Fra le tante storie di sport che quotidianamente ci arrivano dagli States, due oggi campeggiano sulle prime pagine dei siti specializzati: quella di Kobe Bryant per la NBA, e quella di Peyton Manning per la NFL.

La star dei Lakers, 37 anni suonati di cui 19 passati in maglia gialloviola per complessivi 55.000 minuti (?!) trascorsi sul parquet, è appena riuscito a portare a casa, non senza fatica, la seconda vittoria su 10 partite disputate.

Nella sfida contro i giovani e rampanti Pistons di Van Gundy, Byron Scott l’ha tenuto in campo più di ogni altro giocatore: 35 minuti giocati in apnea e comunque conclusi con 17 punti, 8 rimbalzi e 9 assist, alla faccia di chi lo vorrebbe ormai bollito, una vecchia gloria che non vuole arrendersi.

Il dopo partita, tuttavia, è impietoso. Negli spogliatoi, ai giornalisti racconterà di riuscire a mala pena a stare in piedi a causa di lancinanti dolori a schiena e gambe. “Non credo di riuscire ad arrivare al parcheggio in queste condizioni”.

Il fatto è che da anni tutti sanno che Kobe ha chiesto troppo al suo fisico nel corso delle sue 19 stagioni: troppi minuti, troppi tiri, troppe schiacciate, troppi allenamenti – al limite dell’ossessivo-compulsivo – troppo tutto.

Lo sapeva coach D’Antoni nella stagione 2012-2013, quando lo fece giocare – che fosse un’idea sua o di Kobe non ha nessuna importanza – una media assassina di 38 minuti a partita (con svariate partite oltre i 40) fino a quando, a 4 gare dal termine della stagione, il suo tendine di Achille fece sapere di averne avuto abbastanza.

Coach Mike già ai tempi di Phoenix aveva il vizio di usare una rotazione di giocatori molto corta in regular season, e cortissima ai playoffs, e di spremere le sue stelle (leggi Steve Nash) fino alla sfinimento: personalmente, non gli perdonerò mai questo suo comportamento insensato con Bryant, perchè quel momento – come tutti sospettavamo – è stato l’inizio della fine della sua carriera.

Lo sa anche l’ottuso Byron Scott che far giocare oggi 35 minuti a Kobe è da incoscienti, è da pazzi scatenati, ma anche lui non può farci niente: se vuoi avere una chanche di vincere, oggi come allora, devi tenerlo in campo.

Senza scomodare le statistiche avanzate, il solo plus minus di queste prime 10 partite stagionali dice che con in campo i giovani leoni Randle e Russell si va regolarmente sotto in doppia cifra con tutti, e senza Kobe si va sotto comunque di 6: se vuoi portare a casa una W ogni tanto, gli devi chiedere gli straordinari.

La domanda è: come hanno potuto i Lakers ridursi in questo stato, costringendolo ad un finale di carriera così sconsolante?

Peyton Manning, viceversa, dopo il 2011 trascorso ai box per una operazione ed una delicata riabilitazione al collo, prese una decisione diversa da quella di Kobe: lasciare i suoi amati Indianapolis Colts, anche loro in fase di ricostruzione, per approdare ad una squadra già di buon livello in cerca di un quarterback, i Denver Broncos.

Decisione che sicuramente ha pagato dividendi, con 3 stagioni ad alto livello, una finale disputata, e la dimostrazione di essere tornato competitivo nonostante gli anni, gli acciacchi, le botte di uno sport che non perdona e in cui, se sei il quarteback, sei quello che sta fermo mentre tutti ti corrono in contro per stenderti.

La resilienza di Peyton è leggendaria, ma forse quest’anno ha chiesto troppo al suo fisico: dopo un finale di stagione in calando lo scorso anno, questa annata è stata tutta un calvario, con un QB Rating fra i peggiori, meno del 60% di completi, e 17 orribili intercetti contro solo 9 TD.

Forse Manning ha preteso troppo da se stesso, forse il coaching staff – pur conoscendo le sue condizioni fisiche precarie (pare che addirittura dalla mano destra abbia perso parte della sensibilità sui polpastrelli per un problema di nervi) – abbia comunque preferito avere lui al 30% che il suo backup al 100%, ma dopo l’ultima sconfitta ora finalmente si è deciso di fermarlo, di lasciare che si curi la fascite plantare che non gli permette la giusta spinta con le gambe, e di sperare di riaverlo in una condizione più decente in vista dei playoffs.

Perchè Denver, a parte Manning, è una buona squadra e la gente del Colorado farebbe carte false per regalargli, e regalarsi, un nuovo anello.

E’ il momento insomma, per questi 2 grandi campioni, di guardare in faccia alla realtà: dopo aver scritto la storia delle rispettive leghe per 15 anni, il fisico sta urlando loro che siamo alla fine della corsa, e volenti o nolenti è giunto il momento di ascoltarlo, di farsene una ragione.

Il 2016 potrebbe essere l’anno del ritiro di Kobe Bryant e Peyton Manning.

Una cosa che, a vederla scritta nero su bianco, fa una certa impressione.

2 thoughts on “Kobe Bryant, Peyton Manning e la malinconia del tramonto

  1. Lo sanno entrambi, ma sono prigionieri dorati dei rispettivi contrattoni.
    Non so se sceglierei la sedia a rotelle in cambio di 20 milioni di dollari.
    Loro evidentemente la pensano in maniera diversa.

  2. Mi sembra un’ottica un po’ riduttiva. Jabbar andò avanti fino a 40 anni perché dopo varie disavventure, un po’ di dollaroni gli facevano comodo, ma non è il caso di KB o Manning. Anche altri giocatori, come Malone, Stockton, o Jerry Rice, sono andati avanti fino ad età insensate. Prigionieri pure loro? No, semplicemente, hanno avuto la fortuna di avere allenatori intelligenti, che li hanno centellinati.

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