ARIZONA, L’IMPORTANZA DELLE CORSE NELLA AIR RAID OFFENSE

Kenyan Drake è stato un ottimo affare per i Cardinals.

Per i Cardinals il lavoro da svolgere al termine di un ciclo ricostruttivo ulteriormente ripreso per mano dopo la sgraziata annata targata Steve Wilks è davvero ancora molto, ma i primi frutti si cominciano se non altro ad intravedere. La franchigia ha come noto impostato la sua personale rivoluzione su filosofie offensive collegiali che Kliff Kingsbury sta tentando di traslare al professionismo, un processo di transizione che porta con sé qualche sofferenza necessaria nel trasportare il tutto in una cultura molto legata alla tradizione ma che ultimamente ha aperto la mente, senza inoltre considerare la totale ristrutturazione cui dovrà essere assoggettata la difesa, reparto riuscito ad eseguire un lavoro addirittura peggiore rispetto ad un 2018 già di per sé poco incoraggiante.

Nonostante la Air Raid offense sia principalmente basata su una fitta rete di passaggi che permette ai quarterback collegiali di accumulare cifre fantascientifiche, è in ogni caso emersa una relazione molto interessante tra le poche vittorie dei Cardinals e la loro positività nel correre il pallone, un aspetto evidenziato con decisione dopo la trade deadline, periodo che ha portato a roster il principale responsabile del salto di qualità del backfield, Kenyan Drake. L’ex-Dolphins si è inserito nel meccanismo di Kingsbury a tempo di record sfoggiando già molte delle sue qualità in occasione di un Thursday Night di fine ottobre, quando Arizona diede battaglia a San Francisco ed il neo-acquisto, senza aver goduto del tempo necessario per studiare a fondo il playbook, aveva confezionato una prova da 162 yard totali ed una meta cominciando di fatto a prendere il posto dell’infortunato David Johnson senza che ci si rendesse realmente conto che tale acquisizione avrebbe seriamente aver rappresentato l’inizio della fine dell’esperienza del forte running back nel deserto.

Drake presenta difatti non poche analogie verso il suo predecessore, un running back capace di correre con efficacia, potenza e doti atletiche di prima qualità, accumulando generose cosiddette all-purpose yard generando fatturati che ne delineano la capacità di essere cercato quale ricevitore primario in uscita dal backfield. Quello dei Cardinals è un sistema che gli è evidentemente più congeniale proprio per il modo in cui utilizza il running back così differentemente rispetto a Miami, luogo dove peraltro ad inizio stagione c’era una tale sensazione di pesantezza dentro lo spogliatoio da indurre parecchi giocatori a favorire la propria fuga. L’idoneità della filosofia è certamente data dalle 4.79 yard per portata che Drake ha fatto registrare dal momento del suo arrivo in Arizona, contribuendo ad un gioco di corse che se posto nelle condizioni di produrre adeguatamente difficilmente non permette di portarsi a casa anche la vittoria.

E’ accaduto proprio questo domenica contro i Browns nello scontro che avrebbe dovuto vedere protagonisti due quarterback uniti dall’esperienza collegiale e dalla posizione di scelta, e che invece ha visto il palcoscenico sottratto dalle 137 yard e quattro mete firmate proprio dall’ex-running back di Alabama, principale contribuente per le 226 yard – miglior risultato stagionale – derivate da un backfield che non casualmente aveva creato 174 yard di media nelle tre vittorie precedenti dei Cards. Lo sviluppo della situazione non depone certo a favore di Johnson, utilizzato solamente in tre snap ricevendo un messaggio addirittura cristallino da parte del coaching staff, fissando di conseguenza quale obiettivo primario del front office la conferma di un Drake in scadenza del contratto originariamente firmato da matricola, un accordo che potrà permettere a Johnson di accasarsi altrove rinfrescando contemporaneamente età e chilometraggio del principale portatore di palloni, in attesa di veder ulteriormente crescere questo potenzialmente esplosivo sistema offensivo.

L’ULTIMA DISFATTA DEGLI OAKLAND RAIDERS

Carr e Gruden si ritroveranno anche a Las Vegas?

