Di chilometri tanto a piedi quanto in macchina ne ho fatti molti. Un decimo degli Stati, dall’umidità autunnale dell’est mitigata dalla bellezza architettonica capitolina ammirata alla fine di una rincorsa allo Stallone Italiano tra le scale dell’Art Museum fino alle brezza di San Francisco, entrando in punta di piedi in quella cattedrale laica che si chiama Levi Stadium, giocando tra la sabbia delle splendide spiagge di San Diego, traguardo finale dopo lingue d’asfalto bollente in territori aridi, così brulli da spingerti ad interrogarti sul senso della vita e sulla capacità della stessa di adattarsi a condizioni talmente ostili. Ho messo un piede in quattro stati, contemporaneamente. Cose da film, visitando da fuori la Monument – causa scarsa attitudine lavorativa di un simpatico nativo che in barba a qualsiasi condizione astronomica anticipava l’orario di tramonto- interrogandomi ancora sulla vastità del Canyon di cui il suffisso Grand pare essere limitatamente eufemistico. Non ho avuto il coraggio di farmi leggere il futuro tra le residenziali di Sedona, perché in qualsiasi caso l’avrei immaginato diverso migliore: per definizione ottimista benché facilmente suggestionabile, ho preferito ascoltare gli echi di Monterey che suonavano ancora un primetime Hendrix accompagnato da un folkloristico Redding, all’anagrafe Otis seduto al porto della baia.

La mia pancia ha potuto godere di un barbecue coperto da un tetto di una stazione di servizio riconvertita a sagra permanente dove tutti mangiavano con tutti in una situazione di amicizia coatta che mi ha portato ad incrociare i destini di due italiani per cui “sai, a Las Vegas ti viene voglia di bere e fumare anche se solitamente non lo fai”: simpatico, anche perchè a me da quella città veniva solo voglia di scappare tanto era di plastica.

Ho assistito a preparativi di halloween anticipati – almeno per canoni nostrani- che riempivano scaffali di Walmart con buste dolciarie dal chilo in su, da digerire grazie a sostanze gassate trasformabili in gassose, di seguito, dalla capienza superiore a litri due. Cose gigantesche. Come la mole di un anziano cliente che si muoveva motorizzato tra le corsie.

Ho sfidato il destino arrampicandomi tra i gradini che portano a Moro Rock, invocando clemenza al mio Dio onde evitare fulmini di cui il pericolo era segnalato.

Aneddoti di viaggio, dolci di miele, profondi nell’anima: radici del male, chi per l’Africa io per l’America.

Ho fatto chilometri e visto tanto, sognato ancor di più, ma il Texas no. Quello non l’ho potuto ammirare ma ciò non vieta all’immaginazione di percorrere quell’immenso lembo di terra che ama essere chiamato lone star State.

Questione personale di identificazione valoriale e culturale cui ognuno di noi confronta realtà con aspettativa: cosa ti viene in mente se dico America? Provateci, quiz a risposta multipla e non univoca. Dalle grandi strade infuocate a parchi immensi, spiagge dorate californiane da contraltare alla modernità newyorkese ombelico del mondo, benché di un’universo certamente limitato e limitante.

Il Texas è parte a se stante, sogno altro che merita di essere considerato separato dalla pangea a stelle e strisce, galassia onirica cui attingere le migliori interpretazioni della realtà.

Tralasciando mandrie di buoi e cowboys speronati cavalieri in un rosso tramonto costellato da ombre di trivelle petrolifere, Texas pare essere il tutto e il suo contrario, modernità secolarizzata a bilanciare tradizioni radicalizzate, costruzioni fortificate come Alamo di contrappeso a centri commerciali autosufficienti prossimi al cuore di Dallas. Un tanto così attraente da ambire ad essere un tutto.

Espressione spontanea di questo gioco d’equilibrio mai perfetto, gli Houston Texans approdano alla post season per la quarta volta in cinque anni, dopo aver conquistato back to back la AFC South: in questi quattro precedenti una sola insignificante vittoria contro gli allora sfortunati Raiders e un miracolo sfiorato con i Patriots che avrebbe avuto il gusto di eccezionalità qualora fosse accaduto anche e soprattutto per il buon Brock undercenter. Fosse accaduto, non accadde.

Il record 11-5 della stagione scorsa è stato uno dei risultati positivi più brutti di sempre. La qualità del gioco espressa dai texani non è stata delle migliori, una buona dose di fortuna ha aiutato la franchigia a laurearsi campione della division.

