Sono sempre stato un appassionato di sport americani.

Al giorno d’oggi può anche essere una pratica abbastanza in uso, ma vi assicuro che per chi, come me, ha parecchie primavere alle spalle la questione non può essere così scontata.

Il calcio è sempre stata la passione che mi accompagna da una vita: il tifo per la Juve è sempre andato di pari passo con l’attività agonistica. Tutta la mia vita sportiva è girata intorno a questo, ma non solo. C’è e c’è stato sempre dell’altro oltre al pallone.

Fin da piccolo, vi dicevo, mi sono sempre interessato a quegli sport così strani per chi sta da questa parte dell’oceano: il football americano e il baseball.

Già dalla tenera età mi sono messo sotto, ho cercato di imparare le regole e ho scoperto che è la pigrizia mentale che ti porta a non volere capire questi sport.

Una volta entrato nel meccanismo non ne sono più uscito, meno male, aggiungerei io. Sono talmente semplici, ma la gente non ne vuole sapere. Seguire uno sport di nicchia ha i propri vantaggi.

Il baseball, dicevamo.

Il baseball l’ho sempre amato; la mia fortuna è stata trovare un compagno di scuola di origine parmense il quale, un bel giorno, arrivò con buona parte dell’attrezzatura in classe.

Ci fu subito curiosità da parte di tutti, e ovviamente la mia non poteva mancare. Da quel momento le partite pomeridiane di calcio, quelle con gli zainetti al posto dei pali, venivano integrate o addirittura sostituite con delle improvvisate partite di baseball.

Imparare bene le regole, per me che già un po’ le masticavo, è stato come bere un bicchier d’acqua. Un sogno avere tra le mani una pallina vera, un guantone vero, una maschera da catcher.

Poco importa che le basi non ci fossero, che la terra rossa in realtà fosse il cemento del cortile scolastico, e che fare homerun volesse dire non spararla sul green monster o nella baia di San Francisco ma piuttosto su una finestra del condominio adiacente alla scuola.
Chi passava da quelle parti a volte si fermava, curioso.

La passione pian piano è cresciuta. Allora era veramente dura, ma lo è stato fino a pochi anni fa, recuperare informazioni su quello che succedeva al di là dell’oceano. Le partite giocate di notte negli Usa avevano un alone di mistero.

I risultati li scoprivi giorni dopo, le classifiche magari te le pubblicavano una volta a settimana. Non c’era internet, non c’era tutta la comodità dei nostri giorni. Vedere live una partita era una chimera assoluta.

Le prime World series decenti che ho potuto seguire sono state quelle del 1990, Oakland contro Cincinnati, me le ricordo come fosse ieri. Poi a piccoli passi è stata la tv a venirci incontro, Tele+, le world series almeno quelle in diretta, Sport Time Usa. Fino ad arrivare alla modernità, a tutto vissuto istante per istante in diretta come accade oggi.

Da quel momento in poi per me la passione per il baseball, per le Majors in particolare è stata qualcosa di esponenziale, fino ad arrivare alla dipendenza che mi assale ancora oggi.

Non vi nego che gran parte dei miei viaggi americani sono sempre stati legati oltre alla curiosità per quella cultura e quel mondo così lontano dal nostro anche alla passione infinita per baseball e football.

In tutto questo ho avuto la fortuna di vedere un buon numero di partite di majors, ho avuto la fortuna di essere a Fenway, di vedere i Packers al Lambeau. Sono stato fortunato, sono momenti che non dimenticherò fino alla fine dei miei giorni, il coronamento di una passione.

Non ho mai avuto nei primi anni di passione una squadra preferita per cui tifare. Ho sempre guardato una marea di partite (allora in realtà erano ben di meno rispetto a quelle che puoi vedere oggi con l’impeccabile servizio di mlb.tv) in maniera distaccata più da appassionato del gioco, senza esserne direttamente coinvolto.