Di certo la sconfitta dei Raiders contro i Jaguars non è passata inosservata. E mai potrebbe, dato che dopo quasi sei decadi di football nero-argento trascorse tra Oakland e Los Angeles – ma sempre e comunque in California – la franchigia lascia una delle fan base maggiormente pittoresche e vivaci dell’intero panorama Nfl con un risultato deludente, immeritato tanto quanto quell’imminente trasloco se paragonato alla passione che la gente del posto ci mette oggi e ci ha messo in tutte queste generazioni. La squadra diretta da Jon Gruden pareva aver svolto un lavoro tutto sommato soddisfacente fino ad un mese fa, quando tra queste righe se ne tessevano le lodi per via di una posizione di sicura importanza per le economie post-stagionali della Afc. Allora vigeva un bilancio di 6-4 e ci si poneva ad affrontare il mese decisivo con rinnovate speranze di togliere quel peso d’incompetenza e inadeguatezza che si era fatto largo dalle ceneri della prima esperienza di Gruden su questa sideline, con permanenze fuori dai playoff eccessivamente lunghe per essere digerite a modo, oggi confermate da quattro sconfitte consecutive andate a distruggere tutto quanto di buono i Raiders avevano fatto paventare.

In soli trenta giorni Oakland ha vissuto una regressione spaventosa, l’attacco ha giocato talmente male da mettere assieme la miseria di 12 punti contro Jets e Chiefs dimostrando di non saper competere né contro squadre mediocri e né contro concorrenti divisionali confermatesi di qualità superiore, di certo l’infortunio di Jacobs – encomiabile nell’aver giocato con quel tipo di dolore – ha fortemente limitato l’elemento primario, pura benzina per la filosofia offensiva di Gruden, con la conseguenza che tutta la pressione se n’è inevitabilmente andata su un Carr finito spesso sotto la più approfondita analisi critica, riaccendendo inevitabilmente tutte le discussioni riguardanti un futuro che a Las Vegas più di qualcuno ritiene non possa nemmeno cominciare. Le dinamiche della brutta sconfitta con i Jaguars si riassumono in una partita incoraggiata dalle 148 yard registrate dal quarterback nel solo primo quarto e dal big play confezionato da Tyrell Williams, solo piccoli indizi di potenzialità emerse in un numero insoddisfacente di circostanze, fino allo spreco di un vantaggio che la squadra non è riuscita a mantenere nemmeno dinanzi ad un evento così carico di emozioni e tensioni date da quella che con tutta probabilità è stata l’ultima esibizione casalinga della franchigia – salvo ulteriori ritardi nei lavori – prima della partenza per la terra dei casinò.

Le sole 46 yard rimediate dalla rete di passaggi in tutto il secondo tempo esemplificano alla perfezione il crollo offensivo, supportato da una prestazione men che mediocre della batteria di ricevitori – Williams ha fatto seguire il suo touchdown di 40 yard ad un drop sanguinoso nel terzo periodo – lasciando al sempre affidabile tight end Darren Waller, arma da non sottovalutare, il compito di tenere alta la bandiera del settore. Per la seconda settimana consecutiva i Raiders non sono riusciti a segnare nemmeno un punto in tutta la ripresa, un aspetto di minor conto contro i Titans se pensiamo al grande divario nel punteggio ma assai più pesante se relazionato ad un avversario nettamente in difficoltà come Jacksonville, in piena crisi di risultati, di quarterback, di organizzazione per il futuro.

Il tutto si riduce alla scenetta non molto divertente già vissuta l’anno passato, con Gruden chiamato a dover gestire la pesantezza del contratto di cui detiene la titolarità rapportandola ai risultati ottenuti sul campo, continuando a giustificare settimanalmente la frustrazione del non riuscire a tirar fuori una stagione da playoff per un ambiente della cui cultura lui fa indissolubilmente parte, soppesando tutto il duro lavoro svolto per raddrizzare la direzione di una franchigia gloriosa, che per il momento si deve semplicemente accontentare di ripartire da una classe di rookie niente meno che ottima gettando i presupposti per un futuro più competitivo, anche se non si sa quanto vicino.

I MILLE VOLTI DI HOUSTON

Carlos Hyde, alla quinta squadra in tre anni, è stato determinante per le sorti offensive dei Texans.

Il trascorrere delle settimane dovrebbe normalmente portare a conoscere valori vicini al definitivo nel quadro d’analisi della situazione di ogni squadra Nfl, ma i Texans perseverano con perfidia nel non voler farsi incorniciare in alcun modo, offrendo una versione sempre differente di una squadra assai difficile da etichettare e comprendere. Ogni tanto pare che tutte le attrezzature necessarie per fare strada nei playoff siano ben presenti, motivo che sta indiscutibilmente alla base della recente ed esclamativa affermazione contro i Patriots, poi però si fa sempre largo quella scomoda sensazione di non completa affidabilità, come quando si sbaglia completamente l’approccio alla gara lasciandosi battere in maniera eclatante da Denver, non certo il top della competizione, rimettendo ancora in discussione tutto.

