Grande era la curiosità di vedere i Rockets in questo inizio di stagione, una squadra reduce da un’annata in cui era partita con ambizioni da titolo ed era arrivata sfasciata, sfiduciata e con uno spogliatoio a pezzi.

Curiosità si, ma anche un po’ di supponenza, con quel sorrisetto un po’ così che inevitabilmente ti viene quando pensi ad Harden, al meme di Harden che fa finta di difendere e si limita a guardare compagni ed avversari che corrono mentre lui passeggia, affidato a Mike D’Antoni, l’allenatore del Run & Gun estremo, quello che da sempre punta a segnare un punto in più degli avversari per vincere le partite.

Curiosità, infine, di vedere una squadra senza Howard, con Capela e Ryan Anderson titolari, con Eric Gordon ed il suo talento innato nel farsi male, una squadra praticamente senza panchina e con giocatori generalmente senza l’atletismo e l’integrità fisica necessari per correre per 48 minuti.

Ecco, dopo le prime 14 partite si può dire che la nostra curiosità, quanto meno, sia stata appagata: pur essendo presto, si può già dire che i Rockets di D’Antoni sono meglio di quelli di Bickerstaff, non che ci volesse molto.

Ma sono anche meglio di quanto tutti si aspettassero, per lo meno nell’immediato.

Capela sta tenendo botta nel ruolo di starter, ben supportato dal redivivo Nenè, che sostanzialmente è la sua nemesi: esperto dove il primo è giovane, ragionatore dove il primo è istintivo, tecnico dove il primo è atletico. In posizione di centro, per D’Antoni basta e avanza.

Dalla sera alla mattina, con l’arrivo di 2 super specialisti come Anderson e Gordon, i Rockets sono diventati una macchina da triple: primi per tentati con quasi 36 tentativi a partita, sono anche 5° per percentuale, con uno stupefacente 37 per cento.

In particolare il quintetto, da questo punto di vista, è una cosa mostruosa: 40% Anderson, 38% Ariza e Gordon, addirittura 50% Beverley in quelle poche tentate. E 36% Harden.

36% da 3 per Harden? Ma avete visto che tiri da 3 prende Harden?

Harden “da playmaker” è ovviamente la genialata inventata da D’Antoni per ingraziarsi la stampa: il Barba continua a giocare come ha sempre fatto ai Rockets, dove non c’è mai stato un playmaker, però quest’anno “da playmaker” viaggia a 28 punti, 12 assist e 7 rimbalzi. Non male per uno che l’anno scorso è stato escluso dai 3 migliori quintetti NBA.

Certo c’è sempre quella faccenda chiamata difesa, dove – mettiamola così – in genere “si risparmia”, ma per lo meno quest’anno un’azione su 3 ci prova, e in determinate situazioni di gioco statico e in generale dove può far valere il fisico, è anche efficace.

Ma alla fine della fiera, la vera genialata di coach Mike per far rendere una squadra così, sempre sul filo del rasoio da una parte per l’affidarsi al tiro da 3, dall’altra per lo scarso atletismo di base dei suoi uomini migliori, è stata un’altra: adattare lo Small Ball ai ritmi di Harden, passare dai “7 second or less” di una Phoenix che aveva gambe come nessuna (Nash+Marion+Stoudemire) al “Rythm & Blues” del Barba, a quel suo stile unico che gli consente di creare metri di spazio per i tiratori senza correre, senza faticare a vuoto, accelerando negli spazi stretti e per poi subito fermarsi e indietreggiare e sbilanciare la difesa.

In questo, nessuno è come lui oggi nella Lega, e nessuno è come i Rockets, i primi forse a fare il Run & Gun alla moviola, e vincere.

One thought on “D’Antoni, Harden e il Run & Gun alla moviola

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