Agosto 2001, è un sabato.

Sono nel bel mezzo del mio primo viaggio a stelle e strisce con la mia compagna. Un viaggio piuttosto fuori dall’ordinario, che inizierà e finirà a Nashville, una metà insolita per un europeo negli Usa.

In mezzo decidiamo di fare un po’ di zig zag, letteralmente prendendo la cartina in mano, con una macchina a noleggio. L’importante è assicurarsi un tetto per dormire la sera, il luogo lo si decide al momento.

E’ un tipo di vacanza che faremo in seguito più volte, un on the road non così romanzesco come quello dei film ma comunque affascinante.

Saint Louis, Mississipi, arco.
E già che ci siamo Busch stadium, solo da fuori.

La mia compagna ancora non sa bene cosa la aspetterà in futuro, non si immagina che io possa essere così fanatico di uno sport che ai più appare incomprensibile e noioso, terribilmente noioso.

Quel sabato di cui vi sto raccontando decidiamo di andare a Kansas City.  Non c’è un motivo in particolare, nel tragitto che stiamo seguendo piuttosto casualmente è il punto più grande della cartina geografica.

2538637Finiamo nel financial district, di sabato mattina. Un’accoglienza non proprio entusiasmante come potrete intuire. Vediamo il centro, ci sono molte fontane, molte mucche “finte” che stazionano nelle passeggiate pedonali.

Cosa c’è di bello a KC? Praticamente nulla, ma per me diventerà a breve la città più bella del mondo. Il motel che abbiamo scelto è decentrato, bisogna passare da una tangenziale.

Una tangenziale come ce ne sono a migliaia, ma quella tangenziale passa proprio di fianco a uno stadio, uno di quegli stadi che io vedo in televisione.

Eh sì, lo stadio è il Kauffman stadium. Lo stadio quel sabato pomeriggio si sta riempiendo, per una sfida contro i Tigers.
Lo stadio dei Royals è bellissimo a vederlo da fuori, c’è quella immensa corona che regna sovrana e abbellisce un paesaggio ai limiti del desolante. L’impianto, lo scoprirò anni dopo, dentro è un vero spettacolo.

In quegli anni i Royals toccheranno quota 100 sconfitte in stagione, che è un po’ la quota minima per definire una franchigia come desolante. Sì perché quando ne perdi cento su centosessantadue non puoi che essere desolante e lontana da quello che può si può definire uno squadrone.

Ma non importa, io quel sabato pomeriggio avevo deciso.
Avevo deciso che sarei stato un Royals, per sempre.

Andando per logica non può essere stato solo quell’episodio a legarmi a questi colori, probabilmente è stato destino. Da quel momento in poi il baseball era sì baseball, ma ora c’erano pure i Royals.

I Royals hanno una storia relativamente recente, non sono una delle squadre storiche del baseball americano, la fondazione risale solamente al 1969. Il 1969 per il baseball e per le sue antiche tradizioni è quasi ancora sinonimo di moderno.

La squadra è divenuta presto competitiva, raggiungendo spesso la post season. Il 1985 è stato però l’anno di grazia della squadra, dopo l’ennesimo titolo divisionale stavolta è arrivato l’anello e il titolo.

I Royals ribaltarono la serie sotto da 3-1 (da allora nessuno ci è più riuscito) e vinsero il titolo in gara sette nella famosa I-70 series contro i Cardinals.

Da quel momento in poi il buio, per ventotto lunghi anni quella bellissima gara sette fu l’ultima partita di playoff giocata dai Royals.
Il mio tifo quindi è arrivato forse nel periodo peggiore della storia della franchigia. il 2003 è stato l’ultimo anno con un record vincente e da quel momento in poi il buio più totale, parlando di risultati, è sceso nella città.