La vittoria contro i Titans, per quanto importante, lascia in ogni caso il beneficio del dubbio. E’ un successo di quelli definibili come clutch, che arrivano nelle circostanze corrette rispecchiando aspettative alte, anche se poi si fanno largo dei piccoli dubbi riguardanti l’esecuzione. Scenario perfetto, division in palio e non solo la posizione ai playoff in gioco, ma pure la presenza. Dinanzi, la concorrente più temibile, quella Tennessee reduce da quattro vittorie consecutive, due bilanci identici, chi avrebbe perso si sarebbe dannatamente complicato l’esistenza, anche se a serata inoltrata i Bills avrebbero fatto un favore a chi sarebbe uscito perdente dal duello di Nashville. Vincere in una situazione del genere non può che innalzare l’immagine di chi vi riesce, anche se poi le conclusioni sono rappresentate da una corretta digestione di tutti gli elementi che le compongono: bene allora l’aver dominato la prima parte di gara nonostante gli squilibri statistici pro-Titans, bene l’aver messo in piedi le azioni difensive necessarie per rendere inefficaci quelle 432 yard di total offense, meno bene invece i due cambi di possesso con l’attacco dei Texans saldamente poggiato sulla linea della yarda – azioni che a gennaio costano un prezzo doppio – ed il non essere riusciti a mettere via prima una gara che Tennessee ha momentaneamente acciuffato nel quarto periodo.

Se indizi del genere consentono di poter ritenere Watson fortissimo ma non ancora degno dell’èlite del ruolo, va invece sottolineato come Houston abbai vinto a piene mani la scommessa-Hyde, passato dall’essere un mezzo rottame passato da cinque squadre nel giro di sole tre stagioni al divenire una delle ragioni determinanti per questi successi offensivi. C’è voluto lo spegnimento della ventinovesima candelina per ottenere la prima annata da 1.000 yard stagionali, meglio tardi che mai, ma il running back ha portato alla causa molto più, assestandosi al nono posto di lega per primi down ottenuti su corsa (52) e soprattutto terzo nel confezionamento di giocate pari o superiori alle 20 yard, una versione inedita del giocatore che lo posiziona dietro solamente a Nick Chubb e Lamar Jackson, un appaiamento bizzarro per un back non certo conosciuto come elettrizzante, ma dannatamente concreto.

Ed ora il rush finale, prestando la massima attenzione alla sfida con dei Buccaneers caldissimi che possono tranquillamente banchettare con le secondarie texane, prima del grande appuntamento finale ancora contro i Titans, la cui proporzione andrà commisurata ai risultati ottenuti dalle due compagini nella penultima giornata di regular season. I Texans comandano il loro destino ed il tie-breaker è a favore, i playoff sono ad un passo, basta decidere che vestito indossare per presentarvisi, sfruttando al massimo il talento di Watson, Hopkins, Fuller, Hyde e Stills – quest’ultimo gradevole riscoperta del match contro Tennessee – e la capacità di giocatori come l’onnipresente Zach Cunningham e l’acciaccato ma efficacissimo Justin Reid nel controbilanciare le opportunità difensive di un reparto in netta difficoltà nel contenere il gioco di passaggi avversario, continuando ad alimentare tutte queste differenti ed a volte contrastanti idee che i Texans possono generare week in e week out.

I PROGRESSI DI DWAYNE HASKINS E IL FUTURO DEI REDSKINS

Dwayne Haskins è progredito, ma la strada è ancora parecchio lunga…

A debita distanza dal punto di rottura della stagione dei Redskins, simboleggiato dal licenziamento di Gruden ed il seguente insediamento di Haskins in quella serie di test che dovranno plasmarne o meno la figura di quarterback del futuro, è tempo di tirare le prime somme sull’ennesima deludente esperienza maturata nell’era-Snyder. Come comprensibile la fatica ritrovare quella sensazione d’ascesa è di sensibili proporzioni, nulla accade dall’oggi al domani a maggior ragione se ancora una volta si è chiamati a dover sistemare tutti i reparti e se l’attacco è condotto da un quarterback che molti hanno criticato per non aver trascorso una maggiore esperienza al college, fattore che a livello tecnico sarebbe senza dubbio servito di più rispetto al farsi accogliere dalla fanfara dei 50 passaggi da touchdown lanciati nell’ultima stagione con i colori di Ohio State per poi navigare con queste difficoltà nel mare del professionismo.

