Ah shit, here we go again: non sicuramente il più aureo e poetico degli incipit, ma perdonatemi, è esattamente ciò che sto provando dentro di me in questo momento.
Esprimere le proprie emozioni affidandosi ai meme è la cosa più millennial – categoria nella quale entro proprio per il rotto della cuffia, tié generation Z – che esista ma ripeto, non è mia responsabilità se eventi del genere sono in grado di togliermi le parole di bocca o provocarmi un blocco dello scrittore, anche se scrittore non sono; mesi fa ho goffamente tentato di esprimere rammarico, gratitudine e comprensione verso Andrew Luck, uno dei miei giocatori preferiti in assoluto, in seguito al suo sorprendente ritiro ed oggi, circa quattro mesi dopo tale sciagura, mi trovo costretto a fare altrettanto per Luke Kuechly, uno dei primi volti che farà capolino nella vostra immaginazione se pensate alla NFL degli anni ’10 del ventunesimo secolo: il fatto che sia stato in grado di conquistare le vostre teste non deve sorprendere, in quanto Kuechly in questi otto magnifici anni ha conquistato ogni singolo centimetro quadrato del gridiron, essendo letteralmente ovunque, sempre e comunque.

Come spesso accade in NFL, dietro la genesi di una leggenda si cela una disgrazia: in questo caso la disgrazia è l’infortunio di Jon Beason, storico middle linebacker dei Panthers la quale rottura del tendine d’Achille ha aperto le porte del centro della difesa a Kuechly, poiché coach Rivera gli aveva inizialmente assegnato il ruolo di outside linebacker.
Da lì in poi, signori, storia mischiata ad epica, se per storia intendete intensità e per epica dedizione: credo fermamente che pochi giocatori instillassero altrettanto dolore negli animi dei coordinatori offensivi avversari, in quanto la conoscenza pressoché mimetica dell’attacco avversario lo rendeva a tutti gli effetti un loro collega, non un semplice giocatore.
Primo anno, le aspettative verso un ragazzo scelto nella top ten tendono spesso ad essere ingiustamente alte, ma nel suo caso la narrativa è completamente differente, poiché con il senno di poi possiamo affermare che tali aspettative fossero offensivamente basse: una volta finita la stagione, il suo nome lo si trovava al vertice della classifica per combined tackles.
Un rookie che guida la NFL per tackles totali? A tal proposito non deve sorprendere il riconoscimento di Defensive Rookie of the Year, anzi, devono disgustare e perplimere la mancata convocazione al Pro Bowl ed un posto in uno dei due Team All-Pro.

Fortunatamente, però, tali errori non sono più stati replicati ed infatti, dal 2013 a questa notte, Kuechly ha sempre trovato sia un posto fra gli All-Pro che al Pro Bowl: meno male.
Sempre nel 2013, Captain America ha messo insieme una delle prestazioni più impressionanti che io abbia mai visto: in una domenica estremamente bagnata, su un campo pesante nel quale tagliare o cambiare direzione fa spesso rima con una figura alquanto meschina, Kuechly ha annientato i Saints mettendo a segno 26 tackles, VENTISEI TACKLES, VENTI-SEI TACKLES, comodamente record all-time in una singola partita nella quale, per non farsi mancare niente, si è tolto pure lo sfizio di mettere le mani intorno all’ovale invece che ad un essere umano per assicurarsi un intercetto.
Provate per un secondo ad immaginare e contestualizzare cosa significhi mettere a segno ventisei tackles in una singola partita: nonostante i Saints abbiano guadagnato quasi il doppio delle yards ed il doppio tondo tondo di primi down, Carolina è riuscita comunque a portarsi a casa l’intera posta in palio. Non sono un analista esperto, ma ho come il presentimento che dietro tutto ciò si possa ancor oggi intravedere lo zampino del numero 59.

Passano gli anni, i riconoscimenti individuali continuano ad accumularsi ed eccoci giungere al magico e maledetto 2015: nonostante le tre partite saltate per un’odiosa commozione cerebrale, Kuechly continua ad esprimersi ai suoi livelli e, finalmente, quelli intorno a lui sembrano beneficiare della sua leadership e Carolina da eterna incompiuta si trasforma nella miglior squadra della lega, chiudendo l’anno su un perentorio 15-1.
Arrivano i playoff, non una novità per Luke, ma abbiamo tutti ben presente quanto giocare con i favori del pronostico possa risultare fatale: questo ragazzo, però, non è propriamente umano ed in quanto tale sembra essere immune alla pressione.
Due partite di distanza dal Super Bowl? Ma sì, terminiamole con 19 tackles totali e due pick six come un Marcus Peters qualunque, ignorando il fatto che ci sono inside linebacker che di pick six riescono sì e no a metterne a segno una nell’intera carriera.
Peccato per come sia terminato il Super Bowl, ma ciò che possiamo affermare con assoluta tranquillità è che dietro tale sconfitta non gli sia imputabile la benché minima colpa.
Cam era il cuore dei Carolina Panthers, in quanto il suo contagioso entusiasmo determinava il battito e ritmo della squadra, Kuechly era il cervello: potremmo parlare giorni della sua inimitabile etica del lavoro e non toccheremmo nemmeno per sbaglio il provante lavoro in palestra, in quanto ciò che separa Luke Kuechly da qualsiasi altro giocatore è il folle studio di film degli avversari.
Come mostratoci in All or Nothing, la vera passione del numero 59 sembrava essere trascorrere ore extra nella stanza dei linebacker a mandare ossessivamente avanti ed indietro la stessa giocata all’infinità tramite un controller della mia amata – ed odiata – XBox: non importava l’ora, le probabilità di incrociare Luke Kuechly in quell’asfissiante stanzetta erano sempre e comunque alte.