La gente no, quella è sempre rimasta affezionata alla squadra, nonostante tutto e lo posso testimoniare in prima persona.
Sì, perchè nel frattempo una ricerca su google mi ha fatto scoprire sito e forum sui quali ora sto scrivendo e il caso mi ha fatto scoprire un compagno scellerato di tifo, tale Marco Fiumi.

Un italiano, che vive in Turchia, che segue il baseball, che tifa Royals.
Allora al mondo esiste qualcuno di più strano di me. Questo ha portato a una condivisione quotidiana delle sventure ma soprattutto al nascere di una bella amicizia.

Si raccontava dell’affetto della gente. Nel 2012 io e Marco siamo partiti in un altro dei viaggi strani per cui la gente si potrebbe chiedere se siamo normali. Un baseball tour, ma non in posti suggestivi o turisticamente appaganti. Un baseball tour con tappa nella nostra amata Kansas City.

In quei tre giorni che rimarranno scolpiti nella nostra mente abbiamo potuto notare che, nonostante le indubbie difficoltà a raggiungere risultati decorosi, la gente comunque era molto vicina alla squadra.

118561762_crop_650x440Proprio per questo parlavo prima dell’atmosfera del “K” , una piccola bolgia, uno splendido catino pieno di tifo per i Royals. Nonostante tutto, nonostante a fine settembre si chiuda sempre il sipario con bilancio negativo.

Ci piace però pensare che a partire dalla nostra visita qualcosa possa essere cambiato. Se prima posso aver portato sfortuna io, inanellando una serie di stagioni orribili una dietro l’altra, ora le cose potrebbero essere cambiate.

La stagione del pellegrinaggio si chiude ancora con bilancio negativo, ma quella dopo no. Complice anche l’inserimento di qualche giovane interessante finalmente si riesce a vedere un po’ di luce, si chiude con un bilancio finalmente in attivo.

E’ la nostra piccola vittoria, una stagione con più vittorie che sconfitte non può che far bene al morale. Abbiamo spesso fantasticato io e Marco su una ipotetica partecipazione alle World Series, sempre mettendoci una grossa dose di ironia, senza crederci mai fino in fondo.

E invece qualcosa cambia, eccome se cambia.

Siamo ai giorni nostri, nel 2014 i Royals cominciano a macinare vittorie. Arriva per la prima volta da quel famoso 1985, che ormai abbiamo rivisto in tutte le salse, una qualficazione alla post season.

Ma le regole sono cambiate, ora c’è una wild card secca da giocare.
Noi siamo contenti già così, la si sta perdendo nettamente quella gara secca ma avviene il miracolo.

Alla fine arriva una vittoria clamorosa in rimonta, iniziano le notti di ottobre. I Royals diventano una macchina annientando gli Angels nelle division series e i sorprendenti Orioles nella finale di lega.

Quelle World Series tanto insperate arrivano, in un attimo, senza che quasi ce ne rendiamo conto. Servirebbe un ultimo sforzo, un ultimo miracolo in quell’ottobre da incorniciare per provare la gioia più bella.

Ma non accade, la serie con i Giants (quelli che gli anni pari sono imbattibili) è lunga ed estenuante, si prolunga a gara sette. L’ultima, la decisiva, quella che tutti gli appassionati neutrali vorrebbero vedere, tutti tranne i tifosi (in questo caso noi) delle squadre coinvolte.

E in quella gara sette il sogno si spegne, nella maniera più terribile, i Royals vanno talmente vicino a quel titolo da poterlo toccare. Si chiude tutto nell’ultimo turno di battuta dell’ultima partita,all’ultimo respiro, come spesso questo sport ci ha insegnato.

E’ un prolungamento delle sofferenze degli anni precedenti, ma stavolta la sensazione è diversa, pur essendo una delusione tremenda, quando il traguardo è lì vicino e non riesci a tagliarlo è qualcosa di terribile.

Essere Royals vuol dire soffrire, ormai ne prendo atto.