Qualche progresso c’è, è innegabile, ma Haskins – come peraltro confessato alla stampa – è conscio di non aver minimamente raggiunto il punto in cui desidererebbe trovarsi ora nella sua carriera al piano superiore. Se non altro il braccio è esattamente così come gli scout lo avevano pubblicizzato, molto forte e tutto sommato anche preciso nella rotazione del pallone – domenica ne è uscito un gioco da 75 yard con un altro pezzetto di futuro, Terry McLaurin – resta da lavorare molto sulla presenza nella tasca, aspetto dove Dwayne tende ancora a tenere troppo il pallone causando l’arrivo della pass rush, sul riconoscere con miglior efficacia la disposizione difensiva e sul riuscire a tenere più costanti i ritmi offensivi, un aspetto che ha letteralmente bloccato la squadra in questa particolare fase del gioco schiacciandola in una produttività valida solamente per i bassifondi di lega.

La gara contro gli Eagles ha evidenziato delle buone premesse per il futuro, ma anche delle lacune che ancora non permettono quel deciso salto di qualità. L’attacco condotto da Haskins si è mosso sufficientemente bene per creare una rara segnatura nel primo quarto, ha rimediato a quattro differenti situazioni di svantaggio rispondendo colpo su colpo alle segnature degli Eagles come mai la squadra era stata capace di fare in precedenza quest’anno, anche se poi il tutto rischia facilmente di cadere nel dimenticatoio a causa del beffardo epilogo di una gara persa nelle fasi decisive. Questo aspetto racchiude di conseguenza tutte le considerazioni derivanti dal fatto che si sarebbe potuto battere un avversario di rilevanza continuando a costruire morale positivo sia per un’attualità che avrebbe potuto presentare la terza vittoria in quattro partite – cosa impensabile fino ad un mese fa – ma anche per il futuro, tenuto conto di quanto importante è terminare positivamente anche un campionato già andato a male tempo prima, edificando premesse che a volte riescono ad essere trasportate intatte anche durante il lungo viaggio della offseason.

Al di là dei progressi, lenti ma concreti, ci si deve ora concentrare sulla parte più difficile, che passa dalla riorganizzazione interna alla ricerca di una conformazione stabile e lungimirante, due parole che a Washington non provocano altro che sorrisi di scherno. E qui si innescano decisioni pesanti, che dovranno riguardare in primis un Bruce Allen visto sempre più come il problema principale – in netta condivisione con Snyder – della mancata funzionalità capitolina, ma pure assumere toni bruschi nei confronti degli errori del passato che attualmente gonfiano a dismisura il libro-paga, vale a dire Josh Norman, propri colui che ha subìto la meta decisiva degli stessi Eagles che schieravano tre ricevitori in salute, Alex Smith, che di colpe non ne ha ma detiene comunque un contratto troppo pesante, e Jordan Reed, inaffidabile dal punto di vista delle presenze in campo, senza dimenticarsi della grana Trent Williams, altro coltello ben conficcato nel costato di una franchigia sull’orlo della disperazione.

LA DEFINITIVA CADUTA DEI BROWNS

Non è andata esattamente così…

Domenica è capitolata anche l’ultima speranza dei Browns di salvare una stagione cominciata con ben altri auspici, e che sarà invece ricordata solamente come un’annata persa, priva di progressi sostanziosi nonostante il tasso di talento presente a roster. La chiave è chiaramente rappresentata dalla mancata detonazione della bomba offensiva che avrebbe dovuto far cambiare marcia ad una squadra che pareva aver trovato la strada giusta proprio grazie al suo attuale head coach, rivestito del ruolo di offensive coordinator nel corso nel 2018 e responsabile dei grossi miglioramenti vissuti dall’attacco da quel momento in poi, un’inerzia che Cleveland ha letteralmente perso per strada nonostante l’operazione di mercato più discussa di tutta la offseason.

Molto, e non potrebbe essere altrimenti, passa dal ruolo di leader rivestito da un Mayfield purtroppo regredito in alcuni aspetti del suo gioco rispetto all’annata scorsa. Se da un lato le soluzioni tattiche in run-pass option sono quelle che hanno fornito le maggiori probabilità di successo offensivo, sono state le chiamate a dropback classico a lasciare a desiderare nella loro produttività, per una serie di fattori che comprendono la minor precisione nei passaggi, la maggior tendenza al turnover, l’eccessiva insistenza nel cercare le due soluzioni primarie (Beckham e Landry) e non ultima l’inefficacia della linea offensiva in fase di protezione su passaggio. La mancanza di chimica con i ricevitori di certo non è d’ausilio se le due opzioni principali sono state rispettivamente cercate 123 (Landry) e 121 (Beckham) volte ed il resto della batteria di ricevitori di ruolo è risultata praticamente assente, legando in maniera eccessiva le sorti dell’attacco ad un qualcosa di troppo facilmente limitabile dalle difese avversarie.

