possiamo cambiare le parole che escono dalla sua bocca, ma continueremo a mettere in guardia la persone che ci seguono, che ci ascoltano: non è questo il modo corretto di fare”.

Si tratta dell’ultimo atto di una rivalità che dura da più di un anno. Da una parte l’amministrazione Trump, dall’altra l’intera NBA con LeBron James tra i suoi portavoce più convinti. I due fronti si punzecchiano ininterrottamente, sia su Twitter che tramite contenitori più nobili.

Pochi mesi fa Trump si scagliava contro i Warriors, e Curry nello specifico, per aver ignorato la consuetudine della visita alla Casa Bianca: appellando il presidente bum, LeBron correva in soccorso dei rivali e specificava come, dopo l’insediamento di Trump, quell’invito non rappresentasse più un onore.

Cosa c’è di diverso, questa volta? La discussione ha preso una brutta piega quando la giornalista della Fox Laura Ingraham ha offerto il proprio commento sull’accaduto: le parole di James, “sgrammaticate” e “a malapena comprensibili”, non hanno valore perchè provengono da qualcuno che “viene pagato cento milioni all’anno per far rimbalzare un pallone”.

Shut up and dribble, ha concluso. Stai zitto e palleggia. Sarà superfluo rendere conto del coro di dissenso che si è alzato in reazione alle dichiarazioni della Ingraham, unanime all’interno del vasto orizzonte NBA; proviamo invece ad andare più a fondo nella faccenda.

Quando si parla di ostilità aperte tra stelle NBA e amministrazione Trump, varrà la pena considerare che c’è una linea di fondo che parte direttamente da Adam Silver. Per quanto la lega sia un colosso del mercato, obbligata a tenere il piede in due scarpe per meri fattori di bilancio, il commissioner ha ben chiara l’importanza dell’NBA come strumento sociale. Altrettanto cristallina è la mission che Silver si è imposto da quando ha rimpiazzato David Stern.

Puntare sulla diffusione globale della pallacanestro per accrescere l’aspetto internazionale della NBA, liberandola dalla competizione, a tratti soffocante, delle altre leghe professionistiche americane.

Per raggiungere il risultato, è necessario che l’NBA strizzi l’occhio al più moderato pubblico europeo e al variopinto scenario dei paesi in via di sviluppo, coi camp in Africa e in Asia che si vanno moltiplicando: seguire l’iniziativa Basketball without borders per credere. In poche parole, l’NBA ha scelto di mostrare al mondo il proprio volto più liberale e progressista.

Tra i confini domestici, allo stesso modo, vuole essere simbolo di integrazione razziale: incarnare un’ideale che definisce la pallacanestro come sport aperto a qualsiasi minoranza, in virtù delle proprie umili origini.

 

 

Per questo motivo gli alti papaveri di New York non si oppongono quando giocatori e allenatori danno voce al loro dissenso di fronte ai microfoni della tv nazionale, anzi ne cavalcano l’onda emotiva di commenti e critiche. A fugare ogni dubbio le parole, caso raro ma lodevole, sono accompagnate dai fatti.

L’NBA ha cancellato l’All Star Game programmato a Charlotte nel 2017 come forma di protesta verso la bathroom bill, la riforma che poneva norme restrittive sull’utilizzo dei bagni pubblici da parte dei transgender. La macchina organizzativa di Adam Silver è inoltre in prima linea quando si tratta di promuovere il dialogo tra forze di polizia e comunità nere.

C’è da credere che non si tratti di un supporto superficiale, limitato a qualche maglietta come quelle esposte in campo dai giocatori dopo i tragici fatti di Ferguson: la pallacanestro è parte integrante di un certo tessuto sociale, quello del neighborhood di periferia che si declina nel block e nel ghetto, e l’NBA sarebbe irresponsabile a non accorgersene.

Nemmeno i protagonisti stanno con le mani in mano. Non è un caso che tra i più entusiasti ci siano LeBron James e Chris Paul, entrambi ai vertici del sindacato dei giocatori, impegnati a negoziare in favore di un sistema previdenziale più equo per la categoria.

Nel caso di King James non si può ignorare l’enorme impatto sociale del business empire che sta coltivando da inizio carriera. Tra donazioni, start-up, investimenti e iniziative spesso rivolte a categorie svantaggiate, LeBron ha lasciato un’impronta nell’area metropolitana di Cleveland che, come nota Bill Simmons in un recentissimo articolo di The Ringer, va ben oltre l’anello NBA del 2016.

Anzi, va ben oltre la pallacanestro in generale, perché come lo stesso James non perde occasione di ricordare ai reporter più pressanti: ci sono molte cose più importanti della pallacanestro.

Perché, quindi, quello shut up and dribble di Laura Ingraham si è rivelato così pungente e, in definitiva, controproducente? Crediamo di averne già sottinteso le ragioni. Nel difendere il proprio partito di riferimento, ha sminuito un’intera categoria che gode di una popolarità vasta e trasversale.

Se James, Durant e Curry sono figure di culto provenienti “dal basso”, e oggetto di critica perché non si esprimono in maniera accademica e non rappresentano certe fasce di popolazione, lo stesso non si può dire di allenatori come Gregg Popovich e Steve Kerr. Il primo è firmatario dei commenti più violenti contro Donald Trump, il secondo gli dà manforte con un’ironia rara, ancora più preziosa se ne consideriamo il background: il padre del coach dei Warriors, Malcolm, era rettore della American University a Beirut, Libano, dove nel 1984 rimase ucciso in un attentato.