Non pensavo che la stagione appena conclusa potesse in qualche modo avvicinarsi a quella passata. Sbagliavo, eccome. Non solo ci si avvicina come emozioni ma la fa addirittura impallidire in un ipotetico paragone.

I Royals tirano fuori dal cilindro una regular season praticamente perfetta: subito al comando della division in maniera solida, per quasi tutto l’anno la sensazione che il titolo divisionale non possa scappare, mosse alla trade deadline degne di una squadra che ci crede.

Ma io e Marco stiamo zitti, si deve soffrire, siamo Royals.
Alla fine il titolo divisonale arriva, meritato. ll primo, indovinate un po’ dal 1985. L’anno dei Royals, l’anno di ritorno al futuro, ma sarà l’anno dei Cubs si diceva.

Il resto è cronaca, il titolo divisionale ci fa evitare la lottery della wild card. Poi succede il miracolo, quello che non ti aspetti.

Come si temeva la squadra va in enorme difficoltà contro gli Astros, un’altra delle franchigie che da barzelletta diventano contender, tanto in difficoltà da essere praticamente con un piede e mezzo fuori e dal chiudere la stagione, all’ottavo inning i Royals sono a casa.

Ma il baseball ci sorprende sempre in positivo e in negativo.
Non è finita finché non è finita, questo è il dogma del baseball, non è retorica, dovrebbe essere un insegnamento anche per la vita di tutti i giorni. I Royals ribaltano gara quattro, vincono la decisiva gara cinque.

Nella finale di American League arriverà un’altra serie di quelle da ricordare, piene di emozioni, contro i Toronto Blue Jays. E anche qui quando sono con le spalle al muro Kansas City si rivolta contro il proprio destino, gara sette sembra dietro l’angolo, invece arriva la vittoria nella serie 4-2.

Di nuovo World Series, un anno nuovo.

Non vi posso raccontare la tensione di quei giorni, perché se da un lato c’era l’enorme soddisfazione di essere ormai una squadra pronta e con gli attributi (si dice così) per vincere finalmente quel famigerato anello dall’altra c’era la preoccupazione di vedere di nuovo svanire tutto quanto sul più bello, sarebbe stata una delusione difficilmente superabile.

Non basterà un intero dvd per racchiudere le emozioni della serie finale: gara uno ribaltata al nono, Volquez che lancia non sapendo del padre appena morto, Gordon che la pareggia al nono, Familia che brucia la sua prima salvezza e non sarà l’ultima in questa serie, la vittoria al quattordicesimo, il dominio di Cueto in gara due, Syndergaard che ci fa a fette in gara tre.

E poi gara quattro e cinque, l’apoteosi dell’irrazionalità applicata al baseball.

La rimonta all’ottavo con l’errore di Murphy e la serie che va sul 3-1.
kansas-city-royals-world-series-win-celebrationLa rimonta al nono sotto di due punti con la follia di Hosmer e la vittoria agli extrainnings per prenderci quell’anello.

Questo articolo è scritto esattamente una settimana dopo, ma vi assicuro che l’adrenalina probabilmente scorre ancora.

I Royals ce l’hanno fatta, sono riusciti a far dimenticare quel maledetto 1985 che poteva diventare la nostra maledizione come il 1908 per i Cubs.

I Royals ce l’hanno fatta a passare da barzelletta a squadra campione, e ora probabilmente un percorso alla rovescia non sarebbe più così drammatico, sono i cicli della vita e del baseball.

I Royals ce l’hanno fatta a risalire su quel tetto del mondo, come sempre avevamo sognato.

Forse quel sabato di agosto del 2001 eravamo passati dalla città giusta.

2015 ROYALS WORLD CHAMPIONS.

One thought on “Diario di un tifoso Royals

  1. Ci hai abboffato gli zebedei su Facebook a proposito della vittoria dei Royals ma dopo aver letto questo bellissimo articolo ammetto che esulto un po anche io di questo trionfo!

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