Novanta, come gli anni trascorsi da quando un certo Charles Adams, facoltoso uomo d’affari del settore alimentare, si innamorò talmente tanto dell’hockey che decise di portarlo nella città che lo aveva adottato, Boston, facendo dei Bruins la prima squadra statunitense della NHL e, successivamente, una delle cosiddette Original Six.

Prima di morire, nel 1947, Adams fece in tempo a vedere i suoi giocatori sollevare la Stanley Cup per ben tre volte, nel 1929, 1939 e 1941, sotto la fulgida guida di Art Ross sia come general manager che come allenatore, giocando nell’intramontabile Boston Garden, inaugurato nel 1928.

Novanta come la paura che hanno sempre avuto gli avversari ad affrontare  gli Orsi che, intanto, dal quel 1941, sono andati a caccia del titolo per altre quattordici volte, portandolo a casa in tre occasioni.

L’ultima appena tre anni fa, in cui sconfissero i Vancouver Canucks al termine di una serie spettacolare che si protrasse fino alla settima partita, letteralmente dominata dagli uomini di Claude Julien, davanti al pubblico “nemico”.

Un trionfo che è arrivato a distanza di quasi quarant’anni dal successo di Bobby Orr e compagni, e che si sarebbe potuto ripetere lo scorso giugno se non fosse stato per gli inarrestabili Chicago Blackhawks di Jonathan Toews e Patrick Kane.

Fatto sta che, nonostante la cocente delusione, i Bruins sono riusciti a mantenere sostanzialmente intatto un nucleo che è ormai ai vertici della lega da alcune stagioni e che non ci pensa proprio a voler scendere di qualche gradino, anzi, continua a salire la scala che potrebbe regalarle nuova gloria, e la palese prova la stiamo avendo in questa stagione.

Infatti, Boston, quando mancano a malapena sette partite, si trova in testa non solo alla Eastern Conference, ma all’intera lega, con la possibilità di conquistare il secondo President’s Trophy, dopo quello del 1990.

Il motivo di tale rendimento lo possiamo trovare proprio in ciò che dicevo poc’anzi, cioè nell’aver tenuto il roster pressoché invariato e nell’aver saputo sostituire i giocatori perduti (Jagr, Seguin, Horton, Ference e Peverley su tutti) con altri che sono riusciti a contribuire in maniera decisa alla straordinaria regular season della franchigia del Massachussets.

Uno di questi è sicuramente Jarome Iginla. L’ex Flames e Penguins, è ancora alla ricerca del primo anello in carriera e sta facendo di tutto per riuscire nel suo intento, come dimostrano i 30 gol (leader della squadra) e i 31 assist messi a segno finora, che a 36 anni suonati, non sono assolutamente pochi.

Un’altra ottima aggiunta è stata quella dello svedese Loui Eriksson che ha colto al volo il compito di fare le veci di Tyler Seguin, nel frattempo passato a Dallas, producendo una più che sufficiente stagione da una trentina di punti.

Ma colui che sta facendo più notizia in quel di Boston è sicuramente Reilly Smith che, alla sua terza stagione tra i pro, è definitivamente esploso in un sistema di gioco che sembra calzargli a pennello e i 47 punti ne sono un’evidente prova.

Ciò che accomuna questi tre giocatori, però, non è solo il fatto che sono dei volti nuovo dalle parti del TD Garden, ma che occupano tutti il ruolo di ala destra, da cui si può intuire che derivi il maggiore pericolo dei Bruins.

Un pericolo che, a dire la verità, trapela anche dal centro, in cui risiedono David Krejci e Patrice Bergeron, coadiuvati dall’altro svedese, Carl Soderberg, che è riuscito a superare lo scoglio dell’anonima stagione da rookie, ritagliandosi un parte fondamentale nell’organigramma di coach Julien.

Per non parlare della fascia sinistra dove scorrono Milan Lucic e Brad Marchand o della linea difensiva occupata dal gigante Zdeno Chara e da Torey Krug che, in confronto a lui, sembra un folletto.

Se poi ci aggiungiamo la presenza tra i pali della saracinesca Tuukka Rask, beh i giochi sono presto fatti.

Senza dimenticare il manipolo di giocatori che partono da dietro, ma non per questo meno importanti rispetto a quelli succitati, come Dougie Hamilton, Johnny Boychuk, Gregory Campbell, Daniel Paille, Chris Kelly e chi più ne ha più ne metta.

Giocatori che non sono sicuramente delle star e che forse mai lo diventeranno, ma che sono tasselli rilevanti di una struttura che fa del collettivo la sua arma vincente per tornare a sollevare la Stanley Cup, perché la fame degli Orsi non si è ancora placata.

 

One thought on “La fame degli Orsi

Commenta

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.