Non valgono nemmeno più le scusanti di inizio anno, momento nel quale si discuteva accesamente del fatto che la squadra avesse fronteggiato una striscia brutale di appuntamenti per aprire l’anno tentando di giustificare un inizio che allora pareva comprensibilmente stentato, ma a questo punto non reggono nemmeno più tutte quelle aspettative che avevano sparato la questione troppo in alto, dal momento che i Browns sono attualmente 3-6 contro avversarie dal record vincente. Il che, tradotto lontano dai numeri, significa solamente che la squadra è stata totalmente inadeguata a fronteggiare competizione di qualità, un problema ancora più sensibile rispetto alle sole due mete registrate complessivamente da Beckham.

Impossibile quindi giustificare pure la figuraccia rimediata contro Arizona, la trentaduesima difesa di lega contro la quale questa combo di talenti ha prodotto 24 inutili punti in parte alimentati dalle solite giocate atletiche di Chubb, lasciando la rete di passaggi ferma ad 8.2 yard per completo delineando la pressoché totale assenza di significative giocate aeree. Per l’ennesima volta Beckham è stato a larghi tratti ignorato da un quarterback con il quale avrebbe dovuto sputare fiamme offensive insopportabili per chiunque ricavandone solo 66 yard, che unite alle 23 messe assieme da Landry forniscono un miglior concetto della magra scampagnata in terra desertica, l’ultimo e decisivo colpo sulle speranze di una stagione non certo disastrosa alla pari del precedente regime locale, ma non per questo meno avvilente.

GAME REWIND OF THE WEEK: Falcons @ 49ers

Uno dei finali di partita più incredibili di questa già bellissima stagione, e upset che si consuma tra gli attoniti sguardi dei fedelissimi del Levi’s Stadium, i quali assistono ad una clamorosa ed inattesa sconfitta della corazzata Niners grazie anche ad una super-prestazione del grande Julio Jones.

STAT LINE OF THE WEEK: 29/30, 307 yds, 4 TD

Nella notte in cui supera il record ogni epoca di Peyton Manning per passaggi da touchdown in carriera, Drew Brees si permette il lusso di una partita perfetta, fatta di un solo incompleto e di quattro letali mete che distruggono ciò che rimane dei Colts. Un’altra colata di cemento sulle certificate ambizioni da Hall Of Fame di uno dei più grandi quarterback di sempre, un altro traguardo leggendario per colui che assieme al suo head coach ha cambiato per sempre la narrativa della Louisiana del football professionistico.

 

ONE LINERS OF THE WEEK:

  • Gardner Minshew, oltre che per l’iconica immagine, sarà per sempre ricordato per aver rovinato l’uscita dei Raiders da un Coliseum a dir poco infuriato.
  • I Browns saranno l’unica squadra dell’ultimo decennio a non detenere almeno una stagione con record vincente in quella stessa misura temporale.
  • Jameis Winston è il primo quarterback di sempre a lanciare per almeno 450 yard in due gare consecutive, ma ancora non siamo del tutto convinti che sia un grande ottenimento se commisurato alla sua mancanza di cura del pallone.
  • Josh Norman che subisce il primo touchdown di carriera di Greg Ward per la vittoria degli Eagles al foto-finish fa riflettere a lungo sull’investimento al tempo deciso dai Redskins.
  • Prepara le valigie per Cincinnati, Joe Burrow…

A LOOK AHEAD:

  • Sabato si giocano tre partite, una delle quali vedrà lo scontro divisionale tra New England e Buffalo, con i Bills a cercare di invertire il trend delle ultime stagioni cercando di fare danni ai problematici Patriots.
  • I Texans volano in Florida al cospetto di Jameis Winston, che nonostante l’assenza di Mike Evans può uccidere qualsiasi secondaria, in particolar modo quella molto lacunosa di Houston: se Tennessee dovesse poi vincere in casa contro i Saints, si riaprono i giochi nella Afc South…
  • Cowboys contro Eagles, entrambe a quota 7-7, per la supremazia della mediocre Nfc East ed un posto ai playoff: chi perde è fuori.
  • Packers a Minnesota nel Monday Night, i Vikings sono ad una sola gara di distacco da Aaron Rodgers e compagni con il tie-breaker a sfavore, ma devono comunque tenere salda la sesta ed ultima posizione nella griglia dei playoff, l’ultimo sforzo prima di condannare definitivamente i Rams.

See ya!

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