Alla fine, come molti si aspettavano, Sam Hinkie si è dimesso.

In realtà, non per il motivo che il tifoso occasionale potrebbe pensare, ovvero i risultati.
Probabilmente nessun GM nella storia ha mai avuto un record peggiore del suo 47-195, un vergognoso 19% di vittorie, oltretutto sempre in calando, ogni anno peggio (19W il primo, 18W il secondo, 10W finora a poche partite dal termine).

Ma no, non è questo il motivo delle sue dimissioni, né il giusto metro per giudicare il suo operato ai Sixers.

Il motivo, questo ormai è lo sanno tutti, è stato l’arrivo in dicembre di Jerry Colangelo, chiamato dalla proprietà per fare lo “Special Advisor”, sostanzialmente un tutor per il GM, un supervisore.

In un primo momento si pensò che la proprietà, che fino ad allora aveva sostenuto, se non incentivato, “The Process”, ovvero il modus operandi di Hinkie, volesse semplicemente affiancargli una personalità ben nota e riconosciuta in NBA, un tranquillo settantaquattrenne con trentennale expertise nel settore che facesse un po’ di pubbliche relazioni ai piani alti senza neanche doversi trasferire in Pennsylvania, ma direttamente dal suo ranch in Phoenix, Arizona.

In realtà, come si capisce oggi, le cose sono andate ben diversamente.

Dal minuto uno, Colangelo ha sempre avuto un’unica e ferrea convinzione: Hinkie non aveva le doti umane e di relazione per fare bene quel lavoro.

Era probabilmente un mago degli Analytics (scuola Morey), uno dei più profondi conoscitori del Salary Cap in circolazione (laureato alla Stanford Graduate School of Business), ma per farsi largo nelle acque agitate dei GM NBA e godere del rispetto delle altre franchigie, non era la persona giusta.

In realtà, fino ad oggi, Hinkie è sempre stato un oggetto misterioso: poco a suo agio davanti alle telecamere, poco propenso ad apparire in pubblico, poco amato dai suoi colleghi per il carattere scostante e per la sinistra tendenza a tirare bidoni nelle trattative (rimasta mitica la multa di 3 milioni per aver mentito sulle condizioni fisiche di Jrue Holiday).

Ma proprio per queste sue caratteristiche, era considerato dalla stampa “smart” (Grantland & c.) e dai suoi lettori nientemeno che il Vate, l’Oracolo, il G.M. 2.0., The Machine, per dirla alla Person of Interest.

Ogni sua mossa: un successo. Ogni sua sconfitta: in realtà, una vittoria.

Se c’è un aspetto in cui ha fatto sicuramente un buon lavoro, è quello delle trade: il pacco Holiday, come detto, ma anche il pacco Carter-Williams ai Bucks, senza contare tutte le scelte ottenute accettando contratti scandalosi da altre squadre desiderose di disfarsene.

La filosofia di base di queste sue mosse era corretta: avere flessibilità salariale, avere scelte, ricostruire. Ma è a questo punto che entrava in gioco il suo peggior difetto, quello che alla fine ha causato il suo insuccesso: il suo ego.

Hinkie, come leggiamo oggi nella sua lettera di dimissioni agli azionisti, non voleva essere un GM come tanti, voleva essere IL GM: quando tutti gli altri executive nella Lega “facevano zag, io volevo fare zig”.

Questa smania di distinguersi, di voler essere il migliore ed al tempo stesso anticonformista, hanno portato la sua giusta filosofia all’estremo: scegliendo al draft giocatori non pronti, infortunati o a rischio infortuni, o già impegnati con lunghi contratti in Europa. E comunque draftando solo ed esclusivamente in base al potenziale e mai in base alle effettive necessità della squadra, correndo grossi rischi, rischi che spesso si sono rivelati disastrosi.

La sua smania di accumulare scelte per aumentare le chance di azzeccare quella decisiva, la super star che avrebbe cambiato la storia della franchigia, gli hanno fatto dimenticare, o sottovalutare, o ignorare, le immediate necessità di un roster che per 3 anni è stato degno di una squadra NBDL, non NBA, distruggendo l’ambiente e il morale dello spogliatoio, costringendo un buon allenatore a mandare in campo squadre senza arte né parte, senza playmaker, senza tiratori.

Una delle prima mosse volute da Colangelo al suo arrivo fu il ritorno di Ish Smith, onesto mestierante e nulla più, la prima parvenza di un playmaker dai tempi di Holiday: solo con lui sono arrivate le prime vittorie, sempre pochissime, ma meglio di niente.

Quello che Hinkie non ha considerato, o non ha voluto considerare, è che una squadra vincente non si costruisce solo con il draft: si costruisce inserendo questi giovani in un ambiente positivo, in una squadra magari povera di talento ma competitiva, con un nucleo di giocatori veterani seri che insegnino ai giovani a rispettare il gioco dentro e fuori dal campo, in una cultura sportiva dove la sconfitta non venga vista come un valore per avere una scelta più alta, ma come una lezione da imparare per migliorare, singolarmente e come squadra, perchè non capiti più.

Nella sua lettera di commiato finalmente conosciamo il vero Hinkie, un presuntuoso arrogante che per dimettersi cita Abramo Lincoln e Warren Buffet, che elenca il numero di scelte che ha ottenuto dalle sue trade come se bastassero quelle a portare gli anelli o a dare rispettabilità ad una franchigia, franchigia che ora senza di lui si ritrova si con una gran quantità di asset, ma con una squadra in macerie, ancora da ricostruire, ed un pubblico disilluso, intristito, arrabbiato. Ma forse, da oggi, di nuovo speranzoso.

One thought on “L’addio di Sam Hinkie

  1. Il caso, sotto certi aspetti, è molto semplice, il lavoro di Hinkie ha prodotto una squadra nel caos, senza identità, senza tecnica, un cantiere aperto pieno di giovani e tanta incertezza. Accumulare scelte è una buona strada, ma se si crea anche un contesto. I 76 sembrano una scuola quando sta per suonare la campanella finale, solo casino e incertezza. Hinkie non ha costruito nulla se non ammassare talento(e fra l’altro senza infilare neppure un atleta che spacca- almeno per quello visto fin qui. Quindi la sua uscita di scena mi sembra inevitabile.

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