E’ sabato e, libero da qualunque impegno lavorativo, il mio programma prevede un trasferimento di un’ottantina di chilometri per arrivare nell’Indiana, dove ha sede Notre Dame, probabilmente la più magica tra tutte le università del college football (qualcuno ha detto “Rudy” ?). I loro avversari di oggi sono i Miami Hurricanes, che con i padroni di casa hanno una rivalità molto sentita dai tempi della sfida “Catholics vs Convicts” del 1988. 

L’arrivo all’ateneo è decisamente d’impatto. Nel senso che i 30 dollari (!) che ti chiedono per il parcheggio sono una discreta rapina, soprattutto considerando che il suddetto parcheggio ti lascia a non meno di tre chilometri a piedi dallo stadio. 

Pazienza, perlomeno durante la camminata ho modo di ammirare il campus che è veramente uno spettacolo. Praticamente è un’oasi di verde dove i colori dell’autunno, le architetture gotiche degli edifici e la temperatura stranamente (per queste zone in questo periodo dell’anno) mite contribuiscono a farmi dimenticare in poco tempo il furto legalizzato da poco subito.

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Lo sport collegiale è spesso un po’ snobbato dai non-americani. Certo, il livello del gioco non è lo stesso degli sport professionistici e durante le partite si vedono molti più errori. Ma il fascino dello sport universitario non dipende dagli aspetti tecnici, bensì è legato a tutte le tradizioni, le rivalità e l’attaccamento alla propria alma mater che permea ogni singolo programma sportivo.

Notre Dame per il college football è un po’ quello che Duke e North Carolina sono per il basket, ossia il punto più alto in termini di tradizione, fascino e vittorie. Per i dettagli vi rimando ad un bellissimo articolo pubblicato qualche tempo fa su queste pagine, io mi limito solo a riepilogare alcuni numeri.

  • 11 titoli nazionali NCAA
  • 13 stagioni completate senza alcuna sconfitta e solo 13 stagioni perdenti in 126 anni di storia
  • Seconda miglior percentuale di vittorie nella storia della NCAA con .733
  • Secondo maggior numero di vittorie totali nella storia della NCAA con 874
  • 7 Heisman Trophy (record NCAA)
  • 487 giocatori scelti al Draft della NFL (record NCAA)
  • 48 tra giocatori e allenatori nella Hall of Fame del College Football (record NCAA)
  • 12 giocatori nella Hall of Fame del Pro Football (record NCAA)
  • 188 giocatori nominati All American (record NCAA)

Dire proprio niente male.

Purtroppo, causa mancata sveglia (dannato telefonino) non ho fatto in tempo ad arrivare per la Player’s Walk, la camminata in cui giocatori e staff tecnico partono dalla scalinata della basilica circondati da due ali di folla per recarsi alla partita, quindi mi dirigo direttamente allo stadio dei Fighting Irish. Un po’ di fatica per trovare l’ingresso per i giornalisti, che non è segnalato benissimo, ma grazie ad un solerte addetto vengo accompagnato a recuperare il mio pass e arrivo velocemente alla zona riservata ai media. Sfortunatamente stavolta non è previsto alcun accesso al campo di gioco o agli spogliatoi (dannata NCAA) ma anche oggi direi non sia il caso di lamentarmi.

Tutto bene quindi… se non fosse per il freddo glaciale che mi accoglie non appena varcata la porta. Ora, io questa cosa degli americani non l’ho mai capita. Va anche bene d’estate, se sei in uno di quei posti in cui ci sono quaranta gradi all’ombra (in ogni caso venticinque gradi di escursione  termica non credo facciano benissimo alla salute), ma oggi fuori ci saranno 17/18 gradi, che bisogno c’è di sprecare miliardi di Watt per creare una simil-ghiacciaia?

L’unico rimedio che riesco a trovare, avendo lasciato in macchina la giacca, è quello di farmi un bel the caldo. Infatti la sala stampa è provvista di ogni genere di cibo e bevande gratis (ancora meglio che allo United Center, dove per lo stesso servizio si pagavano otto dollari), quindi già che ci sono al the caldo unisco anche una Pepsi, un cheeseburger, un paio di hot dog e altrettanti cookies. Si sa, guardare lo sport è un’attività che prosciuga un sacco di energie. 

Riscaldato e rifocillato mi trasferisco alla mia postazione, che come a Chicago anche qui è nella parte alta dello stadio ma almeno stavolta sono in prima fila davanti alla vetrata dello sky box.

foto-skybox

Essendo arrivato comunque in anticipo sull’orario di inizio ho tutto il tempo di assistere al prepartita, in cui gli assoluti protagonisti sono i ragazzi della banda. Oddio, più che “banda” direi “esercito”, visto che parliamo di circa 360 suonatori che si esibiscono con una precisione incredibile sia nell’esecuzione musicale che nei movimenti.

Dopo le coreografie delle cheerleaders, l’ingresso in pompa magna delle squadre e il canonico inno nazionale, finalmente comincia la partita.

Notre Dame va velocemente sul 20-0 grazie a due touchdown e due field goal, poi verso la metà del secondo quarto Miami accorcia con un bel passaggio lungo direttamente in end zone. Un onside kick a sorpresa porta gli ospiti vicino al bis, ma la prima metà di gara si chiude senza ulteriori cambi di punteggio. 

