Anche se in questo momento il caldo batte fortemente in testa, ci pare necessario elaborare qualche ragionamento a freddo, ora che la polvere si è posata a terra, i coriandoli sono stati ripuliti e si comincia a concentrare tutte le proprie energie sull’imminente Draft.

E’ andata come doveva andare, da un certo punto di vista. La storyline vissuta dal campionato NBA ha seguito le orme lasciate dal copione scritto quasi un anno fa, al momento dell’apposizione della firma di Kevin Durant in calce ad un contratto stampato su carta intestata Golden State Warriors, mossa che al di là di ogni ragionevole dubbio doveva portare come risultato minimo il secondo anello in tre anni all’interno della baia di San Francisco, aggiungendo immenso talento ad una squadra già assai ricca.

Ora che i fatti hanno confermato ciò che la carta andava blaterando da tempo, gettando il serio pericolo di una dinastia che in prospettiva eccita solo i tifosi della suddetta squadra, resta infatti da capire che cosa riservi il futuro della National Basketball Association, quali saranno le contromisure che ciascuna contendente al titolo prenderà per fermare una corazzata che allo stato d’attualità nemmeno il giocatore più forte del pianeta è riuscito a scalfire più di tanto, nonostante gli enormi sforzi profusi.

Ci troviamo nella prima settimana orfana di basket attivamente giocato e già pare certo l’esito della prossima stagione, salvo gravi infortuni che ci auguriamo non accadano a nessuno.

Fossimo in Adam Silver saremmo sinceramente preoccupati – e siamo convinti che il Commish dentro sé lo sia – di ciò che la sua Lega sta diventando, ovvero un luogo dove di divertimento ce n’è sicuramente meno di un tempo, perché questo è di norma generato da una sensazione d’incertezza che in questi ed in altri giorni non siamo proprio riusciti a percepire nemmeno impegnandoci a fondo.

Golden State è una macchina perfetta e lo era anche prima di Durant, e l’unico fattore che possa decretare una fine prematura del regno ad oggi può solamente essere un’implosione rappresentata da eventuali frizioni interne, dall’impossibilità di fornire un adeguato salario a tutti i protagonisti principali del gruppo, tutti eventi che allo stato attuale delle cose paiono ben lontani dal loro accadimento.

I parallelismi tra King James e KD35 sono ben evidenti, e ben rappresentano la NBA odierna.

LeBron ha vinto su tutti con il suo spiccato senso per la scrittura della sceneggiatura ad effetto, costruendosi un background consono che potesse fare in modo di far dimenticare a tutti quelle magliette color vinaccia date alla combustione ai famigerati tempi della Decision, consegnandosi a Cleveland qual eroe vincitore altrove quindi tornato sulla retta via, pieno di quella esperienza necessaria a rendere impensabilmente i Cavs campioni per la prima volta nella loro storia, ritagliandosi quel ruolo che era da sempre stato destinato a ricoprire.

Il longilineo Kevin non ha fatto altro che seguire il sentiero battuto da LBJ medesimo, quello che ha dichiarato di non aver mai giocato per un superteam (ci perdonerete se per una volta siamo d’accordo con quella testa vuota di Draymond Green), fautore quale fu di un trio di superstar peraltro già sperimentato in precedenza con successo da una certa franchigia dalla casacca bianco-verde.

Ed ora che anche il più che meritevole Durant ha vinto, come agirà il resto delle squadre che compone la mappa della Lega, e, domanda ancor più scottante, quando mai si accorceranno le distanze tra le solite tre o quattro squadre accreditate per la contesa del titolo e tutto ciò che ne rimane inevitabilmente tagliato fuori a causa di pessimi contratti e mancanza sistematica di programmazione a lunga durata?

Per il momento sembra ridursi tutto ad una ridistribuzione del talento verso i poli maggiormente attrattivi, e le voci che contraddistinguono il mercato estivo sono semplicemente una conferma del fatto che il sistema, almeno per il momento, rimarrà questo.

Fermo restando che ai Warriors per rimanere sulla cresta dell’onda è sufficiente rimanere così come sono strutturati, le altre stanno già pensando a quale nuovo agglomerato di superstar costituire per contrastare l’egemonia della baia.

Le Finals hanno fornito delle indicazioni molto chiare sulla poca profondità del roster dei Cavaliers, ed ecco che già partono insistenti voci sulla partenza di Kevin Love ed il possibile conseguente arrivo di Paul George, plasmando un nuovo superteam interamente al sevizio di Sua Maestà. Ed il bello sta nel fatto che la costruzione della futura edizione dei Cavs nemmeno si preoccupa più di tanto della concorrenza ad Est – non facciamoci uccellare dal secondo posto in Conference di quest’anno – dato che tanta rimane la sensazione di stacco tra loro ed i Celtics/Wizards di turno, ma è bensì orientata al contrasto degli alti ritmi imposti da Golden State, come se la quarta finale consecutiva tra le due squadre fosse già una realtà acquisita.

Premesse che, pensandoci bene, erano esattamente le stesse dell’inizio del campionato appena conclusosi.

L’altro possibile ago della bilancia è costituito da Chris Paul, il quale potrebbe effettivamente cambiare in positivo le sorti di qualsiasi squadra rappresentando una pericolosa minaccia ad Ovest, Conference dalla quale non dovrebbe spostarsi, abbandonando per sempre le vane speranze dei Clippers per andare istantaneamente a migliorare le sorti di una San Antonio fortemente bisognosa di maggior profondità nel ruolo di point guard. Nell’assolato Texas ci sarebbero Leonard e Pop, che un superteam lo costituiscono già loro due, ed il fabbisogno meno soldi e più probabilità per il titolo a questo punto della carriera di CP3 avrebbe forti possibilità di trovare soddisfazione.

