Non sono (più) i campioni in carica, ma l’attenzione è sempre tutta su di loro. D’altra parte, parlare dei Cavaliers durante la regular season è “inutile”, visto che nei playoffs si trasformano in un’altra squadra.

Dopo 39 partite, hanno il miglior record della Lega (33-6), il miglior attacco e la quarta miglior difesa, primissimi negli assist e nei punti in contropiede.

Ma allora, cos’è questa storia dei Warriors in crisi, e perchè i Cavs sono davanti a loro in praticamente tutti i ranking dei siti specializzati americani?

Fondamentalmente, tutto nasce dalle ultime 2 sconfitte: quella di Natale a Cleveland, e quella del 6 gennaio in casa contro i Memphis Grizzlies.

In entrambe le partite, lo stesso copione: vantaggio in ampia doppia cifra fino a metà del quarto periodo, clamoroso calo di concentrazione, rimonta degli avversari, attacco in confusione, minuti di brutto basket, spettri della rimonta dal 3-1 che ritornano.

Ma non dovevano essere immarcabili e clutch con un Durant al posto di un Barnes?

Ormai la cosa è data per acquisita e perfettamente normale, ma l’inserimento a tempo di record di un giocatore come KD in una macchina perfetta come quella dei Warriors non era affatto scontata.

Il giocatore sta producendo con un’efficienza spaventosa (25,9 punti col 53,6% dal campo e il 38% da 3, oltre a 8,7 rimbalzi, 4,7 assist e 1,7 stoppate) aggiungendo in difesa una verticalità e una rim protection che ovviamente Barnes non poteva dare, ma che raramente si era vista anche ai tempi di Oklahoma City.

In particolare, sta beneficiando del fatto che non è più il primo giocatore ad essere raddoppiato e messo nel mirino dalle difese perchè quello è, nonostante tutto, sempre e solo Stephen Curry.

La “crisi” di Steph

Dopo circa metà stagione, le cifre stanno dicendo che il prezzo più alto per l’inserimento di Durant l’ha pagato proprio il due volte MVP: da 30 a 24,8 punti di media, dal 50 (?!) al 47% al tiro, dal 45 (!?) al 40% nel tiro da 3, ma anche un assist in meno e una mezza palla rubata in meno. Il tutto, beninteso, con un minutaggio sostanzialmente identico.

Le cifre di Chef Curry rimangono di tutto rispetto, ma il calo è innegabile, e se una riduzione del numero di tiri e punti era prevedibile, abbastanza imprevedibile è il calo di efficienza: sembrerebbe quasi che Durant abbia beneficiato della presenza di Steph, ma non il contrario.

In realtà, a tutto c’è una spiegazione: le cifre mostruose dello scorso anno era legate anche al suo entrare in ritmo, ad avere sempre il pallino del gioco in mano, il semaforo verde assoluto nella creazione di occasioni per sè e i compagni.

Quest’anno, un certo numero di palloni sono stati lasciati ovviamente a KD come creatore di gioco, non solo come finalizzatore, e Steph ha fatto spesso lo specchietto per le allodole attirando i raddoppi ma perdendo ritmo.

Gli avversari, inoltre, dopo 2 anni di un suo dominio quasi assoluto, hanno imparato qualche tattica in più per limitarlo: body check selvaggio quando gioca senza palla, raddoppi altissimi sempre e comunque con lo scopo di levargli a tutti i costi il pallone dalle mani.

Negli ultimi giorni, tuttavia, si sta cominciando ad intravedere il vecchio Curry, più coinvolto in attacco, meno play d’ordine – che non è il suo ruolo – e più aggressivo al ferro, che non è il suo punto di forza ma è quello che gli concedono le difese.

E gli altri?

I Warriors ovviamente non sono solo Curry e Durant. Klay Thompson non ha cambiato di una virgola il suo modo di giocare, che fitta benissimo con 2 creatori di gioco del genere, ed ha sostanzialmente gli stessi numeri dello scorso anno.

Dreymond Green tira (e segna) un po’ di meno, è leggermente meno coinvolto nel pick and roll di quanto magari la squadra avrebbe bisogno, ma è sempre l’anima del team in difesa, mentre in attacco è il miglior assist-man, oltre che – strano a dirsi – il più integralista credente nell’attacco di flusso, basato su movimento di uomini e palla e senza isolamenti. Chiedere a Durant per spiegazioni.

A parte i primi 4 All Star, ai Warriors di quest’anno manca ovviamente Bogut, sostituito dal corpaccione di Zaza Pachulia, fondamentalmente più sano dell’australiano, ma molto meno decisivo in difesa e abbastanza legnoso in attacco.

Iguodala e Livingston finora non hanno brillato, con cifre in calo e una freschezza atletica rivedible: tuttavia, il loro contributo diventerà decisivo più avanti, quando si spera saranno più in forma.

McGee e West si stanno rivelando 2 inserimenti azzeccati, anche se è tutto da vedere che nel clima playoffs possano rivelarsi all’altezza del momento e della pressione.

In mezzo a tutto questo, Steve Kerr è alle prese con la sua sfida più grande: non più portare una squadra di underdog al titolo, non più battere il record di vittorie in stagione, ma preparare tatticamente e psicologicamente una squadra fondamentalmente nuova alla sfida più difficile, quella con i Cavalieri del Re, lui si il vero dominatore dell’ultimo decennio, che pare aver raggiunto un grado di maturità e sicurezza non molto distante dall’MJ dei bei tempi andati.

L’anello è l’unico risultato utile per i Warriors, che rimangono squadra “femmina”, a cui piace specchiarsi nelle proprie skills col rischio di fermarsi sul più bello, quando inizia la rimonta degli avversari, gli spazi si chiudono, bisogna cominciare a fare a gomitate con Lebron, Love e Tristano e bisogna decidere a chi dare la palla per il tiro decisivo.

Steve Kerr saprà tenere unita, e fiduciosa, una squadra di campioni nei momenti più critici che sicuramente arriveranno?

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