Individuo i Texans ancora un passo avanti rispetto ai diretti avversari. Con un 10-6 si vince la AFC South.

Houston Texans 2019 Preview, Carlo Alberto Mattiussi

Una citazione di compiacimento indotto, autoreferenziale, non per questo immune da migliorie o valutazioni post impossibili per quanto tali in situazioni pre: benché migliorato il gioco di Houston pare essere ancora troppo poco solido e altalenante. Ma val la pena approfondire, per chiarire.

Sebbene in sordina gli stravolgimenti avvenuti in casa Texans hanno avuto un effetto dirompente aprendo la via ad un nuovo corso, di calco Patriots volendo forzare la mano: l’allontanamento del GM agli albori della stagione ha segnato la via per il regno dispotico di O’Briendi nome Bill, che ha giocato subito il carico pesante tentando il bluff, riuscito, per un all in da brividi: la cessione di Clowney antipasto della blockbuster trade con Miami, tankante, che ha portato Tunsil Stills a vestire l’elegante blue navy texano.

Brio adrenalinico che ha incoraggiato coaching calls meno conservative, tentativi più frequenti sui quarti corti e una migliore gestione del tempo: il 10-6 stagionale ha un valore superiore all’undici-cinque passato.

Parlando di team offense globalmente considerata, Houston non ha sfigurato benché la convinzione, salda, sia che con un Fuller a pieno regime avrebbe potuto fare molto meglio: le due facce dell’attacco sono state ben visibili e ponderabili. La profondità garantita dal fragile Will apriva spazi fondamentali per un più preciso e solido passing game nella slot dove, considerandolo al pari di un habitat naturaleKeke Coutee non ha saputo sopravvivere.

Stills talvolta impalpabile ha lasciato maggiori occasioni di brillare al revenant Darren Fells capace di trovare la stagione di una vita al pari di quell’Hydenomade sportivo, finalmente accasato in un backfield che ad inizio anno pareva spazio angusto e territorio arido dopo l’appassimento improvviso del buon Lamar Miller.

Decisivo e sempre fondamentale benché incapace di ripetere ciò che lo scorso anno era stato, DeAndre Hopkins è uomo guida di un’attacco che individua in un sempre più granitico Deshaun Watson il faro, ora finalmente protetto – non sempre perfettamente– da una linea d’attacco in crescita. E ci mancherebbe fosse altrimenti.

Da manuale la gestione del lato passivo – indispensabilmente fondamentale nella costruzione del successo- proposta dal buon Romeo Crennel che pare saperne una più del diavolo intonando un against all odds di Collinsiana memoria: quasi completamente svanita, ad un certo punto, la pass rush dove a recitare sono state chiamate le comparse – comunque d’oro- capaci di non far rimpiangere – o almeno non troppo- i protagonisti. In un quadro generale che individua Houston come diciannovesima difesa della Lega – 24.1 punti concessi a gara- restano da incorniciare le prestazioni stagionali di DJ Reader e Whitney Mercilus.

Ad un certo punto, il core difensivo – il perno strategico- ha dovuto essere cambiato: senza essere ripetitivo, nel momento in cui JJ Watt ha fatto – nuovamente e temporaneamente preso atto dell’insperato ritorno – crack il focus è andato a puntare sulla secondaria. Una specifica, una.

Benché sia terza in yards concesse, il problema di Houston non deve essere scaricato sugli uomini di copertura i quali, verosimilmente, si sono resi protagonisti di una stagione in crescendo: statisticamente, i quattro membri introdotti nel roster 2019 – Gipson, Roby, Crossen e Addae– hanno concesso un passer rating inferiore a quello medio globale che si è attestato al 90.9.

Numeri, numeri, numeri.

Contrapposizione naturale all’analiticità numerica, l’eccentricità artistica di casa a Buffalo, terra di conquista europea agli albori della costruzione americana, legata a doppio filo alla tradizione italica di stampo meridionale per lo più.

Crocevia turistico di passaggio sulla via per quelle Falls amate e celebrate di Niagara, abbellita dalla potenza architettonica delle creazioni di Frank Lloyd Wright, terra amica in cui la messa cattolica viene celebrata in italiano: forte l’abbraccio al Santo, Antonio da Padova, perno della cultura clericale on site.

Salto di qualità programmato e prevedibile quello dei Bills d’ottima annata 2019, decantati lentamente, stappati con quel botto poco rumoroso e pertanto lontano dal clamore mediatico chiamato Josh Allen quarterback talentuoso e coraggioso.