La linea intransigente dei due ha riscosso così tanto successo da generare un movimento grassroots, un autentico plebiscito, che li vuole candidati alla prossima tornata elettorale: Popovich-Kerr 2020, con tanto di sito internet, merchandising a tema e sostenitori illustri.

 

 

Affermando che i giocatori di pallacanestro dovrebbero “stare zitti e palleggiare” la Ingraham cavalca un’opinione comune, venata d’invidia e incomprensione, secondo la quale se guadagni milioni giocando con una palla dovresti essere grato alla tua fortuna e non intrometterti in faccende pubbliche.

Una linea di pensiero che non considera quanto la vampata populista promossa da Trump abbia attinto dai bacini più “illetterati” d’America per ingrossare il conteggio dei voti. Redneck, suprematisti bianchi, integralisti religiosi e i più beceri microcosmi del web, tutti riuniti sotto la bandiera dell’Alt-right che offre ideali posticci a una società che di ideali non ne ha più.

E ancora: proprio poiché abitiamo un’epoca in cui gli intellettuali tacciono, è colpevole non accorgersi di come anche un uomo che di mestiere fa rimbalzare un pallone possa salire sul piedistallo al loro posto. Se interpreta la voce di chi non ha voce, possiede doti di leadership e si esprime in maniera più assennata di chi è attualmente al comando, varrà la pena di ascoltarlo anche se non ha frequentato nemmeno un giorno di college.

Prendiamo un esempio freschissimo. In risposta all’ennesima sparatoria scolastica, consumatasi in Florida pochi giorni fa con il conto di 17 vittime, da una parte il governo propone di dotare ogni insegnante di un fucile, dall’altra Steve Nash scrive un intenso contributo per The Players’ Tribune.

Presentandosi come padre e come cittadino, Nash rielabora la rabbia per l’accaduto in una serie di proposte motivate da cifre: compromessi ragionevoli tra fautori e oppositori delle armi in virtù di una responsabilità collettiva, perchè “in un paese che ha così tanto da offrire al mondo, le persone innocenti smettano di morire senza senso”.

Nelle parole di Kevin Durant, questo è l’atteggiamento di un buon coach: guidare gli altri, affinché si accorgano del loro stesso potenziale.

Fintanto che si continuerà a pensare a un società modellata in compartimenti stagni, dove chi ha in mano un pallone deve stare zitto e palleggiare, è palese che Donald Trump sarà un coach scomodo sulla panchina della NBA.

5 thoughts on ““Shut up and dribble”: L’NBA contro Donald Trump

  1. “Shut up and dribble” secondo me è la frase più sensata di tutta questa diatriba futile. I giocatori e allenatori NBA sono lì perché sono bravi a giocare a basket, così come gli attori e i cantanti sono famosi per quello che sanno fare.
    Trump è stato eletto in un paese democratico con libere elezioni e la democrazia non può piacere a corrente alternata solo quando ci fa comodo e manda al potere l’Obama di turno. Ora l’America farebbe meglio a stare zitta e lasciare lavorare la persona che ha votato.
    Oppure Lebron e Kevin possono fondare un loro partito e candidarsi. Vediamo come porterebbero avanti il paese.
    A me la gente che pensa di poter parlare solo perché sa mettere un pallone in un cesto o perché è intonata o perché sa recitare mi sta altamente sulle scatole… Shut up and dribble.

    • Trump e’ stato eletto e se lo tengono.. d’accordo,
      ma permettimi di dire “shut up and dribble” detto dalla giornalista non si puo sentire..
      Facciamo il regime allora dove uno comanda e gli altri stanno zitti…
      Visto che al razzista Trump piacerebbe il regime e’ giusto che che ci sono le voci fuori dal coro, perche questa succede in DEMOCRAZIA!!!!!!!
      James parla perche c’e’ dietro una questione sociale e questo caro mattia , da come scrivi, neanche te lo capisci..

    • Interessante notare, come il tutto però non valga quando è anche l’altra parte ad inserirsi in discorsi e contesti che non le competono. Sarebbe stato piacevole, o per meglio dire corretto, leggere nel tuo commento di come Trump dovesse farsi gli affari suoi anche quando si permise di dire ai vari proprietari NFL di licenziare chi si inginocchiava durante l’inno, prima di ogni match.
      Tralasciando il tuo becero commento -vista la “pregevole” chiosa finale-, trovo altrettanto fuori luogo il commento di Laura Ingraham: in una società come la nostra, non si può ancora credere che se uno di lavoro spacca le pietre potrà intervenire solo se si parla di pietre o martelli.
      LeBron, il quale non mi è mai particolarmente piaciuto nel rettangolo di gioco, a differenza fuori da esso penso sia il miglior esempio che gli USA abbiano, ha semplicemente espresso un opinione civile ed argomentata riguardo l’ambiente in cui vive. Non si è inventato critico d’arte o cinematografico ed ha iniziato a sparare sentenze.
      Fortunatamente il Medioevo è finito un migliaio di anni fa, però alcune attitudini ci riportano verso di esso sempre troppo spesso.

      • Sottocrivo in pieno il tuo commento.
        Purtroppo ancora oggi il medioevo non e’ cosi lontano da noi

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