Per usare una immagine forte, lo spettro del lockout per gli Americani è un po’ come tutte le “guerre-lampo” in cui gli Usa sono rimasti impigliati nel secondo dopoguerra. Dopo essere partiti annunciando il “blitzkrieg” che avrebbe risolto tutto nel giro di qualche settimana, la situazione si è sempre fatta un po’ più complicata.

Ti impantani una volta e ci ricaschi invariabilmente dopo qualche anno. Per cercare di evitare le situazioni di stallo, il commissioner Nba Stern avrebbe potuto chiedere consiglio al pari ruolo Gary Bettman. Gli avrebbe spiegato come e perché per ben due volte la Nhl si è fermata. E come è difficile uscire da una giungla di discussioni, proposte e controproposte.

La serrata Nhl si è verificata due volte nel giro di dieci anni e anche nell’hockey, in un caso, l’accordo è stato trovato a metà stagione. Ma in un’altra occasione, un decennio dopo, la stagione è saltata in toto.

La stagione cancellata, il 2004-2005, è quella che è entrata nella storia, ma i prodromi c’erano stati già nel 95, con la stagione chiusa con la After summer solstice Final Seven, quando l’ultimo puck della stagione corse sul ghiaccio della Continental Airlines Arena di East Rutherford addirittura il 24 giugno, consegnando il titolo ai New Jersey Devils.

Nel 1994-95 furono disputate solo 48 partite di Regular Season e per la prima e unica volta il campionato regolare terminò a maggio, dopo la cancellazione di 468 partite compreso l’All Star Game.

In quel caso, il motivo dello stop fu la mancata intesa sul salary cap, tra lo schieramento di proprietari e giocatori e la Lega. Dieci anni dopo, le 30 franchigie non la sfangarono altrettanto bene e le parti non riuscirono a salvare neanche una parte di quella che sarebbe stata la 88° edizione dell’Nhl.

Per la prima volta dal 1919 la Stanley Cup non fu assegnata e per la prima volta un campionato professionistico americano non si giocò per motivi attinenti a questioni lavorativo-contrattuali.

Il blocco fu dovuto al tentativo del commissioner Bettman di fare digerire a società e giocatori una piattaforma salariale che fosse legata alle entrate della Lega. La decisione era nata dalla constatazione che nelle ultime stagioni i club avevano speso gran parte dei loro guadagni per i salari dei giocatori, ponendo l’hockey professionistico americano al primo posto tra tutti gli sport per questa voce.

Il rischio default era tutto nelle cifre sciorinate dall’esperto Arthur Levitt, cui era stata affidata l’analisi della situazione finanziaria delle 30 squadre. Una perdita complessiva di 273 milioni di euro stimata per la sola stagione 2002-2003 cominciava a costituire un problema, da affrontare con
decisione.

Non che oggi la situazione sia migliorata granché sul fronte stipendi e per le anomalie persistenti in alcune società non mancano. Ma quanto meno lo “spavento” preso nel 2005 ha posto una serie di paletti di sicurezza.

Ai tempi del lockout, durante la lunga ed estenuante trattativa, l’esempio dei numeri troppo gonfiati fu lo sciagurato contratto stipulato dai New York Rangers con Bobby Holik, che poi era stato rescisso dopo un biennio.

La cancellazione dell’intera stagione fu annunciata ufficialmente da Bettman a febbraio, di fronte all’impossibilità di trovare un’intesa. Un compromesso fu infine trovato dopo 310 giorni con l’associazione dei giocatori che firmò l’accordo solo il 21 luglio.

In base all’intesa sottoscritta tra le parti, il salary cap sarebbe stato ritoccato ogni anno in modo da garantire ai giocatori il 54% dei guadagni della Lega. Il documento comprendeva tra l’altro anche un salary floor di garanzia.

Dopo la firma del contratto, per la prima volta in assoluto si dovette pensare a come traghettare il sistema-hockey verso la normalizzazione. Ma quella del lottery system che fu scelto per sostituire il draft 2005 e di come un rookie dalla classe adamantina come Sidney Crosby riuscì ad approdare a Pittsburgh, è tutta un’altra storia che forse non è stata ancora scritta per intero.

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