Le statistiche parlano di un attacco mediocre – 23esimo nella lega- in cui hanno avuto occasione di emergere Cole Beasley fondamentale nello short game e indiscusso protagonista nella slotJohn Brown capace della miglior stagione in carriera, solido fisicamente e fortemente produttivo: 6 scores e 1060 yards ricevute.

L’onda verde post draft ha colpito forte nel backfield con l’affermazione di Devin Singletary prospetto overlooked dagli analisti autoproclamatisi esperti.

Abito della festa, elegante quanto esclusivo, quello indossato all season long dalla difesa: seconda globalmente, capace di concedere appena 16.2 punti a gara, decima se considerata nell’esclusività della capacità di generare turnovers, differenziale +4.

Tra gli osservati speciali Tre’Davious White fantastico cornerback di contraltare al migliore ricevitore: matchup della serata, grab your popcorns! Facendo attenzione ad evitare l’indigestione prima del dessert che vedrà servito il Davide contro Golia di turno, nella fattispecie realistica di Tunsil contro il pressante front seven difensivo dei rossiblue di Buffalo: Jerry HughesShaq LawsonEd Oliver tra tutti.

La Via Del Successo

Gli incontri di questo di wild card weekend paiono quanto mai appetitosi: lo scontro tra Bills e Texans, però, arricchisce il proprio sapore con l’imprevedibilità del risultato figlia maggiore dall’equilibrio generale che pare regnare assoluto.

Vince Houston se il gioco difensivo riesce a creare una pressione costante sul quarterback. Le sconfitte patite dai Texans in questa stagione sono arrivate quando il front seven difensivo è stato incapace di tenere sotto scacco il signalcaller avversario. Emblematico a tal proposito il match contro i Ravens in cui, fatto salvo un primo quarto soddisfacente, gli uomini di linea sono stati incapaci di ingabbiare Lamar Jackson. Il ritorno di JJ Watt è motivo di speranza, non di garanzia.

Vince Houston se la linea d’attacco riuscirà a tenere testa ai titani della pass rush dei Bills. Nonostante l’arrivo di Tunsil i texani si classificano 25esimi per sacks concessi e 21esimi per QB Hits permessi. Non gratificante. L’importanza della linea è fattore decisivo anche per una buona riuscita del gameplan generale contemplante svariati tentativi di guadagno su corsa per mano di Hyde Johnson.

Vince Houston se – pare riduttivo- Will Fuller sarà capace di essere della partita. L’importanza fondamentale del deep threat numero 15 è conclamata: le sue incursioni permettono di liberare spazi importanti per il gioco a breve e corto raggio, nonchè aumentano le probabilità di successo delle chiamate RPO.

Vince Buffalo se Josh Allen mantiene alta l’efficienza. Tipicamente quando il signalcaller dei Bills si comporta bene, tutto l’attacco lo segue. La semplicità di quanto affermato sta nel confronto analitico delle statistiche relative alle 10 vittorie in rapporto alle 6 sconfitte: nelle occasioni di successo i numeri di Allen raccontano di una percentuale di completi prossima al 65% cui corrispondono 7.4 yards per tentativo, 16 touchdowns a fronte di appena 6 intercetti per un passer rating superiore al 95%; nelle sconfitte i completi crollano ad uno scarso 48% cui corrispondono appena 5.5 yards per tentativo, 5 scores e 3 intercetti per un passer rating di poco superiore al 64%. Semplice no?

Vince Buffalo se la difesa mantiene il proprio status di elite. Fondamentale in quest’annata è stata l’abilità dei Bills di forzare gli avversari al punt: settimi globalmente in percentuale di realizzo di third downs difensivi, 35.8%.

Vince Buffalo se l’attacco riesce ad essere incisivo. E non è una ripetizione della prima condizione: solamente due volte i Bills hanno segnato 30 o più punti, appena 5 più di 20 e conseguentemente nelle restanti 9 partite sono rimasti sotto quella cifra.  La via più probabile per una vittoria di Buffalo è un match a basso punteggio e ciò implica condizioni favorevoli per l’incisività del gioco di corsa: fondamentale l’apporto dei linemen nella creazione di spazi.

Fischio finale

Lanciarsi in una previsione è compito rischioso: tutti i fattori considerati o meno mantengono in sostanziale equilibrio i piatti della bilancia. Un low scoring game sarebbe favorevole a Buffalo. Le probabilità di successo di Houston aumentano all’aumentare della possibilità di indirizzare la rotta verso una partita ad alto punteggio.

Houston Texans 30Buffalo Bills 24

 

 

 

 

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