Sempre da quelle parti i Rockets fremono per poter formalizzare un colloquio per il quale Paul ha già dimostrato interesse, andando a circoscrivere il backcourt dei sogni fornendo la potenziale soluzione al dilemma che attorciglia Houston, quello scarso movimento di palla quando Harden s’intestardisce fortemente a palleggiare osservando inerme il cronometro dei ventiquattro, a parere di molti esperti l’unica fonte di separazione tra i Razzi e la vera possibilità di contendere ad un titolo che manca da ventidue anni.

Sarà dunque questo il futuro? Una vera e propria linea di demarcazione tra lusso e povertà? Noia totale che si estende pericolosamente anche ai playoff, l’unica vera fonte di eccitazione rimasta?

Lo scenario, in proiezione futura, sembra non variare poi molto. Le piccole sono destinate a rimanere tali, il meccanismo è sempre quello, giochi a perdere per un po’, ti prendi l’Anthony Davis di turno, gli dai il contrattone, non vinci nulla ed imbastisci prima o poi una trade che ti permetta di rifondare non-si-sa-bene-cosa.

Prima o poi Westbrook e Towns potrebbero accasarsi nella stessa squadra per contendere lo scettro ad una combinazione assortita tra James, Curry e Durant, il King stesso potrebbe dichiarare conclusa la sua missione salva-errori-sul-lago per dedicarsi ad un mercato più vasto tornando ad alimentare le quotazioni degli accendini in quel di Cleveland (ve l’immaginate LeBron che resuscita i Knicks o i Lakers? Quanto avrebbe da guadagnarci la NBA?), e chissà quanti altri tipi di aggregazione superstellare potrebbero generarsi nel tentare di abbreviare la strada che porta alla possibilità di vincere un titolo, uno concetto distante dal tempo in cui il numero di squadre attrezzate per arrivare fino in fondo era molto più alto, l’incertezza ai nastri di partenza era maggiore, e le speranze di divertirsi erano molto più aperte.

Non resta ora che riflettere in quest’estate precocemente africana, tra un giro da una contender ad un’altra, tra un’altra sommatoria di talenti che ricorda tanto di quando si fanno le squadre al campetto partendo dal più forte, tra veterani sempre più numerosi che hanno messo denari a palate in saccoccia, e che ora tentano la scalata verso ciò che solo i media impongono e ricordano, fuorviando gli appassionati nei confronti di leggende comprovate come Malone, Stockton, Miller o Barkley, giusto per ricordare i protagonisti assoluti della nostra adolescenza rimasti all’asciutto.

Pur rimanendo estremamente felici per il titolo appena guadagnato da Kevin Durant, uno che più di ogni altro essere vivente è riuscito a riaccendere la passione del basket nel cuore di chi scrive, nulla potrà mai sostituire la poesia di un’immagine di KD35 con il Larry O’Brien Trophy in cielo, con Westbrook che gli fa scherzi da dietro e l’Oklahoma tutta che lo venera come un messia, un’immagine ancor più dolce se decolorata e nuovamente realizzata con il giallo ed il verde smeraldo, segni perduti di una NBA che non fa far bene i conti con la propria storia.

Non che tutto ciò che abbiamo visto quest’anno non sia stato divertente, intendiamoci chiaramente, però mannaggia a noi, ed alla nostra natura nostalgica. Buone riflessioni estive a voi tutti.

 

3 thoughts on “Nostalgiche riflessioni estive sulla NBA di oggi

  1. Sì, dai, inutile girarci intorno: i playoff di quest’anno sono stati i più noiosi di sempre(o almeno da quando li seguo io, 1989)e la serie Finale deboluccia e con poco pathos(se non già segnata in maniera totale dopo gara 3 – sogni di miracoli a parte -). La Regolar season qualcosa ha regalato di interessante(la sfida per l’MVP, i giovani che si fanno largo, nuovi equilibri nella lega), ma tutti sapevano già dalla palla a due di fine ottobre che la finale sarebbe stata GS vs CLE again, salvo infortuni – che poi hanno colpito gli altri e non le due squadre. Anche nei periodi dei grandi domini stile Lakers di Shaq&Kobe e dei BULLS di MJ i p.o. regalavano sempre grosse emozioni e belle serie e la regolar season offriva cmq incertezze varie.
    La NBA deve forse ripensare qualcosa, porre nuove leggi, ripensare il peso di questi super-team per non rischiare di vedere una deriva calcistica dove vincono solo e sempre i più ricchi. Non penso, per fortuna, che siamo già a questo scenario, ma questa è stata, almeno per me, l’annata di NBA più deludente e noiosa alla quale ho assistito e preferirei non doverlo rifare.

  2. Davvero la stagione più noiosa di sempre, i play off più scontati in assoluto e una sola serie degna di interesse, quella tra San Antonio e Houston. I giornalisti e i commentatori ci hanno provato a farci credere che la serie finale potesse avere un minimo di pathos, ma ovviamente così non è stato.
    Ritengo comunque che siano corsi e ricorsi storici… non servono regole o leggi ad hoc per cambiare le cose…

    • Sì, per fortuna non siamo a “L NBA oramai è una noia”, come ho scritto “…forse ripensare qualcosa”. A mio parere questa stagione ha fatto scattare il campanello d’allarme, tutto qua. Magari la prossima avrà altri scenari e una serie finale bella come quella 2016; anzi mi auguro fortemente che la NBA non debba ripensare nulla e abbia già dentro di sè gli anticorpi contro la noia e i superteam.

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