Diventa difficile a questo punto isolare un singolo momento della sua carriera attorno al quale costruirci un qualche tipo di storia, in quanto la sua consistenza nell’essere mai nulla di meno che eccellente farebbe sembrare irrispettoso sottolineare la brillantezza di una stagione piuttosto che di un’altra; ciò che chiunque avrà pensato questa mattina leggendo del suo ritiro sarà sicuramente l’orribile concussion rimediata nel 2017, durante il Thursday Night contro i Philadelphia Eagles: le commozioni cerebrali, purtroppo, sono parte del gioco e per quanto si stia facendo di tutto per ridurne la frequenza, credo rimarranno sempre l’effetto collaterale principe di questo sport.
Commozione cerebrale, dicevo: Kuechly è visibilmente sconvolto, un paio di lacrime irrigano i suoi spigolosi zigomi, e chiunque inizia ad interrogarsi su cosa significhi essere consapevoli che la propria testa a seguito di una collisione istantanea non sarà mai più la stessa. Abbiamo visto giocatori perdere dita, legamenti saltare, gambe assumere forme che non credevamo umanamente possibili, ma di giocatori così sconvolti per il proprio acciacco non ne avevamo memoria: evidentemente una mente brillante come la sua è ben consapevole del fatto che un infortunio del genere avrà ripercussioni sul lungo termine e che le proprie abilità cognitive, da un momento all’altro, potrebbero inesorabilmente ridursi e trasformarlo in una versione ridotta di sé stesso.
Luke Kuechly, signori, era sì un eccellente atleta, ma ciò che lo ha portato ad essere un talento generazionale era la propria testa, quindi una concussion, nel suo caso, può essere paragonata ad un crociato rotto per un running back.

Kuechly, Luck, Gronkowski, Calvin Johnson, Baldwin, Chancellor: tutti questi magnifici giocatori condividono il fatto di essersi ritirati prima dei trent’anni, ma anche qualcosa in più.
Vi ho infatti menzionato ragazzi che possono esibire una laurea a loro nome o una ben avviata carriera nel mondo dello spettacolo: insomma, il filo conduttore è l’essere più di un “semplice” giocatore di football americano e pertanto non deve sorprendere la loro decisione, in quanto carpirne le ragioni è piuttosto facile. Il football non è per sempre, è una breve parentesi in quell’intricata equazione che può essere la vita e questi ragazzi sono ben consci del fatto che una volta appesi caschetto ed armatura al chiodo ciò che garantirà loro la felicità ed un’esistenza soddisfacente sarà principalmente la loro testa: immagino debbano aver inquietato e non poco le testimonianze di un Brett Favre che ammette ripetuti vuoti di memoria, difficoltà a ricordarsi cose o persone e la traumatica paura di aver perso i propri occhiali da sole, comodamente riposti sulla propria testa per tutto il tempo.
Il football americano è in grado di regalare immortalità, fama e vera e propria adorazione da parte di milioni di sconosciuti, ma ciò che non può e non potrà mai garantire ai propri adepti è la salute: in un mondo nel quale l’aspettativa di vita continua a spingere in là la spazientita morte, non deve essere particolarmente rassicurante andare a letto con la consapevolezza che probabilmente a 45 anni per arrivare a fine giornata si dovranno sopportare le sofferenze tipiche di un ottantenne medio.
Continueremo ad essere inconsolabilmente tristi dinanzi ai ritiri di giocatori così forti ed amati, ma ciò non deve farci perdere di vista il fatto che per quanto ci piaccia compararli ai gladiatori stiamo parlando prima di tutto esseri umani che a differenza di questi ultimi non devono rimetterci la vita per il nostro intrattenimento.
La tristezza passa, la gratitudine per quanto mostratoci in questi anni domenica dopo domenica no: grazie anche a te Captain America per aver reso questi anni di football così dannatamente divertenti.
Buon proseguimento, LUUUUUUUUUUKE.

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