Miami però segna ancora all’inizio della terza frazione e ora il punteggio è 20-14, i Fighting Irish tornano a vedere i fantasmi di una stagione che finora li ha visti vincitori solo in due occasioni a fronte di ben cinque sconfitte. Come detto stiamo parlando di una delle più vincenti università del college football, quindi questa non è sicuramente da considerare come una grande annata.

La partita comunque è decisamente bella, ma la cosa che mi colpisce di più è l’impatto ambientale. Che ci sia il tutto esaurito, ossia circa 81.000 spettatori (!), da queste parti è scontato visto che siamo a 264 sellouts consecutivi (!!!), ma la gente oltre che stare seduta fa anche il tifo per davvero.

Ogni volta che c’è un terzo down, ogni volta che ci si avvicina alla end zone, ogni azione che vada un minimo fuori dall’ordinario, insomma praticamente ogni volta che la palla è in gioco il pubblico si infiamma. C’è il quadruplo (forse il quintuplo) della partecipazione del pubblico rispetto a quanto avviene nei palazzetti dell’NBA, spesso piuttosto deludente sotto questo aspetto.

Pubblico che tra l’altro vede sugli spalti non meno di 5.000 tifosi di Miami, mischiati assolutamente in modo ordinato con gli spettatori di casa (ma negli USA è la norma), che fanno un discreto casino.  Forse anche grazie al loro incitamento gli Hurricanes sono decisamente in partita e un field gol a metà del terzo quarto porta il punteggio sul 20-17.

L’attacco di Notre Dame non riesce più a far avanzare la palla e un altro calcio dalle 37 yards per gli ospiti porta la gara in perfetta parità a 12:30 dalla fine. I Fighting Irish completano la frittata quando su un punt degli avversari il ritornatore di Notre Dame si fa scivolare la palla di mano e gli Hurricanes ricoprono il pallone in end zone per il 27-20 Miami. 

Per ribaltare la partita ci vorrebbe un drive guidato da Joe Montana, che ha giocato qui prima di diventare il miglior quarterback ogni epoca della NFL (personalissima opinione da tifoso dei 49ers, ma non credo così campata per aria…).

L’attuale quarterback De Shone Kizer non è Montana, ma la segnatura arriva ugualmente, grazie ad una fantastica corsa da 44 yards da parte del runningback Josh Adams. Il punto addizionale pareggia nuovamente la partita, ma adesso l’inerzia è cambiata e i padroni di casa recuperano subito palla con ancora 4:43 di tempo da giocare. Ormai sul campo è scesa la sere e il colpo d’occhio è ancora più impressionante.

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Il grido “Let’s go Irish” si sente forte anche oltre i vetri della sala stampa e, nonostante un sanguinoso fumble sulla goal line fortunatamente ricoperto dalla squadra attaccante, un field gol del kicker Justin Yoon manda tutti a casa. La Irish Nation può finalmente festeggiare, perché Miami non ha più il tempo per provare ad imbastire una disperata rimonta.

Lo stadio esplode letteralmente per i suoi beniamini, che si recano sotto la Student Section per cantare insieme ai loro compagni l’inno dell’Università.

Dopodichè mi unisco alla fiumana di gente in uscita dallo stadio per la lunga scarpinata che mi porterà al mio costosissimo parcheggio (lo so, sarà perché sono genovese ma questa cosa mi è rimasta sullo stomaco), stavolta meno piacevole perché ormai è buio e mi aspettano ancora parecchi chilometri in macchina per raggiungere la mia prossima destinazione. Appena il tempo di un’ultima foto sotto il Touchdown Jesus e poi mi rimetto al volante in direzione Minneapolis.

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Ma stavolta si tratta di lavoro, il mio viaggio sportivo è davvero finito. È stata un’esperienza fantastica: sono stato fianco a fianco con delle star planetarie che normalmente possono essere viste solo in televisione, ho sentito un’intera città vibrare per l’eccitazione di un momento atteso da decenni, ho vissuto da vicino le tradizioni e l’atmosfera di una delle più storiche e affascinanti università americane. I couldn’t ask for more!

Per un fan degli sport americani che si diletta con il giornalismo è stato il massimo, spero di essere riuscito a farvi percepire in minima parte le emozioni che ho provato. Spero anche che possano esserci in futuro altre occasioni per raccontarvi da dietro le quinte lo sport a stelle e strisce. Come detto, se potessi scegliere qualche ideuzza per il prossimo viaggio ce l’avrei già.

P.S. Lo so, ho appena detto che con lo sport per stavolta avevo chiuso. Ma passando nuovamente per Chicago non ho proprio potuto fare a meno di fare una piccola deviazione. Si giocava gara 4 delle World Series, il Wrigley Field era proprio lì vicino e volevo tanto sentir cantare dal vivo “Take me out to the ball game” (anche se il pubblico visto il risultato era un po’ scoraggiato).

Quella partita è stata un blowout per gli Indians, devo aver sentito sa qualche parte che in seguito i Cubs si sono presi una discreta rivincita…

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